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Full text of "Opere di Vincenzo Monti .."

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OPERE 


DI 


IV  I 


VINCENZO  MONTI 


Tomo  II. 


TIP.    BERJIÀRDONI. 


POEMETTI 


VmCENZO  MONTI 


MILASO 

PRESSO  GIOVANNI  RESNiTI 


INDICE 


DKtUS  COSE  CONTKNUTE  IfEL  SECONDO  TOLUBOC. 


Ld  Bmilbzza  dell*  Unifebso.  Canto Pag.  i 

Jl  Pellegrino  Apostolico^  Foemett»  ,.«...»  i5 

Canto  primo • m  17 

Canto  secondo.    • m  a5 


In  MonrE  m  Uno  BAssritLE.  Cantica     ..«••«    3i 

Canto  I. M     33 

Canto  n •     •    .  «•     4x 

Canto  III »     49 

Canto  IV    .    • M     59 

Note  alla  BassTÌlliana • "7' 

Ayyertimento  dell'Editore.                  m    ^a 

Kagion  delle  Note    • •.«•73 

Notiùe  atoriche    .•.••; ^11 

Note  al  Canto  1 9»    80 

Note  al  Canto  II «•    96 

Note  al  Canto  III m  in 

Note  al  Canto  lY m  134 


▼I 
Là  MusoGoirrj Pag.  lay 

Avvertimeiito  premesso  airedizione  di  Venezia  del  1 797  .    *•  i  ag 
La  Musogonia.  Canto >>  i3i 

« 

Varianti  della  Musogonia,  tratte  dalla  stampa  incomin- 
ciata in  Roma  per  Luigi  Perego  Salvioni  nel  1793,  in-8.  n  i5i 

Note  alla  Musogonia »  i63 

Il  Prometeo m  181 

Al  cittadino  Napoleone  Bonaparte  comandante  supremo 
dell'armata  Italiana »  i83 

Prefazione  non  inutile m  i85 

•   Canto  primo    •    .    .  «;    .    .    .     .  '  .    .    .    .    .    .  »  193 

Canto  secondo m  ai8 

'    Camo  terzo-    /     1     .  ' .  >»  ^43 

Canto  quarto  (frammento  inedito) »>  a58 

Varianti  del  Prometeo,  tolte  jlaU'edizipne  di,  Milano»  presso 
la  Società  degli  Editori  degli  Annali  Universali  delle 
Scienze  e.  dell' Industria ,  i832 »  261 

In  morte 'di' Lorenzo  MjscberOni.  Cantica    \    .    .    m  271 

Avvertin^ento  dell' AqtorjC  premesso  all'edizione  milanese 
dell'agno.  i9oi»    , »»  aj3 

.  Canto^  primo « m  375 

Canto  secondo »»  282 

Canto  terzo >»  290 

Canto  quarto  •*.*...•... »  298 

Canto  quinto  ....,.•...,....«  5o8 

Variante  del  Canto  quarto .     .         w3i6 

Note  al  Canto  primo • *»  32i 

Note  al  Canto  terzo »  322 

Note  al  Canto  quarto « »  323 


▼Il 
Il  Baudo  della  Selva  Nera,  Poema Pag.  3a5 

Alla  M.  I.  e  R.  di  Napoleone  il  Grande      .    •    .     .  m  327 

Canto  I.     I  vaticinj »  33i 

Cauto  II.    Il  ferito  in  Albecco m  34o 

Canto  III.  La  presa  di  Ulma >»  35o 

Canto  IV.  Il  riposo m  358 

Canto  y.    La  spedizione  d'Egitto m  369 

Canto  VI.  Il  ziz  Brumaire »  384 

Frammenti  della  Parte  II  del  Bardo  della  Selya  Nera, 

pubblicati  dopo  la  morte  dell'Autore m  399 

Avvertimento  dell'Editore •*  400 

Canto  Vn.  La  pietà  filiale m  401 

Canto  Vili «412 

La  Spada  dì  Federico  II  re  di  Prussia,  Ottatfe    .  m  4i5 

La  Paungenesi  Politica.  Canto m  427 

Note  alla  Palingenesi  politica m  44^ 

La  Feroniade h  449 

Avvertimento  dell'Editore m  45i 

Canto  I »  453 

Canto  n y  M  476 

Canto  III M  491 

Frammenti  inediti  della  Feroniade :     .  m  509 

Note  alla  Feroniade m  5i3 

Avvertimento  dell'Editore m5i4 

Note  al  Canto  I *»  5i5 

Note  al  Canto  II »  53o 

Note  al  Canto  III -  538 

Frammento  d'una  Visione «•  547 


Ebbo»  («) 


COBBBZIONI. 


Pafp,  i32  verto  a4    ingombra 


M 

» 


i34 
i56 
336 

377 
389 


«9 


»    447    l^n* 


ai  Amor 

19  Anfitrione 

a  tocchi 

34  a  dalle  chiome 

a3  litologo 

19  inbriglia 

i3  Pag.  436. 


n    467   verso  i5    ministro  > 
9»    48 1      *'       9    costrette. 


ingombra. 

Amor, 

Amfitrione 

tocchi; 

e  dalle  chiome 

Ittiologo 

imbriglia 

Pao.  434 

ministro 

costrette  ; 


(*)  Questi  lieri  trrori  traiconero  mIo  in  akiioi  oMoiplarì. 


LA  BELLEZZA 


DELL'UNIVERSO 


MoHTi.  Poemetti, 


ARGOMENTO 

V  cràim  mirabile  y  onde  risulta  la  bellexx^  deltUnAferso 
fisico^  è  il  pruno  oggetto  del  Canto ,  che  scende  poi  a  con- 
siderarla neUe  waie  parti  della  Creaxione  e  nei  varj  acci- 
denti della  Natura,  Si  trattiene  sultuomOy  che  n^è  la  sede 
princqfale.  Dopo  averla  descritta  neWestemo  deUe  sue  mem- 
hra^  fa  una  digressione  sulla  beUexxa  deltanóna.  V  osserva 
quùtdi  nelle  varie  arti  étùmtaxpne^  le  quali  avendo  per  og^ 
getto  il  Bello  relativamente  alt  occhio^  alt  orecchio  e  altim- 
maginaxionej  si  dicono  belle  Arti.  Di  qui  prende  motóso  di  pas- 
sare al  bosco  Parrasio,  luogo  sacro  alle  Muse^  ove  questo 
Canto  fu  recitato  in  occasione  che  gli  Arcadi  si  erano  colà 
radunati  per  festeggiare  le  Noxx,^  del  Duca  Luigi  Braschi 
Onesti  con  Donna  Costanza  Falconièri.  Si  accennano  dopo 
gli  effetti  del  Tempo  in  dafmo  della  BeUexxa^  e  finisce  con 
una  breve  r^ssione  su  la  beUexxa  incorruttibile  della  Firtà, 


LÀ 


BELLEZZA  DELL'UNIVERSO 


CANTO 


Della  mente  di  Dio  candida  figlia, 
Prima  d'Amor  germana ,  e  di  Natura 
Amabile  compagna  e  maraviglia, 

Madre  de' dolci  affetti,  e  dolce  cara 
Dell' nom,  che  varca  pellegrino  errante 
Questa  valle  d'  esilio  e  di  sciagura, 

Vuoi  tu,  diva  Bellezza,  un  risonante 
Udir  inno  di  lode,  e  nel  mio  petto 
Un  raggio  tramandar  del  tuo  sembiante  7 

Senza  la  luce  tua  l'egro  intelletto 

Langue  oscurato,  e  i  miei  pensier  sen  vanno 
Smarriti  in  faccia  al  nobile  subbietto. 

Ma  qual  principio  al  canto,  o  Dea,  daranno 
Le  Muse?  e  dove  mai  degne  parole 
Dell'origine  tua  trovar  potranno  f 

Stavasi  ancora  la  terrestre  mole 

Del  Caos  sepolta  nell'abisso  informe, 
E  sepolti  con  lei  la  Luna  e  il  Sole^ 

E  tu  del  sommo  Facitor  su  l' orme 
Spanando,  con  esso  preparavi 
Di  questo  Mondo  l'ordine  e  le  forme. 

Vera  l'eterna  Sapienza,  e  i  gravi 
Suoi  pensier  ti  venia  manifestando 
Stretta  in  santi  d'amor  nodi  soavi. 


LA   BELLEZZA 

Teco  scorrea  per  Plnfinito^  e  quando 
Dalle  cupe  del  Nulla  ombre  ritrose 
L^  onnipossente  creator  comando 

Uscir  fé  tutte  le  mondane  cose , 

E  al  guerreggiar  degli  elementi  infesti 
Silenzio  e  calma  inaspettata  impose^ 

Tu  con  essa  alla  grande  opra  scendesti, 
E  con  possente  man  del  furibondo 
Caos  le  tenebre  indietro  respingesti, 

Che  con  muggito  orribile  e  profondo 
Là  del  Creato  su  le  rive  estreme 
S^odon  le  mura  flagellar  del  Mondo  3 

Simili  a  un  mar  che  per  burrasca  freme, 
E ,  sdegnando  il  confine ,  le  bollenti 
Onde  solleva,  e  il  lido  assorbe  e  preme. 

Poi  ministra  di  luce  e  di  portenti, 
Del  ciel  volando  pei  deserti  campi, 
Seminasti  di  stelle  i  firmamenti. 

Tu  coronasti  di  sereni  lampi 

Al  Sol  la  fronte^  e  per  te  awien  che  il  crine 
Delle  comete  rubiconde  avvampi^ 

Che  agli  occhi  di  quaggiù,  spogliate  alfine 
Del  reo  presagio  di  feral  fortuna, 
Invian  fiamme  innocenti  e  porporine. 

Di  tante  faci  alla  silente  e  bruna 

Notte  trapunse  la  tua  mano  il  lembo, 
E  un  don  le  festi  della  bianca  Luna^ 

E  di  rose  all^Àurora  empiesti  il  grembo, 
Che  poi  sovra  i  sopiti  egri  mortali 
Piovon  di  pei*le  rugiadose  un  nembo. 

Quindi  alla  terra  indirizzasti  Tali, 
Ed  ebber  dal  poter  de^tuoi  splendori 
Vita  le  cose  inanimate  e  frali. 

Tumide  allor  di  nutritivi  umori 
Si  fecondar  le  glebe,  e  si  fér  manto 
Di  molli  erbette  e  d^  olezzanti  fiori. 


AUor,  degli  occhi  lusingliiero  incanto, 

Crebber  le  chiome  ai  boschi^  e  gli  arbusceUi 
Grato  stillar  dalle  cortecce  il  pianto; 
AUor  dal  monte  corsero  i  ruscelli 
Mormorando  )  e  la  florida  riviera 
Lambir  fireschi  e  scherzosi  i  venticelli. 
Tutta  del  suo  bel  manto  Primavera 
Copria  la  terra;  ma  la  vasta  idea 
Del  gran  Fabbro  compita  ancor  non  era. 
Di  sua  vaghezza  inutile  parca 

Lagnarsi  il  suolo;  e  con  più  bel  desiro 
Sguardo  e  amor  di  viventi  alme  attendea. 
Tu  allor  raggiante  d^'un  sorriso  in  giro 
Dei  quattro  venti  su  le  penne  tese 
L^amra  mandasti  del  divino  Spiro. 
La  terra  in  sen  raccolse   e  la  comprese ^ 
E  un  dolce  movimento,  un  brividio 
Serpeggiar  per  le  viscere  s^ intese; 
Onde  un  fremito  diede,  e  concepfo; 

E  il  suol,  che  tutto  già  s^ ingrossa  e  figlia, 
La  brulicante  superficie  aprio. 
Dalle  gravide  glebe,  oh  maraviglia! 

Fuori  allor  si  lanciò  scherzante  e  presta 
La  vaga  delle  belve  ampia  famiglia* 
Ecco  dal  suolo  liberar  la  testa, 

Scuoter  le  giubbe,  e  tutto  uscir  d^un  salto 
n  biondo  imperator  della  foresta  : 
Ecco  la  tigre  e  il  leopardo  in  alto 
Spiccarsi  fuora  della  rotta  bica, 
E  fuggir  nelle  selve  a  salto  a  salto. 
Vedi  ^otto  la  zoUa,  che  F  implica. 

Divincolarsi  il  bue,  che  pigro  e  lento 
Isviluppa  le  gran  membra  a  fatica. 
Vedi  pien  di  magnanimo  ardimento 
Sovra  i  piedi  balzar  ritto  il  destriero , 
E  nitrendo  sfidar  nel  corso  il  vento; 


8  Là   BELLEZZA 

Indi  il  Cerro  ramoso,  ed  il  leggiero 
Daino  fiigaee,  e  mille  altri  animanti, 
Qual  mansueto,  e  qual  ritroso  e  fiero. 

Altri  per  valli  e  per  campagne  erranti, 
Altri  di  tane  abitator  crudeli, 
Altri  dell^uomo  difensori  €  amanti. 

■ 

E  lor  di  macchia  differente  i  peli 
Tu  di  tua  mano  dipingesti,  o  Diva, 
Con  quella  mano  che  dipinse  i  cieli. 

Poi  de^ color  più  Vaghi,  onde  Festiva 
Stagion  delle  campagne  orna  P aspetto, 
E  de^fireschi  ruscei  smalta  la  riva, 

L^ale  spruzzasti  al  vagabondo  insetto, 
E  le  lubriche  anella  serpentine 
Del  più  caduco  vermicciuol  nej^etto. 

Né  qui  ponesti  all^opra  tua  confine^ 
Ma  vie  più  innanzi  la  mirabil  traccia 
Stender  ti  piacque  dell^idee  divine. 

Cinta  adunque  di  calma  e  di  bonaccia 
Delle  marine  interminabil^  onde 
Lanciasti  un  guardo  su  Inazzurra  faccia. 

Penetrò  nelle  cupe  acque  profonde 

Quel  guardo,  e  con  bollor  grato  Natura 
Intiepidille,  e  diventar  feconde^ 

E  tosto  varj  d^  indole  e  figura 

Guizzaro  i  pesci ,  e  fin  dall^  ime  arene 
Tutta  inc3resp&r  la  liquida  pianura. 

I  delfin  snelli  coUe  curve  schiene 

Uscir  danzando  j  e  mezzo  il  mar  coprirò 
Col  vastissimo  ventre  orche  e  balene. 

Fin  gli  scogli  e  le  sirti  allor  sentirò 
Il  vigor  di  quel  guardo  e  la  dolcezza, 
E  di  coralli  e  d^erbe  si  vestirò. 

Ma  che?  Non  son,  non  sono,  alma  Bellezza, 
Il  mar,  le  belve,  le  campagne,  i  fonti 
11  sol  teatro  della  tua  grandezza: 


dell'  unttbiiso 


Anche  sul  dorso  dei  petrosi  monti 
Talor  t^ assidi  maestosa,  e  rendi 
Belle  deU^alpi  le  nevose  fronti: 

Talor  sul  giogo  abbrustolato  ascendi 
Del  fumante  Etna,  e  nell'orribil  veste 
Delle  sue  6amme  ti  ravvolgi  e  splendi. 

Tu  del  nero  aquilon  su  le  funeste 
Ale  per  V  aria  alteramente  vieni , 
E  passeggi  sul  dorso  alle  tempeste: 

Ivi  spesso  d'orror  gli  occhi  sereni 

Ti  copri,  e  mille  intomo  al  capo  accenso 
Rugghiano  i  tuoni,  e  strisciano  i  baleni. 

Ma  sotto  il  vel  di  tenebror  sì  denso 
Non  ti  scorge  del  vulgo  il  debil  lume. 
Che  si  confonde  nell^  error  del  senso. 

Sol  ti  ravvisa  di  Sofia  Paciune, 
Che  nelle  sedi  di  Natura  ascose 
Ardita  spinge  del  pensier  le  piume. 

Nel  danzar  delle  stelle  armoniose 
Ella  ti  vede,  e  nell'occulto  amore 
Che  informa  e  attragge  le  create  cose. 

Te  ricerca  con  occhio  indagatore , 
Di  botaniche  armato  acute  lenti, 
Nelle  fibre  or  d^un^erba  ed  or  d'un  fiore: 

Te  dei  corpi  mirar  negli  elementi 
Sogliono  al  gorgogUo  d'acre  vasello 
I  Chimici  curvati  e  pazienti. 

Ma  più  le  tracce  del  divin  tuo  bello 
Discopre  la  spaxtita  Anatomia 
Allorché  armata  di  sottil  coltello 

I  cadaveri  incide,  e  l' armonia 

Delle  membra  rivela,  e  il  penetrale 
Di  nostra  vita  attentamente  spia. 

O  uomo ,  o  del  divin  dito  immortale 
Ineffid>il  lavor,  forma,  e  ricetto 
Di  spirto  e  polve  moribonda  e  frale, 


IO  LÀ  BELLEZZA 

Glii  può  cantar  le  tue  bellezze  ?  ÀI  petto 
Manca  la  lena^  e  il  yerso  non  ascende 
«Tanto,  che  arrivi  all^alto  mio  concetto. 

Fronte  che  g^aarda  il  cielo,  e  al  cielo  tende ^ 
Chioma  che  sopra  gli  omeri  cadente 
Or  bionda,  or  bruna  il  capo  orna  e  difende^ 

Occhio,  dell^alma  interprete  eloquente, 
Senza  cui  non  avrìa  dardi  e  faretra 
Amor,  né  Tali,  né  la  face  ardente^ 

Bocca  dond^  esce  il  riso  che  penetra 
Dentro  i  cuori,  e  T accento  si  disserra, 
Ch^or  severo  comanda,  or  dolce  impetra; 

Mano  che  tutto  sente  e  tutto  afferra, 
E  nell^arti  incallisce,  e  ardita  e  pronta 
Gittadi  innalza,  e  opposti  monti  atterra; 

Piede,  su  cui  Puman  tronco  si  ponta, 
E  parte  e  riede,  e  or  ratto  ed  or  restio 
Varca  pianure,  e  gioghi  aspri  sormonta; 

E  tutta  la  persona  entro  il  cuor  mio 
La  maraviglia  piove,  e  mi  favella 
Di  quell^  alto  Saper  che  la  compio. 

Taccion  d^amor  rapiti  intomo  ad  ella 

La  terra,  il  cielo;  ed:  Io  son  io,  v'é  sculto, 
Delle  create  cose  la  più  bella. 

Ma  qual  nuovo  d^idee  dolce  tumulto! 

Qual  raggio  amico  delle  membra  or  viene 
À  rischiararmi  il  laberinto  occulto? 

Veggo  muscoli  ed  ossa,  e  nervi  e  vene, 
Veggo  il  sangue  e  le  fibre,  onde  s^ alterna 
Quel  moto  che  la  vita  urta  e  mantiene; 

Ma  nei  legami  della  salma  intema. 

Ammiranda  prigioni  cerco,  e  non  veggio 
Lo  spirto  che  la  move  e  la  governa. 

Pur  sento  io  ben  che  quivi  ha  stanza  e  seggio, 
E  dalla  luce  di  ragion  guidato 
In  tutte  parti  il  trovo,  e  lo  vagheggio. 


DBIX' mnVBMSO  II 


O  spirto^  o  immago  dell^Etemo,  e  fiato 
Di  quelle  labbra,  alla  cui  voce  il  seno 
Si  squarciò  dell'abisso  fecondato , 

DoTc  andiir  P  innocenza  ed  il  sereno 
Della  pura  beltà,  di  cui  vestito 
Discendesti  nel  carcere  terreno  7 

Ahi,  misero!  t'han  guasto  e  scolorito 
Lascivia,  ambision,  ira  ed  orgoglio, 
Che  alla  colpa  ti  fero  il  turpe  invito! 

La  tua  ragione  trabalzar  dal  soglio, 
E  lacero,  deluso  ed  abbattuto 
T^  abbandonar  nell'onta  e  nel  cordoglio, 

Siccome  incauto  pellegrin  caduto 
Nella  man  de' ladroni,  allorché  dorme 
Il  Mondo  stanca  e  d'ogni  luce  muto. 

Eppur  sul  volto  le  reliquie  e  l'orme, 
Fra  il  turbo  degli  affetti  e  la  rapina, 
Serbi  pur  anco  dell'antiche  forme ^ 

Ancor  dell'alta  origine  divina 
I  sacri  segni  riconosco^  ancora 
Sei  bello  e  grande  nella  tua  rovina:    • 

Qual  ardua  antica  mole,  a  cui  talora 
La  folgoK  del  cielo  il  fianco  scuota, 
Od  il  tempo  che  tutto  urta  e  divora. 

Piena  di  solchi,  ma  pur  salda  e  immota 
Stassi,  e  d'offese  e  danni  carca  aspetta 
Un  nemico  maggior  che  la  percota. 

Fra  l'eccidio  e  l' oxror  della  soggetta 
Colpevole  Natura,  ove  l'immerse 
Stolta  lusinga  e  una  feital  vendetta. 

Più  bella  intanto  la  Virtude  emerse, 

Qual  astro  che  splendor  nell'  ombre  acquista, 
E  in  rìso  i  pianti  di  quaggiù  converse. 

Per  lei  gioconda  e  lusinghiera  in  vista 
S'appresenta  la  Morte,  e  l'amarezza 
D' ogni  sventura  col  suo  dolce  è  mista. 


12  LA.  BELLEZZA 

Lei  gaarda  il  ciel  dalla  superna  altezza 
Con  amanti  pupille^  e  per  lei  sola 
S^  apparenta  dell^uomo  alla  bassezza. 

Ma  dove,  o  Diva  del  mio  canto,  vola 
L^  audace  immaginar?  dove  il  pensiero 
Del  tuo  Vate  guidasti  e  la  parola? 

Toma,  amabile  Dea,  toma  al  primiero 
Gammin  terrestre,  né  mostrarti  schiva 
Di  minor  vanto  e  di  minore  impero. 

Toma  ^  e  se  cerchi  errante  fuggitiva 
Devoti  per  F  Europa  animi  ligi, 
E  tempio  degno  di  si  bella  Diva, 

iSfon  t'aggirar  del  morbido  Parigi 
Cotanto  per  le  vie,  né  sulle  sponde 
Della  Neva,  dell' Istro  e  del  Tamigi. 

Volgi  il  guardo  d'Italia  alle  gioconde 
Alme  contrade,  e  per  miglior  cagione 
Del  fiume  tibérin  fermati  all'onde. 

Non  è  straniero  il  loco  e  la  magione. 
Qui  fu  dove  dal  Cigno  venosino 
Vagheggiar  ti  lasciasti,  e  da  Marone^ 

E  qui  reggesti  del  Pittor  d'Urbino 

I  sov;rani  pennelli,  e  di  quel  d'Amo 

Ti  Michel  più  che  mortale  Angel  divino. 
Ferve  d'abne  si  grandi,  e  non  indamo, 

II  Genio  redivivo.  Al  suol  romano 
D'Augusto  i  tempi  e  di  Leon  tornamo. 

Vedrai  stender  giuKve  a  te  la  mano 

Grandezza  e  Maestà,  tue  suore  antiche, 
Che  ti  chiaman  da  lungi  in  Vaticano. 

T'infioreranno  le  bell'Arti  amiche 
La  via  dovimque  volgerai  le  piante. 
Te  propizia  invocando  alle  fatiche. 

Per  te  all'occhio  divien  viva  e  parlante 

La  tela  e  il  masso  ^  ed  il  pensiero  é  in  forsi 
Di  crederlo  insensato,  o  palpitante^ 


DEIX^  TRflTBHSO 


Per  te  dì  marmi  i  duri  alpestri  dorsi 
SpogUan  le  balze  tiburtine,  e  il  monte 
Che  Circe  empieva  di  leoni  e  d^orsi; 

Onde  poi  mani  architettrìei  e  pronte 
Di  moli  aggravan  la  latina  arena 
D^ etemi  fianchi  e  di  superba  fronte: 

Per  te  risuona  la  notturna  scena 
Di  possente  armonia  che  Palme  bea, 
E  gli  affetti  lusinga  ed  incatena^ 

E  questa  Selva ,  che  la  selva  Àscrea 
Imita,  e  snona  di  febeo  concento, 
Tutta  è  spirante  del  tuo  nume,  o  Dea; 

E  questi  lauri  che  tremar  fa  il  vento  ^ 
E  queste  che  premiam  tenere  erbette , 
Sono  d'un  tuo  sorrìso  opra  e  portento; 

E  tue  pur  son  le  dolci  canzonette 

Che  ad  Imeneo  cantar  dianzi  s^  intese 
L^Àrcade  schiera  su  le  corde  elette. 

Stettero  al  grato  suon  Paure  sospese, 
E  il  bel  Parrasio  a  replicar  fra  nui 
Di  Luigi  e  Costanza  il  nome  apprese. 

Ambo  cari  a  te  sono,  e  ad  ambidui 
Su  PamabQ  sembiante  un  feritore 
Raggio  imprimesti  de^begli  occhi  tui; 

Raggio  che  prese  poi  la  via  del  core, 
E  di  Virtù  congiunto  all^  aurea  face 
Fé  nelPalme  avvampar  quella  d^ Amore. 

Yien  dunque,  amica  Diva.  H  Tempo  edace, 
Fatai  nemico,  colla  man  rugosa 
Ti  combatte,  ti  vince,  e  ti  disface. 

Egli  il  color  del  giglio  e  della  rosa 
Toglie  alle  gote  più  rìdenti,  e  stende 
Dappertutto  la  falce  ruinosa. 

Ma  se  teco  Virtù  scanna  e  discende 
Nel  cuor  dell^uomo  ad  abitar  sicura, 
Passa  il  veglio  rapace,  e  non  t'offende; 


l4  LÀ   BBIXBZE4  DEIX^  mOVERSO 

E  solo,  allorché  fia  che  di  Natura 
Ei  franga  la  catena,  e  urtate  e  rotte 
Deff Universo  cadano  le  mura, 

E  spalancando  le  voraci  grotte 

L^  assorba  il  Nnfia,  e  tutto  lo  sommerga 
Nel  muto  orror  della  seconda  notte, 

Ài  fracassato  Mondo  allor  le  terga 
Darai  friggendo,  e  su  T eterea  sede, 
Ove  non  fia  che  Tempo  ti  disperga, 

Stabile  fermerai  F  eburnea  piede. 


IL 


PELLEGRINO 


APOSTOLICO 


POEMETTO 

IN  OCCASIONE   DEL   VIAGGIO  FATTO   DA  S.   S.  PIO  VI 
A  VIENNA  l'anno  HDCGLXXXII. 


IL 


PELLEGRINO  APOSTOLICO 


CANTO    PRIMO 


Sollecita  nel  ciel  Palba  sorgea, 
Che  su  i  flebili  colli  di  Quirino 
La  gran  partenza  illuminar  dovea, 

E  intrepido  anelando  al  suo  cammino, 
Già  stavasi  prostrato  all^ara  innante 
Della  Chiesa  F  augusto  Pellegrino. 

La  voce,  il  gesto,  il  mover  delle  piante, 
Non  d^uom  mortale,  ma  parca  d^un  Dio  : 
Foco  eran  gli  occhi ,  e  foco  era  il  sembiante. 

Squallide,  e  con  lugubre  mormorio    , 
Affollate  le  turbe  in  Vaticano 
Traeansi  a  dirgli  il  doloroso  addio , 

Somiglianti  ad  un  mar  che  da  lontano 

Fremer  s^ode,  o  a  gemente  aura  notturna 
Che  fa  le  selve  lamentar  pian  piano. 

Là  dove  nell^orror  sacro  dell^uma 
Dorme  di  Pietro  in  sotten'anea  sede 
L^ apostolica  polve  taciturna, 

Sul  marmo  trionfai  sedea  la  Fede: 
Più  che  la  neve  immacolato  e  schietto 
Copriala  un  velo  dalla  fronte  al  piede  ^ 

Ma  la  bellezza  del  celeste  aspetto 

Traspar  più  vaga  da  quel  velo,  e  spira 
Riverenza  ed  amor,  tema  e  diletto. 
Monti.  Poemetti,  a 


l8  IL  TBIXEGKBXO  APOSTOLICO 

Essa  lo  sguardo  che  penetra  e  gira 
Fin  sopra  i  cieli,  e  Pinfemal  trapassa 
Ampia  Yorago  di  tormento  e  d'ira, 

Profondamente  sospirando  abbassa, 
E  colla  man  la  guancia  si  sostiene, 
Da  pensier  grave  affaticata  e  lassa^ 
[■       Ma  di  rema  nel  suo  duol  ritiene 

La  maestà  pur  anco^  ed  infiammarse 
Il  cuor  si  sente  d'ardimento  e  spene. 

Surse  tosto,  e  sembrò  nel  suo  levarse 
La  bianca  nube,  che  dal  ciel  caduta 
Sul  Tabemacol  folgorando  apparse. 

Corre  alFeroe  d'incontro,  e  lo  saluta^ 
E  poiché  in  atto  di  gentil  clemenza 
Stettesi  alquanto,  e  riguardoUo  muta: 

O  uom,  disse,  cui  l'alta  Intelligenza 

Per  me  tragge  a  pugnar,  per  me,  che  sono 
Diva  in  ciel  nata,  e  d' immortai  potenza, 

Guardami,  uom  forte,  io  son  che  ti  ragiono, 
Io  là  figlia  di  Dio^  guardami,  e  cura 
D'un' afflitta  ti  prenda  e  del  suo  trono. 

Piena  è  l'impresa  di  perigli,  e  dura^ 
Ma  fia  bello  il  patir,  begli  i  cimenti, 
Se  il  mio  spirto  ti  guida  e  t'assicura. 

Le  inspirate  da  me  parole  ardenti 
Sono  una  spada  che  ferisce  e  sana, 
E  d'ambe  parti  penetrar  la  senti. 

La  ragion,  che  l'error  doma  ed  appiana, 
E  l'alme  inonda  de' bei  raggi  suoi, 
È  mia  scorta  e  compagna,  è  mia  germana. 

Ella  sul  labbro  degl'invitti  Eroi, 

Su  la  cui  tomba  io  seggo,  e  per  cui  stetti, 
E  del  cui  sangue  ini  nutria  dappoi. 

Contro  l'orgoglio  degli  umani  affetti 
Parlò  sicura,  e  per  le  vie  del  Vero 
I  cuor  più  schivi  attrasse  e  gl'intelletti. 


CAUTO  PRIVO  ig 

Or  la  mente  dell'  uom  per  lo  sentiero 

Di  fallace  Sofia,  fattasi  ancella 

Di  ree  dottrine  che  vagar  la  féro^ 
Somiglia  un  mar  cui  torbido  flagella 

Assiduo  soffio  di  contrario  vento, 

Che  mesce  il  ciel  coll^onda  e  la  procella. 
Ma  su  Tirato  instabile  elemento, 

E  camminar  su  le  tempeste  io  soglio , 

Come  sopra  ben  saldo  pavimento. 
Al  mio  grido  pietoso ,  al  mio  cordoglio 

I  mortali  indurar  Palme  sedotte, 

E  si  formar  nel  petto  un  cuor  di  scoglio. 
Ma  uscir  dal  fianco  delle  balze  rotte 

I  fonti  io  (accio  limpidi  e  sinceri, 

E  traggo  il  giorno  dalla  fosca  notte. 
Per  me  confonde  li  Nabuchi  alteri 

Daniel  fanciullo,  e  placan  le  tremanti 

Donzelle  gl'inflessibili  Assueri. 
Tu  vanne,  ardisci  e  parla.  De' Regnanti 

Sta  il  cor  nel  pugno  di  (juel  Dio  che  frena 

L'ale  del  lampo  e  i  turbini  sonanti. 
Disse  ^  e  sul  volto  dell' Elroe  serena 

Rifulse,  e  raddoppiògU  entro  le  ciglia 

Mirabilmente  del  veder  la  lena. 
Già  più  bianca  si  fea  l'alba  vermiglia. 

Che  a  tergo  i  corridor  sentfa  del  giorno: 

Ei  guarda,  e  il  fere  un'alta  maraviglia. 
D'ombrose  vigne  e  di  ruscelli  adomo 

Appargli  un  campo.  Collinette  apriche, 

Verdi  boschetti  gli  fan  cerchio  intomo. 
Pascono  al  rezzo  delle  piante  amiche 

Ben  cento  greggi,  e  quinci  e  <juindi  ingombra 

Fuma  la  spiaggia  di  capanne  antiche. 
L'aria  era  quota,  e  di  vapori  sgombra; 

Ma  turbossi  ad  un  tratto  l' orizzonte , 

E  di  pallore  si  coperse  e  d'ombra. 


20  IL  PELLEGRINO  APOSTOLICO 

Pria  die  vento  la  terra,  e  poi  dal  monte 
Con  orrendo  silenzio  orrenda  emerse 
Nube,  e  giù  scese  in  procellosa  fronte. 

Ahi  quant^era  terribile  a  vederse! 

Di  Dio  lo  spirto  le  gonfiava  il  grembo, 
E  tale  al  muto  campo  si  converse. 

E  già  squarciato  d^ogni  parte  il  lembo 
Piovea  grandine  e  fuoco,  e  palpitando 
Fuggian  le  genti  dall^  irato  nembo. 

Solo  fra  tanta  tema  un  venerando 
Pastor  si  stette,  e  denudò  la  testa. 
Le  palme  al  ciel  pietosamente  alzando. 

Voce  di  tuono  allor  gridò:  T^ arresta,  , 
Angelo  punitore  lungi  la  spada 
Torci  dal  campo,  e  scendi  alla  foresta. 

Tacque,  e  il  turbo  al  friror  mutò  la  strada^ 
E  qual  recisa  dalle  curve  ronche 
Cader  sul  solco  fa  il  villan  la  biada; 

Tal  fea  quello  balzar  divelte  e  tronche 
Le  selve  ;  e  tutte  per  diversa  via 
Le  fiere  abbandonar  Patre  spelonche. 

Gotal  portento  al  Pellegrin  s^o&ia; 
E  mentre  fise  ei  tienvi  le  pupille, 
Dispar  r  oggetto,  e  un  altro  lo  disvia. 

Immantinente  ei  mille  vede  e  mille 
Pronte  a  seguirlo  angeliche  figure, 
A&ettarsi  e  gittar  lampi  e  faville. 

Vede  d^ Abisso  le  potenze  impure 

Sbarrargli  il  passo;  e  in  questo  lato  e  in  quello 
Di  fantasmi  assalirlo  e  di  paure. 

Smunta  il  volto  e  con  torvo  occhio  rubello 
ypè  r Invidia,  di  lui  vecchia  nemica, 
E  primo  degli  eroi  vanto  e  flagello: 

V^è  del  vario  Tarpeo  tiranna  antica 
Maledicenza,  che  il  pugnai  deposto, 
L^ anime  di  segreti  odj  nutrica: 


CANTO  PRIMO  ai 

V^è  il  falso  Zelo,  che  d^amor  s^è  posto 

Una  larva  sul  Tolto,  e  un  cuor  nel  seno 

Di  demone  crudel  tiensi  nascosto^ 
Ed  altri  mostri,  che  diverse  avieno 

Di  prudente  virtù  forme  mentite, 

E  le  labbra  stillanti  di  veleno. 
Come  alla  voce  di  Gresù  smarrite 

Là  nell'orto  fatai  caddero  al  suolo 

Le  turbe  al  grande  tradimento  uscite^ 
Cosi  davanti  al  Pellegrin  d'un  solo 

Sguardo  percosso  sul  negato  calle 

Cadde  rovescio  il  temerario  stuolo. 
Che  non  osò  seguirlo,  ed  alle  spalle 

A  bestemmiar  rimase,  e  di  sfacciato 

Susurro  empiè  del  Tevere  la  valle. 
L'Àngel  di  Roma  dalla  Fé  chiamato. 

Alto  allor  si  levò  sul  Vaticano, 

E  largo  diede  alla  sua  tromba  il  fiato  ^ 
Tromba  a  quelle  simil  che  del  Giordano 

Arrestar  V  onde  stupefatte ,  e  fero 

Gerico  rovinar  spezzata  al  piano. 
L'Angelo  della  Senna,  e  dell' Ibero, 

E  quel  del  Reno,  e  quel  dell'Alpi  udillo , 

E  fecer  plauso  al  difensor  di  Piero. 
L'Angel  dell' Istro  anch'esso  al  forte  squillo 

Destasi,  e  l'altro  ad  incontrar  sen  viene. 

Pace  gridando  per  lo  ciel  tranquillo. 
Fin  dentro  il  lago  dell'eterne  pene 

Giunse  il  suon  della  tuba,  e  un  cupo  udissi 

Doppio  stridor  di  denti  e  di  catene. 
Trascorse  ancor  fra  i  lumi  erranti  e  fissi, 

E  degli  spirti,  a  cui  fur  dati  in  cura, 

Forte  l'orecchio  rintronar  sentissi. 
Allor  fé  Uriele  più  lucente  e  pura 

Uscir  del  die  la  lampa  imperatrice. 

Bella  nemica  della  notte  oscura. 


a  a  IL   PELLEGAINO  APOSTOLICO 

DSmprovriso  tepor  dispensatrice 
La  gran  face  del  Sol  tosto  si  mira 
Rallegrar  la  pianura  e  la  pendice. 

Ovunque  il  passo  imprime  j  o  il  guardo  gira 
L^  illustre  Vìator,  nuova  virtude 
Sente  natura,  e  la  stagion  respira. 

Yolea  del  verno  le  sembianze  crude 

Depor  la  terra  innanzi  tempo,  e  presta 
D^erbe  e  fiori  ammantar  le  splaggie  ignude: 

Ogni  arbor  rinverdir  volea  la  vesta; 
E  le  nevi,  del  gel  rotto  il  rigore, 
Alle  montagne  liberar  la  testa; 

Ma  vietoUo  Umiltà,  che  del  Pastore 

Venia  scorta  e  compagna,  e  intomo  a  lui 
Parve  del  verno  raddoppiar  F  orrore. 

Languido  un^  altra  volta  i  raggi  sui 

Contrasse  il  Sole,  e  il  capo  aureo  lasctosse 
Imbrunir  da  vapori  erranti  e  bui. 

Dal  suo  speco  P acquoso  Austro  si  mosse, 
E  da  le  nubi,  che  la  man  stringea, 
E  nevi  e  piòggie  furibondo  scosse. 

Tutta  qual  pria  tornò  contraria  e  rea 
La  gelata  stagion,  posta  in  obblio 
La  Deitade  che  passar  dovea. 

Le  sue  porte  P  Olimpo  intanto  aprìo, 
E  calossi  di  fumo  e  foco  mista 
Nube  che  Paria  di  fragranza  empio. 

L'ignea  colonna  imita,  che  fu  vista 
U  ramingo  guidar  stanco  Israello 
Per  lo  Deserto  alla  fatai  conquista. 

Ma  la  nube  nel  sen  porta  un  drappello 
D'invisibili  altrui  spirti  moventi, 
Quale  Focchiute  rote  d'Ezechiello; 

Spirti,  che  di  soavi  almi  concenti 
Van  ricreando  Paure  innamorate, 
E  raddolcendo  della  via  gli  stenti. 


CARtO  PRIMO  a 3 

Pria  le  cure,  il  travaglio  e  Tniniltate 

Del  buon  Pastor  cantaro,  die  la  vita 

Pone  in  periglio  per  le  agnello  amate  ^ 
Poi,  stendendo  a  più  grave  arpa  le  dita, 

Cantar  quell^alto  sdegno  onde  la  terra 

Fu  sepolta  nel  pelago  e  punita^ 
E  come  PÀrca  fra  F  orrenda  guerra 

DegP  irati  elementi  alto  sul  flutto 

Galleggia,  e  salva  le  montagne  afferra^ 
Indi  il  roveto  rammentar,  che  tutto 

D^Orebbe  apparve  al  pastorel  famoso 

Dalle  fiamme  ravvolto  e  non  distrutto^ 
Né  quel  vello  obbliàr,  che  in  rugiadoso 

Molle  terren  su  Falba  raccogliesti 

Secco  ed  asciutto,  o  Gedeon  dubbioso; 
Onde  di  sangue  Madianito  festi 

Rosse  le  glebe,  e  di  Giudea  cattiva 

Le  pentite  pupille  alfin  tergesti. 
Tal  era  il  canto  e  Farmom'a  festiva, 

Che  al  sacro  Pellegrino  il  cuor  molcendo 

Soavemente  dalla  nube  usciva  : 
E  già  la  balza  del  Sgratte  oirendo 

Scopriasi  tutta,  e  nebuloso  il  piede 

n  padre  Tebro  le  verna  lambendo.  * 
Dimentica  del  cid ,  spesso  ivi  riede 

Di  Silvestro  a  vagar  F ombra  pensosa, 

Innamorata  delF  antica  sede: 
Onde  il  verno  alla  rupe  erta  e  petrosa 

Per  riverenza  a  tanto  ospite  nume 

Di  nevi  il  capo  più  coprir  non  osa; 
E  zefiro  gentil  scuoter  le  piume 

In  sua  stagion  vi  lascia,  e  folte  al  basso 
Pender  le  spiche,  e  tremolar  sul  fiume. 
Sul  limitar  dello  scavato  sasso , 
Ove  al  furor  barbarico  sottratto 

Raccolse  un  tempo  fuggitivo  il  passo , 


a4  ^  PELLEGRraO  APOSTOLICO,  CANTO    PROCO 

Starasi  il  veglio  yenerando  in  atto 

D^uom  che  qualcuno  attende,  e  impaziente 
Per  soverchio  aspettare  ornai  s^  è  fatto  : 

Ed  ecco  che  apparir  vede  repente 
La  portentosa  nube,  e  più  vicina 
Farsi  r  ascosa  melodia  già  sente. 

Qual  da  un  fiume  talor  la  vespertina 
Nebbia  s^ estolle,  e  dopo  breve  istante 
Giù  nella  valle  rotasi  e  declina^ 

Tal  la  cima  radendo  delle  piante, 

D'un  venticel  portata  in  su  le  penne, 
La  celeste  discese  Ombra  aspettante. 

Lieve  d'incontro  al  Pellegrin  sen  venne ^ 
E  lampeggiando  in  un  gentil  sorriso , 
Gli  sfavillò  su  gli  occhi  e  lo  trattenne. 

Videro  dalle  nubi  l'improvviso 

Splendor  gli  Spirti  ascosi,  e  rawisaro 
L'antico  cittadin  del  Paradiso. 

Tosto  il  canto  e  le  dolci  arpe  fermaro^ 
Che  agli  atti,  al  volto  in  lui  desio  cortese 
Di  favellar  gran  cose  argomentaro. 

S'appressar  tutte  ad  ascoltarlo  intese 
Quelle  dive  Potenze.  Àllor  di  zelo 
Fé  l'Ombra  scintillar  le  labbra  accese^ 

E  a  parlar  comincio.  —  Spirti  del  Cielo , 
Che  dappresso  l'udiste,  e  di  vostre  ali 
Àll'uman  guardo  gli  faceste  un  velo. 

Piacciavi  di  ridir.  Spirti  immortali, 
Ad  un  mortai  le  sue  parole,  e  darmi 
Lingua  ed  accenti  al  gran  subbietto  eguali, 

Se  lice  col  pensier  tanto  levarmi. 


CANTO  SECONDO 


Salye ,  P  Ombra  gridò ,  salve  ,  aspettato 
Buon  Pellegrino.  Al  tuo  cammin  felice 
Arride  folgorando  il  Ciel  placato. 

Dio  s^  affacciò  dall^  orrida  pendice 
Dell^ altissimo  suo  monte  profondo, 
Che  su  r altre  montagne  ha  la  radice: 

Diede  uno  sguardo  al  sottoposto  mondo, 
E  il  mondo  vacillò.  Cader  sospinto 
Temea  del  Nulla  nell'orror  secondo. 

La  gran  catena,  da  cui  pende  avvinto, 
Scoteasi  tutta,  e  alzarsi  orribilmente 
Parca  la  polve  del  Creato  estinto. 

Calmati,  disse  allor  F Onnipossente, 

Calmati,  o  Mondo.  E  al  suon  di  sue  parole 
Quel  tremendo  fragor  tacque  repente. 

Brillò  sereno  dall^ Olimpo  il  Sole, 

Riser  campi  e  colline,  e  in  dolce  aspetto 
Si  rabbellir  di  rose  e  di  viole. 

O  tu,  che  calchi,  ad  alte  imprese  eletto, 
Dell'eterno  Voler  la  traccia  oscura. 
Apri  al  mio  dir  P  orecchio  e  F  intelletto. 

Non  il  silenzio  sempre  di  natura, 
Né  dei  venti  la  calma  e  delle  stelle 
I  disegni  di  Dio  compie  e  matura: 

Talvolta  ancor  fra  i  lampi  e  le  procelle 
Più  luminoso  il  suo  pensier  traluce, 
E  le  divine  idee  fansi  più  belle. 

Ei  padre  e  fonte  dMnesausta  luce 
Pur  circonda  talor  gli  eterei  troni 
Di  maestà  caliginosa  e  truce: 


26  IL   PBLLEGRmO    APOSTOLICO 

Onde  sotto  il  suo  pie  s^  odono  i  tuoni 
Ruggir  profondamente,  e  con  baldanza 
Mormorar  le  burrasche  e  gli  aquiloni. 

In  questa  di  furor  torba  sembianza 

Parla  pur  anco  alla  sua  Sposa,  e  il  core 
Col  rigor  ne  cimenta  e  la  costanza. 

Quindi  spesso  le  invia  guerra  e  terrore^ 
Quindi  gli  afianni ,  che  funesti  e  rei 
D'odio  sembrano  segno,  e  son  d'amore. 

Né  da'  barbari  colli  Giebusei 

Sempre  il  nemico  turbine  si  scaglia , 
Che  il  raggio  oflEìisca  di  quegli  occhi  bei. 

Nel  seno  di  SSon  fiera  battaglia, 
Fiero  nembo  si  desta  anco  talora. 
Che  r  invitte  sue  torri  urta  e  travaglia. 

La  bella  Sulamite  si  scolora, 

Che  il  vede  rovinar  su  le  fiorenti 

Vigne  d'Engaddi,  e  al  Giel  si  volge  e  plora. 

Odi  il  rumor  delle  quadrighe  ardenti 
D' Amìnadabbo  irato,  odi  il  bisbiglio 
Dell'atterrito  Giuda,  odi  i  lamenti. 

Tu,  che  pietoso  accorri  al  reo  periglio 
Della  redenta  Sulamite,  e  vai 
In  sul  Danubio  ad  asciugarle  il  ciglio. 

Cresci  speme  e  coraggio,  e  senti  omai 
Come  chiaro  su  te  parla  il  Destino 
Là  dall'abisso  degli  etemi  lai. 

Splenderà  la  tua  gloria,  o  Pellegrino, 
Più  che  le  chiome  e  le  lucenti  rote 
Dell'  astro  che  le  porte  apre  al  mattino  : 

Dintorno  a  te  s'affolleran  divote. 

Siccome  intomo  al  suo  pastor  le  agnelle, 
Le  più  barbare  genti  e  piiì  remote^ 

E  tu  la  Fé,  la  Caritade  in  elle 

Accenderai  col  guardo  e  col  sembiante, 
Mille  mietendo  al  Ciel  palme  novelle. 


CAUTO    SECONDO  ^^ 

Dietro  a^  tuoi  passi  estatica  ed  amante 

Àfiettarsi  vedrai  V  Europa  intera , 

L^orme  baciando  dell^ auguste  piante: 
Dell^  Istro  la  regal  sponda  guerriera 

Vedrai  di  vele  e  popoli  coperta, 

Yarj  di  ciel,  di  lingua  e  di  maniera. 
Come  d^Orebbe  la  vallèa  deserta, 

Quando  piovve  sul  querulo  Israele 

Celeste  cibo  dalla  nube  aperta^ 
Tu  pioverai  sul  popol  tuo  fedele 

Lo  spirto,  che  securo  a  Pìct  già  feo 

Di  Cafarnao  calcar  Fonda  crudele*, 
Spirto ,  cbe  del  Tesbite  e  d'  Eliseo 

Scaldò  k  invitte  labbra ,  e  tuUa  un  giorno 

La  Palestina  di  portenti  empieo. 
Un^  altra  volta  di  Moabbo  a  scorno 

Di  Baiamo  la  voce  udrassi  intanto 

Con  maraviglia  rìsuonar  dintorno. 
Quanto  son  belle  le  tue  tende  I  ob  quanto, 

Alma  Sion,  leggiadro  è  il  tuo  stendardo, 

E  glorioso  de'  tuoi  duci  il  vanto  ! 
In  Ascalon  correa  romor  bugiardo, 

Cbe  in  Babilonia  ti  dicea  conversa, 

E  schiava  di  tiranno  empio  e  codardo  : 
Profanato  F  aitar ,  guasta  e  p^rersa 

La  tua  dottrina,  e  te  in  un  mar  che  bolle 

Di  sozzure  e  d'orror,  tutta  sommersa. 
Menti  Porribil  grido.  Il  tuo  bel  colle 

Di  fiori  ancor  si  veste  e  d'arboscelli, 

Nudriti  al  fiato  d'un'auretta  molle. 
I  tuoi  cedici  famosi  ancor  son  quelli^ 

Ancor  son  fi*esche  per  la  rupe,  e  monde 

L' urne  de'  tuoi  fatidici  ruscelli. 
Venite  a  dissetarvi  alle  beli'  onde , 

O  mal  accorte  agnelle,  che  succhiate 

Del  sozzo  Egitto  le  cisterne  Immonde. 


28  IL  PEXXBGRmO    ilPOSTOLIGO 

Quel  buon  Pastor  che  abbandonaste  ingrate, 
Ecco  ch^ei  viene  pellegrin  pietoso 
Fra^  dirupi  a  cercarvi,  o  sconsigliate. 

Egli  è  tutto  sudante  e  polveroso: 

Amor  lo  guida,  Amor  che  al  varco  il  prese, 
E  tolse  agli  occhi  suoi  sonno  e  riposo. 

Deh!  voli  una  soave  aura  cortese. 
Che  della  via  gli  tempri  le  fatiche 
Fra  le  piene  d'orror  balze  scoscese. 

Stendete  la  vostr^ombra,  o  piante  amiche^ 
E  voi  di  fior  spargetegli  il  sentiere, 
O  pastorelle  del  Saròn  pudiche. 

Fra  si  dolci  d^amor  note  sincere 

Verrai  su  Flstro,  e  ti  vedrai  davanti 
Le  tedesche  piegarsi  aste  e  bandiere. 

E  le  madri  di  gioja  palpitanti 

T^nsegneran  col  dito  ai  pargoletti. 
Con  mille  baci  confondendo  i  pianti^ 

Ed  essi  delle  madri  al  fianco  stretti 
Ti  cercheran  col  guardo,  e  si  dorranno 
Che  veloce  trapassi,  e  non  aspetti^ 

Ed  il  picciolo  mento  allungheranno, 
Onde  sul  folto  della  calca  alzarse 
Con  avid^  occhio  e  fanciullesco  afianno. 

Ecco  intanto  le  grida  raddoppiarse^ 
Ecco  Giuseppe.  A  questo  nome  un  foco 
Del  Pellegrino  su  le  guance  apparse: 

Fu  il  cor  che  dentro  si  commosse,  e  poco 
Di  sé  capace  ritrovando  il  petto , 
Tentò  co^  balzi  dilatarsi  il  loco. 

Tenerezza  e  pietà,  gioja  e  rispetto 
Gli  fero  assalto  alP  anima,  e  sul  viso 
Si  pinser  tutti  con  diverso  afietto. 

Del  visibile  fi*emito  improvviso 

S' avvide  il  parlator  veglio  canuto , 

E  il  divin  labbro  aprendo  ad  un  sorriso: 


CANTO  SECONDO  ag 

Vedrai',  seguia,  vedrai  questo  temuto 

Eroe  dell'Austria,  innanzi  a  cui  vacilla 

E  stassi  il  Mondo  riverente  e  muto, 
Non  già  truce  il  sembiante  e  la  pupilla, 

Qual  sovente  il  mirar  la  Molda  e  il  Reno 

Li  tra  il  fumo  di  Marte  e  la  favilla^ 
Ma  placido,  gentil,  mite  e  sereno 

Venirti  incontro,  e  come  al  padre  il  figlio 

Chinarsi,  e  palpitar  stretto  al  tuo  seno. 
Oh  palpiti  d'amor,  non  di  periglio! 

Oh  regal  bacio  !  oh  memorando  amplesso  ! 

Oh  d'alta  provvidenza  alto  consiglio! 
Le  sue,  le  tue  virtù  d'un  nodo  istesso 

Si  stringeranno,  e  si  faran  tra  loro 

Scambievole  di  rai  dolce  riflesso. 
Aureo  d'  affetti  l' amistà  lavoro 

Nelle  vostr'alme  tesserà,  che  poi 

Fian  del  tempio  di  Dio  base  e  decoro^ 
Finché  d'applausi  carco,  e  degli  eroi 

Il  più  grande  lasciando  all'Istro  in  riva 

Innamorato  de' pensieri  tuoi. 
Alle  contrade  della  tua  giuliva 
,    Difficil  Roma  tornerai  lodato, 

CoU'Invidia  al  tuo  pie  vinta  e  cattiva. 
Ivi  lungo  di  giorni  ordin  beato 

Trarrai  sicuro,  e  del  tuo  sacro  impero 

Salomon  nuovo  tranquillando  il  fato, 
Auspice  avventuroso  e  condottiero 

Sarai  del  secol  che  s'appressa,  e  chiede 

Del  tuo  bel  nome  ornar  l'anno  primiero. 
Questo  è  il  voler  di  Lui,  che  al  tuo  cor  diede 

L'alto  coraggio,  e  su  l'avel  lo  scrisse, 

D'onde  al  sacro  cammin  movesti  il  piede. 
L'amica  ambasciatrice  Ombra  sì  disse, 

E  girò  gli  occhi  quai  due  Soli,  e  il  monte 

Par  che  tutto  di  luce  si  vestisse, 


3o  IL   PBLLBGRUfO    APOSTOLICO.    CINTO  SECOlilBO 

Che  poi  si  stese  all^ ultimo  orizzonte, 
E  ne  rìse  per  giubilo  la  valle, 
E  traballonne  d'Apennin  la  fronte  : 
Onde  agitate  su  F  acute  spalle 

Si  scomposer  le  nevi,  e,  sciolte  in  fiumi, 
Giù  per  rotto  dirupo  aprirsi  il  calle. 

Grondavan  tutti  delle  balze  i  dumi, 
E  le  colline  rugiadose  un  nembo 
Àlzavan  di  gratissimi  profumi. 

Ma  r  Ombra  già  confusa  crasi  in  grembo 
Dell^  angelica  nube ,  che  repente 
Per  abbracciarla  avea  squarciato  il  lembo. 

Sparir  la  vide  il  Pellegrin  dolente^ 

E  col  guardo  la  nebbia  accompagnando, 
Che  portavala  al  cielo  dolcemente, 

Ed  ambedue  le  palme  alto  levando: 
Padre,  gridò,  cosi  tMnvoli,  e  lassi 
Meco  le  cure  del  divin  comando? 

Meglio  era  che  il  mio  corso  anco  mutassi^ 
Ma  se  Tuoki  che  io  resti,  e  alle  serene 
Sedi  d^ Olimpo  senza  me  tu  passi, 

Deh  !  narra  a  Pietro,  se  a  incontrar  ti  viene. 
Narra  pietoso  i  miei  disastri,  e  tutte 
Del  suo  fedele  successor  le  pene. 

Disse,  e  le  ciglia  non  ritenne  asciutte^ 
Ma  qual  su  Terhe  appaiono  le  stille 
Dalle  nubi  d^  aprii  scosse  e  produtte , 

Che  brillan  tremolando  a  mille  a  mille 
Davanti  al  Sol,  che  irradiale  e  percote  ^ 
Tal  corse  il  pianto  intomo  alle  pupille. 

Si  terse  il  Pellegrin  santo  le  gote , 
E  pien  la  mente  della  grande  idea, 
Che  inspirògli  F  antico  Sacerdote, 

Fiamme  spargendo,  ovunque  il  pie  volgea, 
D^amor,  di  fede,  di  pietà,  di  zelo, 
Corse  oltre  la  gelata  alpe  Rotea 

Gli  altri  presagi  ad  avverar  del  Cielo. 


IN  MORTE 


>i 


UGO  BASSVILLE 


CANTICA 


IN  MORTE 


DI 


UGO   BASSVILLE 


CANTO  PRIMO 


Già  vinta  dell'Inferno  era  la  pugna, 
E  lo  spirto  d'Abisso  si  partia, 
Vota  strìngendo  la  terribil  ugna. 

Come  hon  per  fame  egli  raggia 

Bestemmiando  T Etemo,  e  le  commosse' 
Idre  del  capo  sibilar  per  via. 

Allor  timide  Pali  aperse  e  scosse 
L'anima  d'Ugo  alla  seconda  vita 
Fuor  deUe  membra  del  suo  sangue  rosse  : 

E  la  mortai  prigione  ond'era  uscita, 
Subito  indietro  a  riguardar  si  volse  * 
Tutta  ancor  sospettosa  e  sbigottita. 

Ma  dolce  con  un  riso  la  raccolse, 
E  confortolla  l'Angelo  beato, 
Che  contro  Dite  a  conquistarla  tolse. 

E,  Salve,  disse,  o  spirto  fortunato, 
Salve,  sorella  del  bel  numer  una, 
Cui  rimesso  è  dal  Cielo  ogni  peccato. 

Non  paventar^  tu  non  berai  la  bruna 
Onda  d'Averno,  da  cui  volta  è  in  fuga 
Tutta  speranza  di  miglior  fortuna  '. 

Ma  la  giustizia  di  lassù,  che  fruga. 

Severa  e  in  un  pietosa  in  suo  diritto^, 
Ogni  labe  dell'alma  ed  ogni  ruga^, 

Morti.  Poemetti.  3 


34  BÀSSTILLIANÀ 

Nel  SUO  registico  adamantino  ha  scritto, 
Che  all^ amplesso  di  Dio  non  salirai, 
Finché  non  sia  di  Francia  ulto^  il  delitto. 

Le  piaghe  intanto  e  gV  infiniti  guai  y 

Di  che  fosti  gran  parte?,  or  per  emenda 
Piangendo  in  terra  e  contemplando  andrai. 

E  supplicio  ti  fia  la  vista  orrenda* 
Dell^ empia  patria  tua,  la  cui  lordura 
Par  che  del  puzzo  i  firmamenti  offenda^ 

Sì  che  Palta  vendetta  è  già  matura, 
Che  fa  dolce  di  Dio  nel  suo  segreto  9 
L' ira  ond^  è  colma  la  fatai  misura. 

Cosi  pai'lava;  e  riverente  e  cheto 
Abbassò  F altro  le  pupille,  e  disse: 
Giusto  e  mite,  o  Signor,  è  il  tuo  decreto. 

Poscia  r  ultimo  sguardo  al  corpo  aflisse'^ 
Già  suo  consorte  in  tita,  a  cui  le  vene 
Sdegno  di  zelo  e  di  ragion  trafisse^ 

Dormi  in  pace,  dicendo,  o  di  mie  pene 
Caro  compagno,  infin  che  del  gran  die 
L^  orrido  squillo  a  risvegliar  ti  viene. 

Lieve  intanto  la  terra",  e  dolci  e  pie" 

Ti  sian  Paure  e  le  pioggie,  e  a  te  non  dica 
Parole  il  passeggier  scortesi  e  rie. 

Oltra  il  rogo  non  vive  ira  nemica  "^^ 
E  nell^  ospite  suolo  ov^io  ti  lasso  '^, 
Giuste  son  Palme,  e  la  pietade  è  antica. 

Torse,  ciò  detto ,  sospirando  il  passo 

Quella  mest' Ombra,  e  alla  sua  scorta  dietro 
Con  volto  s^  avviò  pensoso  e  basso  ^ 

Di  ritroso  fanciul  tenendo  il  metro. 

Quando  la  madre  a^suoi  trastulli  il  fura, 

Che  il  pie  va  lento  innanzi,  e  Pocchio  indietro. 

Già  di  sua  veste  rugiadosa  e  scura '^ 
Coprìa  la  notte  il  mondo,  allor  che  diero 
Quei  duo  le  spalle  alle  Romulee  mura. 


CANTO  PROCO  35 

E  nel  leyani  a  volo,  ecco  di  Piero 

Sull^  altissimo  tempio'  alla  lor  vista 

Un  CSìembino  minaccioso  e  fiero  ^ 
Un  di  quei  sette  *®  che  in  argentea  lista 

Mirò  fira  i  sette  candelabri  ardenti 

Il  rapito  di  Patmo  Evangelista. 
Rote  di  fiamme  gli  occhi  rilucenti '7 ^ 

E  cometa  che  morbi  e  sangue  adduce  '^ , 
.  Parean  le  chiome  abbandonate  ai  venti. 
Di  lugubre  vermiglia  orrida  luce 

Una  spada  brandia,  che  da  lontano 

Rompea  la  notte,  e  la  rendea  più  truce  ^ 
E  scudo  sostenea  la  manca  mano  '9 

Grande  così,  che  da  nemica  offesa 

Tutto  coprìa  coir  ombra  il  Vaticano: 
Com^  aquila  che  sotto  alla  difesa  '^ 

Di  sue  grandmali  rassicura  i  figli 

Che  non  han  Parte  dc^le  penne  appresa; 
E  mentre  la  bufera  entro  i  covigli'' 

Tremar  fa  gli  altri  augei,  questi  a  riposo 

Stansi  allo  schermo  de^  materni  artigli. 
Chinarsi  in  gentil  atto  ossequioso, 

Oltre  volando  i  due  minori  Spirti, 

Dell^  alme  chiavi  al  difensor  sdegnoso. 
Indi,  veloci  in  men  che  noi  so  dirti. 

Giunsero  dove  gemebondo  e  roco 

Il  mar  si  firange  tra  le  Sarde  sirti; 
Ed  al  raggio  di  luna  incerto  e  fioco 

Vider  spezzate  antenne,  iufirante  vele 

Del  regnator  Libecchio  orrendo  gioco*', 
E  sbattuti  dall'' aspra  onda  crudele  *^ 

Cadaveri  e  bandiere;  e  disperdea 

LMra  del  vento  i  gridi  e  le  querele. 
Sul  lido  intanto  il  dito  si  mordea 

La  temeraria  Libertà  di  Francia, 

Che  il  cielo  e  Tacque  disfidar  parca. 


36  BASSVILLIA9À 

Poi  del  sao  ardire  si  battea  la  guancia'^ , 
Venir  mirando  la  rivai  Brettagna 
A  fdlminarle  dritta  al  cor  la  lancia^ 

E  dal  silenzio  suo  scossa  la  Spagna 
Tirar  la  spada  anch^essa,  e  la  vendetta 
Accelerar  d^  Italia  e  di  Lamagna: 

Mentre  il  Tirren,  che  la  gran  preda  aspetta, 
Già  mormora,  e  si  duol  che  la  sua  spuma 
Ancor  non  va  di  Franco  sangue  infetta^ 

E  Pira  nelle  sponde  invan  consuma, 
Di  Nizza  inulto  rimirando  il  lutto  *^, 
Ed  Oneglia  che  ancor  combatte  e  fuma. 

Allor  che  vide  la  mina  e  il  brutto 
Oltraggio  la  Francese  anima  schiva, 
Non  tenne  il  ciglio  per  pietade  asciutto^ 

Ed  il  suo  fido  condottier  seguiva 

Vergognando  e  tacendo,  infin  che  sopra 
Fur  di  Marsiglia  alla  spietata  riva. 

Di  ferità,  di  rabbia,  orribil  opra 
Ei  vider  quivi,  e  Libertà  che  stolta 
In  Dio  medesmo  Tempie  mani  adopra. 

Videro,  ahi  vista!  in  mezzo  della  folta *^ 
Starsi  una  croce  col  divin  suo  peso 
Bestemmmiato  e  deriso  un^  altra  volta  *7^ 

E  a  pie  del  legno  redentor  disteso 
Uom  coperto  di  sangue  tuttoquanto. 
Da  cento  punte  in  cento  parti  oflfeso. 

Ruppe  a  tal  vista  in  un  più  largo  pianto 
L'eterea  pellegrina^  ed  una  vaga 
Ombra  cortese  le  si  trasse  accanto. 

Oh!  tu,  cui  si  gran  doglia  il  ciglio  allaga, 
Pietosa  anima,  disse,  che  qui  giunta 
Se'  dove  di  virtude  il  fio  si  paga**^ 

Sostati ^9  e  m'odi.  In  quella  spoglia  emunta ^° 
D'alma  e  di  sangue  (e  l'accennò),  per  cui 
Sì  dolce  in  petto  la  pietà  ti  spunta, 


CANTO  «pilMO  37 

Albergo  io  m'ebbi:  manigoldo  fui 

E  peccatore  ma  P infinito  amore 

Di  Quei  mi  valse  che  morì  per  nui  ^ 
Perocché  dal  costoro  empio  furore 

À  gittar  strascinato  (ahi!  parlo,  o  taccio?^') 

De' ribaldi  il  capestro  al  mio  Signore^ 
Di  man  mi  cadde  P esecrato  laccio, 

E  rizzarsi  le  chiome,  e  via  per  Fossa^* 

Correr  m' intesi  ^^  e  per  le  gote  il  ghiaccio. 
Di  crudi  colpi  aUor  rotta  e  percossa  ^^ 

Mi  sentii  la  persona,  e  quella  croce 

Fei  del  mio  sangue  anch'  io  fumante  e  rossa  : 
Mentre  a  Lui,  che  quaggiù  manda  veloce 

Ài  par  de'sospir  nostri  il  suo  perdono, 

n  mio  cor  si  volgea  più  che  la  voce. 
Quind'ei  m'accolse  Iddio  clemente  e  buono ^ 

Quindi  un  desir  mi  valse  il  Paradiso  ^ 

Quindi  beata  eternamente  io  sono. 
Mentre  l' un  sì  parlò ,  P  altro  in  lui  fiso 

Tenea  lo  sguardo,  e  si  piangea^',  che  un  velo 

Le  lagrime  gli  fean  per  tutto  il  vlso^ 
Simigliante  ad  un  fior  che  in  su  lo  stelo 

Di  rugiada  si  copre  in  pria  che  il  Sole 

Co'  raggi  il  venga  a  colorar  dal  cielo. 
Poi  gli  amplessi  mescendo  e  le  parole, 

De'proprii  casi  il  satisfece  anch'esso, 

Siccome  fira  cortesi  alme  si  suole. 
E  questi,  e  l'altro,  e  il  Cherubino  appresso 

Adorando  la  croce,  e  nella  polve 

In  devoto  cadendo  atto  sommesso. 
Di  Dio  cantaro  la  bontà,  che  solve ^^ 

Le  rupi  in  fonte,  ed  ha  sì  larghe  braccia, 

Che  tutto  prende  ciò  che  a  lei  si  volve. 
Sollecitando  poscia  la  sua  traccia 

L'alato  duca,  l'Ombre  benedette 

Si  disser  vale,  e  si  baciaro  in  faccia. 


38  BÀssyiixiÀHA. 

Ed  una  sì  rimase  alle  vedette, 

Ad  aspettar  che  su  la  rea  Marsiglia 
Sfreni  Parco  di  Dio  le  sue  saette^?. 

Sovra  il  Rodano  ^*  P  altra  il  voi  ripiglia, 
E  via  trapassa  d^Avignon  la  valle 
Già  di  sangue  civil  (atta  vermiglia^ 

D^Avignon  che,  smarrito  il  miglior  calle ^, 
Alla  pastura  intemerata  e  fresca 
Dell^ Ovile  Roman  volse  le  spalle, 

Per  gir  co^  ciacchi  di  Parigi  in  tresca 
A  cibarsi  di  ghiande,  onde  la  Senna, 
Novella  Circe,  gli  amatori  adesca. 

Lasciò  Garonna^**  addietro,  e  di  Gebenna^' 
Le  cave  rupi^  e  la  pianura  immonda 
Che  ancor  la  strage  Camisarda  accenna^*. 

Lasciò  r  irresoluta  e  stupid' onda^^ 
D^ Arari  a  dritta ,  e  Ligeri  a  mancina , 
Disdegnoso  del  ponte  e  della  sponda  ^^. 

Indi  varca  la  falda  Tigurina^^^ 

A  cui  fé  Giulio  dell' àugel  di  Giove 
Sentir  la  prima  il  morso  e  la  rapina. 

Poi  Nivemo  trascorre,  ed  oltre  move 
Fino  alla  riva^  u'  d'Arco  la  donzella  ^^ 
Fé  contra  gli  Angli  le  famose  prove. 

Di  là  ripiega  inverso  la  Rocella 
n  remeggio  dell'ali  *7 ,  e  tutto  mira 
n  suol  che  PAquitana  onda  flagella  ^*. 

Quindi  ai  Celtici  boschi  si  rigira  ^9 
Pieni  del  canto  che  il  chiomato  Bardo 
Sposava  al  suon  di  bellicosa  lira. 

Traversa  Normandia,  traversa  il  tardo  ^"^ 
Sbocco  di  Senna,  e  il  lido  che  si  fiede 
Dal  mar  Britanno  infino  al  mar  Piccardo. 

Poi  si  converte  ai  gioghi  onde  procede^' 
La  Mosa,  e  al  piano  che  la  Marna  lava, 
E  orror  per  tutto,  e  sangue  e  pianto  vede. 


CANTO   PRIMO  39 

Libera  vede  andar  la  colpa,  «  schiava 

La  virtù,  la  giustizia,  e  sue  bilance 

In  man  del  ladro  e  di  vii  ciurma  prava, 
À  cui  le  membra  grave-olenti^*  e  rance 

Traspaiono  da^  sai  sdrusciti  e  sozzi  ^^« 

Né  fìir  mai  tinte  per  pudor  le  guance. 
Vede  luride  forche  e  capi  mozzi; 

Vede  piene  le  piazze  e  le  contrade 

Di  fiamme,  d'ululati  e  di  singhiozzi. 
Vede  in  preda  al  fui*or  dMngorde  spade 

Le  caste  Ghi^e,  e  Cristo  in  Sacramento  ^^ 

Fuggir  ramingo  per  deserte  strade^ 
E  i  sacri  bronzi  in  flebile  lamento 

Giù  calar  dalle  torri,  e  liquefarsi 

In  rie  bocche  di  morte  e  di  spavento. 
Squallide  vede  le  campagne,  ed  arsi 

I  pingui  coki;  e  le  fiedci  e  le  stive  ^^ 

In  duri  stocchi  e  in  lance  trasmutarsi. 
Odi  frattanto  risonar  le  rive, 

Non  di  giocondi  pastorali  accenti. 

Non  d'avene,  di  zuffoli  e  di  pive; 
Ma  di  tamburi  e  trombe  e  di  tormenti: 

E  il  barbaro  ^^  soldato  al  villanello 

Le  messi  invola  e  i  lagrimati  armenti; 
E  invan  si  batte  Tanca  il  meschinello, 

Invan  si  straccia  il  crin  disperso  e>  bianco 

In  su  la  soglia  del  deserto  ostello; 
Che  non  pago  d'avergli  il  ladron  Franco 

Rotta  del  caro  pecoril  la  sbarra, 

I  figli,  i  figli  strappa^  dal  fianco; 
E  del  pungolo  invece  e  della  marra, 

D'armi  li  cinge  dispietate  e  strane, 

E  la  ronca  converte  in  scimitarra. 
All'  orbo  padbe  intanto  ahi  !  non  rimane 

Chi  la  cadente  vita  gli  sostegna. 

Chi  sovra  il  desco  gli  divida  il  pane  ^7. 


4o  BÀSSVILLlAirA,  CAlVTO  PROCO 

Quindi  lasso  la  luce  egli  disdegna, 
E  brancolando  per  dolor  già  cieco, 
Si  querela  che  morte  ancor  non  vegna* 

Né  pietà  di  lui  sente  altri,  che  PEco^, 
Che  cupa  ne  ripete  e  lamentosa 
Le  querimonie  dall'opposto  speco. 

Fremè  d'orror,  di  doglia  generosa 
àUo  spettacol  fero  e  miserando 
La  conversa  d'Ugon  alma  sdegnosa^ 

E  si  fé  del  color  ch'il  cielo  è,  quando  ^9 
Le  nubi  immote  e  rubiconde  a  sera 
Par  cbe  piangano  il  di  che  va  mancando  ^ 

E  tutta  pinta  di  rossor,  com'era, 
Parlar,  dolersi,  dimandar  volea^, 
Ma  non  usciva  la  parola  intera; 

Che  la  piena  del  cor  lo  contendea: 
E  tuttavolta  il  suo  diverso  affistto 
Palesemente  col  tacer  dicea. 

Ma  la  scorta  fedel,  cbe  dall'aspetto 
Del  pensier  s'avvisò,  dolce  alla  sua 
Dolorosa  seguace  ebbe  si  detto: 

Sospendi  il  tuo  terror,  frena  la  tua 
Indignata  pietà;  cbè  ancor  non  bai 
Nell'immenso  suo  mar  volta  la  prua. 

S'or  si  forte  ti  duoli,  oh!  cbe  farai. 

Quando  l'orrido  palco,  e  la  bipenne^'... 
Quando  il  colpo  fatai..,  quando  vedrai?... 

E  non  fiid  ;  che  tal  gli  sopravvenne 
Per  le  membra  immortali  un  brividio. 
Che  a  quel  truce  pensier  troncò  le  penne; 

Si  che  la  voce  in  un  sospir  mono. 


CANTO  SECONDO 


Alle  tronche  parole,  alFimprornso 
Dolor  che  di  pietà  FAngel  dipinse, 
Tremò  qnell^  Ombra  e  si  fé  smorta  in  tìso) 

E  suU^orme  così  si  risospinse 

Del  suo  buon  duca  che  davanti  andava 
Pien  del  crudo  pensier  che  tutto  il  vinse  '. 

Senza  fer  motto  *  il  passo  accelerava, 
E  Paria  intomo  tenebrosa  e  mesta 
Del  suo  volto  la  doglia  accompagnava. 

Non  stormiva  una  fronda  alla  foresTta', 
E  sol  s'udfa  tra^  sassi  il  rio  lagnarsi, 
Siccome  all^  appressar  della  tempesta. 

Ed  ecco  manifeste  al  guardo  £aursi 
Da  lontano  le  torri,  ecco  V  oirenda 
Babflonia  Francese  approssimarsi. 

Or  qui  vigor  la  fantasia  riprenda^, 
E  Pira  e  la  Pietà  mi  sian  la  Musa 
Che  alP  alto  e  fiero  mio  concetto  ascenda. 

Curva  la  fronte,  e  tutta  in  sé  racchiusa 
La  taciturna  coppia  oltre  cammina, 
E  giunge  alfine  alla  città  confusa, 

AUa  colma  di  vizi  atra  sentina, 
A  Parigi,  che  tardi  e  mal  si  pente 
Della  sovrana  plebe  cittadina. 

Sul  primo  entrar  della  città  dolente' 
Stanno  il  Pianto,  le  Cure,  e  la  Follia 
Che  salta  e  nulla  vede  e  nulla  sente. 


4  2  BAS5VILLIANA 

Ewi  il  turpe  Bisogno^,  e  la  restia 
Inerzia  colle  man  sotto  le  ascelle?, 
L'uno  air  altra  appoggiati  in  su  là  via. 

Ewi  r arbitra  Fame',  a  cui  la  pelle 9 
Informasi  dall'ossa,  e  i  lerci  denti 
Fanno  orribile  siepe  alle  mascelle. 

Vi  son  le  rubiconde  Ire  furenti, 

E  la  Discordia  pazza  '^  il  capo  avvolta 
Di  lacerate  bende  e  di  serpenti. 

Vi  son  gli  orbi  Desiri,  e  della  stolta 
Ciurmaglia  i  Sogni,  e  le  Paure  smorte  " 
Sempre  il  crin  rabbuffate  e  sempre  in  volta. 

Veglia  custode  delle  meste  porte , 

E  le  chiude  a  suo  senno  e  le  disserra, 
L'  ancella  e  insieme  la  rivai  di  Morte  "  ^ 

La  cruda,  io  dico,  furibonda  Guerra, 
Che  nel  sangue  s'abbevera  e  gavazza, 
E  sol  del  nome  fa  tremar  la  terra. 

Stanle  intorno  l'Erinni,  e  le  fan  piazza, 
E  allacciando  le  van  l'elmo  e  la  maglia 
Della  gorgiera  e  della  gran  corazza^ 

Mentre  un  pugnai  battuto  alla  tanaglia*^ 
De' fabbri  di  Gocito  in  man  le  caccia, 
E  la  sprona  e  l'incuora  alla  battaglia 

Un'  altra  Furia  di  più  acerba  faccia , 

Che  in  Flegra*^  già  del  cielo  assalse  il  moro, 
E  armò  di  Bnareo  le  cento  braccia  '^^ 

Di  Diagora  poscia  e  d' Epicuro  '^ 

Dettò  le  carte,  ed  or  le  Franche  scuole 
Empie  di  nebbia  e  di  blasfema  impuro^ 

E  con  sistemi  e  con  orrende  fole 

Sfida  l'Eterno  '7^  e  il  tuono  e  le  saette 
Tenta  rapirgli,  e  il  padiglion  del  Si)le''. 

Come  vide  le  facce  maledette, 

Àrretrossi  d'Ugon  l'ombra  turbata^ 
Che  in  Inferno  arrivar  la  si  credette: 


CANTO  SECONDO  4^ 

E  In  quel  sospetto  sospettò  '9  cangiata 

La  sua  sentenza,  e  dimandar  yolea 

Se  fra  Palme  perdute  iva  dannata. 
Quindi  tutta  per  tema  si  stringea 

Al  suo  conducitor,  che  pensieroso 

Le  triste  soglie  già  varcate  avea. 
Era  il  giorno  che ,  tolto  al  procelloso  *** 

Capro,  il  Sol  monta  alla  trojana  stetta, 

Scarso  il  raggio  vibrando  e  neghittoso^ 
E  compito  del  dì  la  nona  ancella  ** 

L^  officio  suo,  il  governo  abbandonava 

Del  timon  luminoso  alla  sorella: 
Quando  chiuso  da  nube  oscura  e  cava 

L^Àngel  coli' Ombra  inosservato  e  qaeto 

Netta  città  di  tutti  i  maU  entrava. 
Ei  procedea  depresso  ed  inquieto 

Nel  portamento,  i  rai  celesti  empiendo 

Di  largo  ad  or  ad  or  pianto  segreto^ 
E  F  Ombra  si  stupfa  quinci  vedendo 

Lagrimoso  il  suo  duca,  e  possedute 

Quindi  le  strade  da  silenzio  orrendo. 
Muto  de'bronzi  il  sacro  squiUo,  e  mute 

L'opre  del  giorno,  e  muto  lo  stridore 

DeU' aspre  incudi  e  dette  seghe  argute": 
Sol  per  tutto  un  bisbiglio  ed  un  terrore, 

Un  domandare,  un  sogguardar  sospetto, 

Una  mestizia  che  ti  piomba  al  core^ 
E  cupe  voci  di  confuso  affetto. 

Voci  di  madri  pie,  che  gF  innocenti 

Figli  si  serran  trepidando  al  petto  ^^^ 
Voci  di  spose,  che  ai  mariti  ardenti 

Contrastano  P uscita'^,  e  sutte  soglie 

Fan  di  lagrime  intoppo  e  di  lamenti. 
Ma  tenerezza  e  carità  di  moglie 

Vinta  è  da  Furia  di  maggior  possanza, 

Che  daU' amplesso  coniugai  gli  scioglie. 


44  BA88VIIXIANÀ 

Poiché  fera  menando  oscena  danza  *^ 
Scorrean  di  porta  in  porta  afl&ocendati 
Fantasmi  di  terribile  sembianza^ 

De^ Druidi  i  fantasmi  insanguinati, 
Che  fieramente  dalla  sete  antiqua 
Di  vittime  nefande  stimolati, 

A  sbramarsi  yenian  la  vista  obliqua  *^ 
Del  maggior  de^mis&tti,  onde  mai  possa 
La  loro  superbir  semenza  iniqua. 

Erano  in  veste  d^uman  sangue  rossa^, 
Sangue  e  tabe  grondava  ogni  capello, 
E  ne  cadea  una  pioggia  ad  ogni  scossa. 

Squassan  altri  un  tizzone,  altri  un  flagello *7 
Di  chelidri  e  di  verdi  anfesibene. 
Altri  un  nappo  di  tosco,  altri  un  coltello: 

E  con  quei  serpi  percotean  le  schiene 
E  le  fironti  mortali,  e  fean,  toccando 
Con  gli  arsi  tizzi,  ribollir  le  vene. 

Allora  delle  case  infuriando  ^ 

Uscian  le  genti,  e  si  (uggia  smarrita 
Da  tutti  i  petti  la  pietade  in  bando. 

Allor  trema  la  terra  oppressa  e  trita  *d 
Da  cavalli,  da  rote  e  da  pedoni^ 
E  ne  mormora  Paria  sbigottita^ 

Simile  al  mugghio  di  remoti  tuoni  ^^, 
Al  notturno  del  mar  roco  lamento , 
Al  profondo  ruggir  degli  Aquiloni. 

Che  cor,  misero  Ugon,  che  sentimento^' 
Fu  allora  il  tuo,  che  di  morte  vedesti 
L' atro  vessillo  volteggiarsi  al  vento  ? 

E  il  terribile  palco  erto  scorgesti, 
Ed  alzata  la  scure,  e  al  gran  misfatto 
Salir  bramosi  i  manigoldi  e  presti^ 

E  il  tuo  buon  Rege,  il  Re  più  grande,  in  atto 
D'agno  innocente  fra  digiuni  lupi, 
Sul  letto  de'  ladroni  a  morir  tratto  ^ 


Cinto  sBcoimo  4^ 

E  fra  i  silenzi  delle  turbe  cupi 

Lui  sereno  avanzar  la  fironte  e  il  passo. 

In  vista  che  spetrar  potea  le  rupi? 
Spetrar  le  rupi,  e  sciorre  in  pianto  un  sasso, 

Non  le  Galliche  tigri.  Ahi!  dove  spinto 

L'avete,  o  crude?  Ed  ei  v'amava?  Oh  lasso! 
Ma  piangea  il  Sole  di  gramaglia  cinto  ^*, 

E  stava  in  forse  di  voltar  le  rote 

Da  questa  Tebe'^,  che  P  antica  ha  vinto. 
Piangevan  Paure  per  terrore  inunote, 

E  P  anime  del  Cielo  cittadine  ^ 

Scendean  col  pianto  anch'esse  in  su  le  gote^ 
L'anime  che  costanti  e  pellegrine 

Per  la  causa  di  Cristo  e  di  Luigi 

Lassù  per  sangue  diventar  divine, 
n  duol  di  Francia  intanto  e  i  gran  litigi 

Mirava  Iddio  dall'alto^  e  giusto  e  buono 

Pesava  il  fato  della  rea  Parigi  ^^. 
Sedea  sublime  sul  tremendo  trono, 

E  sulla  lance  d'or  quinci  ponea 

L'alta  sua  pazfenza  e  il  suo  perdono^ 
Dell'iniqua  città  quindi  mettea 

Le  scelleranze  tutte:  e  nullo  ancora 

Piegar  de' due  gran  carchi  si  vedea. 
Quando  il  mortai  giudizio  e  Pultim'ora 

Dell'augusto  Infelice  alfin  v'impose 

L'Onnipotente.  Cigolando  allora 
Traboccar  le  bilance  ponderose: 

Grave  in  terra  cozzò  la  mortai  sorte, 

Balzò  P  altra  alle  sfere ,  e  si  nascose. 
In  quel  punto  al  feral  palco  di  morte 

Giunge  Luigi.  Ei  v'alza  il  guardo,  e  viene 

Fermo  alla  scala,  imperturbato  e  forte. 
Già  vi  monta,  già  il  sommo  egli  ne  tiene, 

E  va  sì  pien  di  maestà  l'aspetto, 

Ch'ai  manigoldi  fa  tremar  le  vene. 


46  BABSTILLUVA 

E  già  battea  furtiva  ad  ogni  petto  ^ 
La  pietà  rinascente,  ed  anco  parve 
Che  del  furor  sviato  avrìa  T  effetto. 

Ma  fier  portento  in  questo  mezzo  apparve: 
Sul  patibolo  infame  all^  improvviso  ^i 
Asceser  quattro  smisurate  larve. 

Stringe  ognuna  un  pugnai  di  sangue  intriso^ 
Alla  strozza  un  capestro  le  molesta, 
Torvo  il  cipiglio,  dispietato  il  viso^ 

E  scomposte  le  chiome  in  su  la  testa, 
0)me  campo  di  biada  già  matura, 
Nel  cui  mezzo  passata  è  la  tempesta. 

E  suUa  fronte  arroncigliata  e  scura 

Scritto  in  sangue  ciascuna  il  nome  avea, 
Nome  terror  de^regi  e  di  natura. 

Damiens^  Funo,  Ankastrom^d  T  altro  dicea, 
E  F  altro  Ravagliacco^^^  ed  il  suo  scritto 
D  quarto  colla  man  si  nascondea^'. 

Da  queste  Dire  ^'  avvinto  il  derelitto 
Sire  Capeto^^  dal  maggior  de^  troni 
Alla  mannaia  già  facea  tragitto. 

E  a  quel  Giusto  simil  che  fraMadroni 
Perdonando  spirava,  ed  esclamando: 
Padre,  Padre,  perchè  tu  m'abbandoni? 

Per  chi  a  morte  lo  tragge  anch^ei  pregando. 
Il  popol  mio,  dicea,  che  si  delira, 
E  il  mio  spirto.  Signor,  ti  raccomando. 

In  questo  dir  con  impeto  e  con  ira 
Un  degli  spettri  sospingendo  il  venne 
Sotto  il  taglio  fatai  ^  P  altro  ve  ^1  tira. 

Per  le  sacrate  auguste  chiome  il  tenne 
La  terza  Furia,  e  la  sottil  rudente ^^ 
Quella  quarta  recise  alla  bipenne. 

Alla  caduta  dell' acciar  tagliente 

S'aprì  tonando  il  cielo,  e  la  vermiglia 
Terra  si  scosse,  e  il  mare  orribilmente. 


cìnto  sECOimo  47 

Tremonne  il  mondo,  e  per  la  maraviglia 
E  pel  terror  dal  fireddo  al  caldo  polo  ^^ 
Palpitando  i  Potenti  alzar  le  ciglia. 

Tremò  Levante  ed  Occidente.  II  solo 
Barbaro  Celta,  in  suo  furor  più  saldo, 
Del  ciel  derise  e  della  terra  il  duolo  ^ 

E  di  sua  libertà  spietato  e  baldo 

Tuffò  le  stolte  insegne  e  le  man  ladre 
Nel  sangue  del  suo  Re  fumante  e  caldo; 

E  si  dolse  cbè  misto  a  quel  del  Padre 
Quello  pur  anco  non  scorreva,  ahi  rabbia! 
Del  regal  Figlio  e  dell^  augusta  Madre. 

Tal  di  boni  un  branco,  a  cui  non  abbia 
L^ ucciso  tauro  appien  sazie  le  canne, 
Anche  il  sangue  ne  lambe  in  su  la  sabbia. 

Poi  ne^  presepi  insidiando  vanne 
La  vedova  giovenca  ed  il  torello, 
E  rugghia,  e  arrota  tuttavia  le  zanne; 

Ed  ella,  che  i  ruggiti  ode  al  cancello. 
Di  doppio  timor  trema,  e  di  quell^ugne 
Si  crede  ad  ogni  scroscio  esser  macello^^ 

Tolta  al  dolor  delle  terrene  pugne 
Apriva  intanto  la  grand^Alma  il  volo. 
Che  alla  prima  Gagion  la  ricongiugne. 

E  ratto  intomo  le  si  fea  lo  stuolo 
Di  quell^  ombre  beate,  onde  la  Fede 
Stette,  e  di  Francia  sanguinossi  il  suolo. 

E  qual  le  corre  al  collo,  e  qual  si  vede 
Stender  le  braccia,  e  chi  P amato  volto, 
E  chi  la  destra,  e  chi  le  bacia  il  piede ^7: 

Quando  repente  della  calca  il  folto 

Ruppe  un^  Ombra  dogliosa,  e  con  un  rio 
Di  largo  pianto  sulle  guance  sciolto. 

Me,  gridava,  me^^  me  lasciate  al  mio 

Signor  prostraimi,  oh  date  il  passo!  E  presta 
Al  pie  regale  il  varco  ella  s^  aprio. 


48  BASSVUXUffi ,   CANTO  SEGOIfDO 

Dolce  un  guardo  abbassò  su  quella  mesta 
Luigi:  e,  Chi  sei?  disse:  e  qual  ti  tocca 
Rimorso  il  core  7  e  che  ferita  è  questa  7 

Alzati)  e  schiudi  al  tuo  dolor  la  bocca. 


MB 


CAjyrO  TERZO 


La  fronte  sollevò,  rissossi  in  piedi 
L^ addolorato  Spirto,  e,  le  pupille 
Tergendo,  a  dire  incominciò:  Tu  vedi, 

Signor,  nel  tuo  cospetto  Ugo  BassviUe, 
Della  Francese 'Libertà  mandato 
Sul  Tebro  a  suscitar  le  ree  scintille. 

Stolto,  che  volli  coU^immobil  fato 

Cozzar  della  gran  Roma,  onde  ne  porto 
Rotta  la  tempia,  e  il  iBanco  insanguinato^ 

Che  di  Giuda  il  Leon'  non  anco  è  morto ^ 
Ma  vive  e  rugge,  e  il.  pelo  arraffa  e  gli  occhi, 
Terror  d'Egitto,  e  d'Israel  conforto^ 

E  se  monta  in  furor,  Paste  e  gli  stocchi 
Sa  spezzar  de' nemici,  e  par  che  gridi: 
Son  la  forza  di  Dio,  nessun  mi  tocchi. 

Questo  Leone  in  Vaticano  io  vidi 
Far  coli' antico  e  venerato  artiglio 
Securì  e  sgombri  di  Quirino  i  lidi^ 

E  a^me,  che  nullo  mi  temea  periglio. 
Fé  con  un  crollo  deUa  sacra  chioma 
Tremanti  i  polsi,  e  riverente  il  ciglio*. 

Allor  conobbi  che  fatale  è  Roma, 
Che  la  tremenda  vanità  di  Francia 
Sul  Tebro  è  nebbia  che  dal  Sol  si  doma^ 

E.  le  minacce  una  sonora  ciancia. 
Un  lieve  insulto  di  villana  auretta 
D'abbronzato  guerriero  in  su  la  guancia. 

MoHTi.  Poemetti.  4 


5o  BASSVILLIAICA 

Spumava  la  Tirrena  onda  soggetta 
Sotto  le  Franche  prore,  e  la  premia 
n  timor  della  Gallica  vendetta^ 

E  tutta  per  terror  dalla  Scillea 
Latrante  rupe  la  selvosa  schiena 
Infino  all^Alpe  FAppennin  scotea. 

Taciturno  ed  mnil  volgea  P  arena 

L^Amo  frattanto,  e  paurosa  e  mesta 
Chinava  il  Volto  la  regal  Sirena. 

Solo  il  Tebro  levava  alto  la  testa, 
E  all^elmo  polveroso  la  sua  donna 
In  Campidoglio  rimettea  la  cresta: 

E  divina  guerriera  in  corta  gonna, 

Il  cor  più  che  la  spada  allMre  e  all^onte 
Di  Rodano  opponeva  e  di  Garonna; 

In  Dio  fidando,  che  i  trecento  al  fonte ^ 
D^Arad  prescelse,  e  al  Madianita  altero 
Fc  le  spalle  voltar,  rotta  la  fironte^ 

In  Dio  fidando,  io  dico,  e  nel  severo 
Petto  del  santo  suo  Pastor,  che  solo 
In  saldo  pose  la  ragion  di  Piero. 

Dal  suo  pregar,  che  dritto  spiega  il  volo 
Dell^ Etemo  all^ orecchio,  e  sulle  stelle 
Porta  i  sospiri  della  terra  e  il  duolo, 

I  turbini  fìir  mossi  e  le  procelle, 

Che  del  Varo  sommersero  P antenne^ 
Per  le  Sarde  e  le  Corse  onde  sorelle. 

Ei  sol  tarpò  del  Franco  ardir  le  penne  ^ 
L^onor  d^talia  vilipesa,  e  quello 
Del  Borbonico  nome  egli  sostenne. 

E  cento  volte  sul  destin  tuo  fello 
Bagnò  di  pianto  i  rai.  Per  lo  dolore 
La  tua  Roma  fedel  pianse  con  elio. 

Poi  cangiate  le  lagrime  in  furore. 

Corse  urlando  col  ferro,  ed  il  mio  petto 
Cercò  d^ orrende  faci  allo  splendore: 


CANTO  T£RZO  5l 

E  spense  il  suo  magnanimo  dispetto 

Sì  nel  mio  sangue,  ch^io  fui  pria  di  rabbia, 

Poi  di  pietade  miserando  obbietto. 
Eran  sangue  i  capei,  sangue  le  labbia, 

E  sangue  il  seno^  fé  del  resto  un  lago 

La  ferita,  che  miri,  in  su  la  sabbia. 
E  me,  cui  tema  e  amor  rendean  presago' 

Di  maggior  danno,  e  non  avea  consiglio, 

Più  cbe  la  moi*te,  combattea  T  immago 
Dcir  innocente  mio  tenero  figlio 

E  della  sposa,  abi  lasso!  onde  paura 

Del  lor  mi  strinse,  non  del  mio  perìglio. 
Ma  come  seppi  che  patema  cura 

Di  Pio  salvi  gli  avea,  brillommi  il  core, 

E  il  suo  sospese  palpitar  natura. 
Lagrimai  di  rimorso,  e  sull^ errore® 

Che  già  lunga  stagion  Palma  travolse, 

La  carità  poteo,  più  che  il  terrore. 
Luce  dal  Giel  vibrata  allor  mi  sciolse 

Dell'intelletto  il  buio,  e  il  cor  pentito 

Al  mar  di  tutta  la  pietà  si  volse. 
L'ali  apersi  a  un  sospiro,  e  l'infinito 

Amor  nel  libro,  dove  tutto  è  scritto, 

n  mio  peccato  cancellò  col  dito. 
Ma  Giustizia  mi  niega  al  ciel  tragitto, 

E  vagante  Ombra  qui  mi  danna,  intanto 

Cihe  di  Francia  non  vegga  ulto  il  delitto» 
Questi  mei  disse,  che  mi  viene  accanto 

(Ed  accennò'l  suo  duca),  e  che  m'ha  tolto 

Alla  fiumana  dell'eterno  pianto. 
Tutte  drizzaro  allor  quell'alme  il  volto 

Al  celeste  campion,  che  in  un  sorriso 

Dolcissimo  le  labbra  avea  disciolto. 
Or  tu  per  l'alto  Sir  del  Paradiso, 

Che  al  suo  grembo  t'aspetta  e  il  cicl  disserra, 

(Prosegui  r  Ombra  più  infiammata  in  viso)^ 


52  *  BÀSSTILLIA51 

Per  le  pene  tue  tante  in  su  la  terra  ^ 
Alla  mia  stolta  fellonia  perdona, 
Né  raccontar  lassù  che  ti  fei  guerra. 

Tacque,  e  tacendo  ancor  dicea:  Perdona^ 
E  r  affollate  intomo  Ombre  pietose 
Concordemente  replicar:  Perdona. 

ÀUor  TÀlma  regal  con  disiose 

Braccia  si  strinse  Fawersaria  al  seno, 
E  dolce  in  caro  favellar  rispose: 

Questo  amplesso  ti  parli,  e  noto  appieno 
Del  Re,  del  padre  il  core  e  dell'amico 
Ti  faccia,  e  sgombri  il  tuo  timor  terreno. 

Amai,  potendo  odiarlo,  anco  il  nemico^ 
Or  m'è  tolto  il  poterlo,  e  Palma  spiega 
Più  larghi  i  voli  dell'amore  antico. 

Quindi  là  dove  meglio  a  Dio  si  prega, 
n  pregherò  che  presto  ti  discioglia 
Del  divieto  fatai  che  qui  ti  lega. 

Se  i  tuoi  destini  intanto,  o  la  tua  voglia 
Alla  sponda  giammai  ti  torneranno. 
Ove  lasciasti  la  trafitta  spoglia^ 

Per  me  trova  le  due  che  là  si  stanno  7 
Mie  regali  Congiunte,  e  che  gli  orrendi 
Piangon  miei  mali ,  ed  il  più  rio  non  sanno. 

Lieve  sul  capo  ad  ambedue  discendi 
Pietosa  vision  (se  la  tua  scorta 
Lo  ti  consente),  e  il  pianto  ne  sospendi. 

Di  tutto  che  vedesti,  annunzio  apporta 
Alle  dolenti^  ma  del  mio  morire 
Deh!  sia  F immago  fuggitiva  e  corta. 

Pingi  loro  piuttosto  il  mio  gioire, 
Pingi  il  mio  capo  di  corona  adomo 
Che  non  si  frange,  né  si  può  rapire. 
*    Di'  lor  che  feci  in  sen  di  Dio  ritomo , 

Ch'ivi  le  aspetto,  e  là  regnando  in  pace, 
Le  nostre  pene,  narreremci  un  giorno. 


CANTO  TEBZO  53 

Vanne  poscia  a  quel  grande,  a  quel  Terace 

Nume  del  Tebro,  in  cui  la  riverente 

Europa  affissa  le  pupille  e  tace^ 
Al  sommo  Dittator  della  vincente 

Repubblica  di  Cristo,  a  Lui  che  il  regno 

Sorti  minor  del  egre  e  della  mente: 
Digli  che  tutta  a  sua  pietà  consegno 

La  Franca  Fede  combattuta^  ed  Egli 

Ne  sia  campione  e  tutelar  sostegno. 
Digli  che  tuoni  dal  suo  monte,  e  svegli 

L^addormentata  Italia,  e  aUa  ritrosa 

Le  man  sacrate  avvolga  entro  i  capegli^ 
Si  éhe  dal  fango  suo  la  neghittosa 

Alzi  la  fronte,  e  sia  delle  sue  tresche 

Contristata  una  volta  e  vergognosa. 
Digli  che  invan  Tlbere  e  le  Tedesche 

E  Parmi  Alpine  e  T Angliche  e  le  Prasse 

Usciranno  a  cozzar  colle  Francesche^ 
Se  non  v^ha  quella  onde  Mosè  percusse^ 

Amalecco  quel  di  che  i  lunghi  preghi 

Sul  monte  infino  al  tramontar  produsse. 
Salga  egli  dunque  sull^Qrebbe,  e  spieghi 

Alto  le  palme  ^  e  s^awerrà  che  stanco 

Talvolta  il  polso  al  pio  voler  si  nieghi, 
Gli  sosterranno  il  destro  braccio  e  il  manco 

GP  imporporati  Aronni  e  i  Galebidi, 

De^quai  soflblto  e  coronato  ha  il  fianco* 
Parmi  de'  nuovi  Amaleciti  i  gridi 

Dall'Olimpo  sentir,  parmi  che  Pio 

Di  Francia,  orando,  ei  sol  g|i  scacci  e  snidi. 
Quindi  vèr  lui  di  tutto  il  dover  mio 

Sdebiterommi  in  cielo,  e  finch'ei  vegna. 

Di  sua  virtù  ragionerò  con  Dio. 
Brillò,  ciò  detto,  e  sparve:  e  non  è  degna 

Ritrar  terrena  fantasia  gli  ardori. 

Di  ch'ella  il  cielo  balenando  segna. 


5{  BÀSSTILLIANÀ 

Qual  si  solleva  il  Sol  fra  le  minori 
Folgoranti  sostanze,  allor  che  spinge 
Sulla  fervida  cturva  i  corridori, 
Che  d^un  solo  color  tutta  dipinge 

L^ eterea  volta,  e  ogni  altra  stella  un  velo 
Ponsi  alla  fironte,  e  di  pallor  si  tinge  ^ 
Tal  fiammeggiava  di  sidereo  zelo, 
E  fra  mille  seguaci  Ombre  festose 
Tale  ascendeva  la  belVÀlma  al  cielo. 
Rideano  al  suo  passar  le  maestose 
Tremule  figlie  della  luce,  e  in  giro 
Scotean  le  chiome  ardenti  e  rugiadose. 
Ella  tra  lor  d^  amore  e  di  desiro 

Sfavillando  s^  estolle,  infin  che  giunta 
Dinanzi  al  Trino  ed  increato  Spiro, 
Ivi  queta  il  suo  volo,  ivi  s^ appunta 
In  tre  sguardi  beata,  ivi  il  cor  tace, 
E  tutta  perde  del  desio  la  punta. 
Poscia  al  crin  la  corona  del  vivace 
Amaranto  immortai,  e  sulle  gote 
Il  bacio  ottenne  dell^  etema  pace. 
E  allor  8^  udirò  consonanze  e  note 
D^inefifabil  dolcezza,  e  i  tondi  balli 
Ricominciar  delle  stellate  rote. 
Più  veloci  estdtarono  i  cavalli 

Portatori  del  giorno^  e  di  grand^  orme 
Stampar  Tarringo  degli  eterei  calli. 
Gioiva  intanto  del  misfatto  enorme 
L^ accecata  Parigi,  e  suU^ arena 
Giacea  la  regal  testa  e  il  tronco  informe; 
E  il  caldo  rivo  della  sacra  vena 
La  ria  terra  bagnava,  ancor  più  ria 
Di  quella  ohe  mirò  d^Atreo  la  cena. 
Nuda  e  -squaUida  intomo  vi  venia 

Turba  di  larve  di  quel  sangue  ghiotte, 
E  tutta  di  lor  bruna  era  la  via. 


CÀUTO  TEBZO  55 

Qual  da  fesse  mura|j^e  e  cave  grotte 

Sbucano  di  Minèo  Patre  figliuole, 

Quando  «ai  fiorì  il  color  toglie  la  notte  ^ 
GhMr  le  vedi  e  redire,  e  far  carole 

Sul  capo  ai  Viandante,  o  sovra  il  lago, 

Finche  non  esce  a  saettarle  il  Sole; 
Non  altrimenti  a  volo  strano  e  vago 

D^ogni  parte  erompea  F oscena  schiera, 

Ed  ulular  s^  udiva,  a  queU^  immago 
Che  £àA  sul  mai^o  d^una  fonte  nera 

I  lupi  sospettosi  e  vagabondi 

A  ber  venuti  a  truppa  in  su  la  sera. 
Gorrean  quei  vani  simulacri  immondi 

Al  sanguigno  ruscel,  sporgendo  il  muso 

L^un  dall^altro  incalzati  e  sitibondi. 
Ma  in  guardia  vi  sedea  nell^  arme  chiuso 

Un  fiero  Gherubin  che,  steso  il  brando, 

Quel  barbaro  sitir  rendea  deluso. 
E  le  larve  a  dar  volta,  e  mugolando 

A  stiparsi,  e  parer  vento  che  rotto 

Fra  due  scogli  si  vada  lamentando. 
Prime  le  quattro  comparìan  che  sotto 

Poc^anzi  al  taglio  dellMnfame  scure 

L^  infelice  Gapeto  avean  tradotto. 
Di  quei  tristi  seguian  Fatre  figure  9 

Che  d^uman  sangue  un  di  macchiar  le  glebe 

Là  di  Marsiglia  nelle  selve  impure. 
Indi  a  guisa  di  pecore  e  di  zdi>e 

Venia  lorda  di  piaghe  il  corpo  tutto 

D**  Ombre  una  vile  miserabil  plebe: 
Ed  eran  quelli  che  fecondo  e  brutto 

Del  proprio  sangue  fecero  il  mal  tronco 

Ghe  die  di  libertà  sì  amaro  il  frutto. 
Altri  forato  il  ventre,  ed  altri  ha  cionco 

Di  capo  il  busto,  e  chi  trafitto  il  lombo, 

E  chi  del  braccio  e  chi  del  naso  è  monco*, 


56  BASSVILLIÀ5A 

E  tutti  intorno  al  regio  sangue  un  rombo, 
Un  murmure.  facean,  che  cupo  il  fiume 
Dai  cavi  gorghi  ne  rendea  rimbombo. 

Ma  lungi  li  tenea  la  punta  e  il  lume 
Della  celeste  spada,  che  mandava 
Su  i  foschi  ceffi  un  pallido  barlume. 

Scendi,  Pìeria  Dea,  di  questa  prava 
Masnada  i  più  famosi  a  rammentarme, 
Se  Porror  la  memoria  non  ti  grava. 

Dimmi  tu,  che  li  sai,  gli  assalti  e  Parme 
Onde  il  Soglio  percossero  e  la  Fede, 
E  di  nobile  bile  empi  il  mio  carme. 

Capitano  di  mille  alto  si  vede  *^ 

Uno  spettro  passar  lungo  ed  arcigno. 
Superbamente  coturnato  il  piede. 

È  costui  di  Ferney  Tempio  e  maligno 
Filosofante,  ch^or  tra^  morti  è  corbo, 
E  fu  tra^vivi  poetando  un  cigno. 

Gli  vien  seguace  il  fiiribondo  e  torbo 
Diderotto,  e  colui  che  dello  spirto  '* 
Svolse  il  lavoro,  e  degli  affetti  il  morbo. 

Vassene  solo  P  eloquente  ed  irto  '* 

Orator  del  Contratto,  e  al  par  del  manto 
Di  sofo  ha  caro  P  afirodisio  mirto , 

Disdegnoso  d'aver  compagni  accanto 

Fra  cotanta  empietà;  che  al  trono  e  all'ara 
Fé  guerra  ei  si,  ma  non  d^'Santi  al  Santo. 

Segue  una  coppia  nequitosa  e  rara 
Di  due  tali  accigliate  anime  ree. 
Che  Q  diadema  ne  crolla  e  la  tiara. 

L'una  raccolse  dell'umane  idee  *' 
L'infinito  tesoro,  e  l'oceano 
Ove  stillato  ogni  venen  si  bee. 

Finse  l'altra  del  fosco  Americano  '^ 
Tonar  la  causa;  e  regi  e  sacerdoti 
Col  fulmine  ferì  del  labbro  insano. 


CANTO   TBBZO  ^7 

Dove  te  lascio,  che  per  Paltò  roti  *^ 

Sì  strane  ed  empie  le  comete,  e  il  varco 

D^ogni  ddirio  apristi  a^tuoi  nipoti? 
E  te,  che  contro  Luca  e  contro  Marco  *^, 

E  contro  gli  altri  duo  cosi  librato 

Scocchi  lo  strai  dal  sittogistic^  arco? 
Questa  d^  insania  tutta  e  di  peccato 

Tenebrosa  falange  il  fronte  avea 

Dal  fulmine  celeste  abbrustolato  ^ 
E  della  piaga  il  solco  si  vedea 

Mandar  fumo  e  faville,  e  forte  ognuno 

Di  quel  tormento  dolorar  parca. 
Curvo  il  capo,  ed  in  lungo  abito  bruno 

Venia  poscia  uno  stuol  quasi  di  scheltrì, 

Dalle  vigìlie  attriti  e  dal  digiuno. 
Sul  ciglio  rabbassati  ha  i  larj^  feltri. 

Impiombate  le  cappe,  e  il  pie  si  lento, 

Cihe  le  lumacce  al  paragon  son  veltri. 
Ma  sotto  il  faticoso  vestimento 

Gdan  ferri  e  veleni^  e  qual  tra^  vivi. 

Tal  vanno  ancor  tra^  morti  al  tradimento. 
Dell^  Ipocrito  dlpri  ci  son  gli  schivi 

Settator  tristi,  per  via  bieca  e  torta 

Con  Cesare  e  del  par  con  Dio  cattivi. 
Si  crudo  é  il  Nume  di  costor,  sì  morta, 

Sì  ripiena  d'orror  del  ciel  la  strada, 

Che  a  creder  nulla,  e  a  disperar  ne  porta. 
Per  lor  sovrasta  al  Pastoral  la  Spada, 

Per  lor  tant^alto  il  Soglio  si  sublima, 

Ch^  alfine  è  forza  che  nel  fango  cada. 
Di  lor  empia  fucina  uscì  la  prima 

FaviDa,  che  segreta  il  casto  seno 

Della  Donna  di  Pietro  incende  e  lima. 
Né  di  tal  peste  sol  va  caldo  e  pieno 

Borgofontana ,  ma  d^  Italia  mia 

Ne  bulica  e  ne  pute  anco  il  terreno. 


58  BÀSSVILLIÀNA  ,  CANTO  TERZO 

Ultimo  al  fier  concilio  comparia '7, 
E  su  tutti  gigante  soUevarse 
CoIFomero  sovran  si  discopria, 

E  colle  chiome  rabbuffiite  e  sparse 
Colui  che  al  discoperto  e  senza  tema 
Venne  contro  F  Eterno  ad  accamparse^ 

E  ne  sfidò  la  folgore  suprema, 
Secondo  Gapaneo,  sotto  lo  scudo 
D^un  gran  delirio  ch^ei  chiamò  Sistema. 

Dinanzi  gli  fuggia  sprezzato  e  nudo 

De^ minor  spettri  il  vulgo:  anche  Oocito 
ITavea  ribrezzo,  ed  abborrìa  quel  crudo. 

Poich'  ebber  densi  e  torri  circuito 
n  cadayero  sacro,  ed  in  lui  sazio 
Lo  sguardo,  e  steso  sorridendo  il  dito^ 

Con  fiera  dilettanza  in  poco  spazio 
Strinsersi  tutti,  e  diersi  a  far  parole, 
Quasi  sospeso  il  sempiterno  strazio* 

A  me  (dicea  Pun  d^essi),  a  me  si  vuole 
Dar  dell^opra  Ponor,  che  primo  osai 
Spezzar  lo  scettro,  e  lacerar  le  stole. 

A  me  piuttosto,  a  me,  che  disvelai 
De^ Potenti  le  firodi  (un  altro  grida), 
E  all^uom  dischiusi  sul  suo  dritto  i  rai. 

Perchè  Puom  surga,  e  il  suo  tiranno  uccida, 
Uop^  è  (  ripiglia  un  altro)  in  pria  dal  fianco 
DelP  etemo  timor  torgli  la  guida. 

Questo  fé  lo  mio  stil  leggiadro  e  franco, 
E  il  sai  Samosatense,  onde  condita '^ 
L'  empietà  piacque,  e  Puom  di  Dio  fu  stanco. 

Allor  fu  questa  orrìbil  voce  udita: 

r  fei  dì  più,  che  Dio  distrussi:  e  tacque; 
Ed  ogni  fronte  apparve  sbigottita. 

Primamente  un  silenzio  cupo  nacque  ^ 
Poi  tal  s^ intese  un  mormorio  profondo, 
Che  lo  spesso  cader  parca  dell^  acque, 

Allor  che  tutto  addormentato  è  il  mondo. 


CANTO  QUARTO 


Batte  a  voi  più  sublime  aura  sicura 
La  farftJletta  dellMngegno  mio, 
Lasciando  la  città  della  sozzura. 

E  dirò  come  congiurato  uscio 

A  dannaggio  di  Francia  il  mondo  tutto: 
Tale  il  senno  supremo  era  di  Dio. 

Canterò  Pira  dell^  Europa  e  il  lutto, 
Canterò  le  battaglie  j  ed  in  Tcrmiglio 
Tinto  de^  fiumi  e  di  due  mari  il  flutto. 

E  d'altro  pianto  andar  bagnata  il  ciglio 
La  bell'alma  vedrem,  di  cbe  la  Diva 
Mi  va  cantando  Taffimnoso  esigilo. 

n  bestemmiar  di  quei  superbi  udiva 
La  dolorosa;  ed  accennando  al  duce 
La  fiera  di  Renallo  ombra  cattiva: 

Come,  disse,  ira' morti  si  conduce 

Colui?  Di  polpe  non  si  veste  e  d'ossa? 
Non  bee  per  gli  occhi  tuttavia  la  luce  7 

E  r  altro:  La  sua  salma  ancor  la  scossa' 
Di  morte  jpon  sentì;  ma  la  governa 
Dentro  Marsiglia  d'un  demón  la  possa; 

E  l'alma  geme  fira  i  perduti  etema- 
mente  perduta:  né  a  tal  fato  è  sola. 
Ma  molte,  cbe  distingue  Ira  superna. 

E  in  Èrebo  di  queste  assai  ne  vola 
DaU' infame  congrèga,  in  cbe  s'aflSda 
Cotanto  Francia,  *ahi  stolta  !  e  si  consola. 


6o  BASSVIIXIÀNÀ 

Quindi  un  demone  spesso  ivi  s^  annida 
In  uman  corpo,  e  scaldane  le  vene, 
E  siede  e  scrive  nel  Senato  e  grida  ^ 

Mentre  lo  spirto  aUe  cocenti  pene 
D^Ayemo  si  martira.  Or  leva  il  viso; 
E  vedi  all^  uopo  chi  dal  ciel  ne  viene. 

Levò  lo  sguardo  :  ed  ecco  all^  improvviso 

Là  dove  il  Cancro  il  pie  d^Alcide  abbranca, 
E  discende  la  via  del  Paradiso , 

Ecco  aprirsi  del  ciel  le  porte  a  manca 
Su  i  cardini  di  bronzo;  e  una  virtude 
Intrinseca  le  gira  e  le  spalanca. 

Risonò  d^un  fragor  profondo  e  rude 
Dell^ Olimpo  la  volta,  e  tre  guerrieri 
Calar  fur  visti  di  sembianze  crude. 

Nere  sul  petto  le  corazze,  e  neri 
Nella  manca  gli  scudi,  e  nereggianti 
Sul  capo  tremolavano  i  cimieri; 

E  furtive  dall^  elmo  e  folgoranti 

Scorrean  le  chiome  della  bionda  testa, 
Per  lo  collo  e  per  Tornerò  ondeggianti. 

La  volubile  bruna  sopravvesta 

Da  brune  penne  ventilata  addietro 
Rendea  rumor  di  pioggia  e  di  tempesta. 

Del  sopracciglio  sotto  Parco  tetro 

Uscian  lampi  dagli  occhi,  uscia  paura, 
E  la  faccia  parea  bollente  vetro. 

Questi,  e  Faltro  campion  seduto  a  cura 
Dell^  estinto  Luigi,  Angeli  sono    . 
Di  terrore,  di  morte  e  di  sventura. 

Venil*  son  usi  dell'  Etemo  al  trono 

Quando  acerba  a'  mortai  volge  la  sorte , 
E  rompe  la  ragion  del  suo  perdono. 

D^ Egitto  il  primo  F incruente  porte* 
Nell'arcana  percosse  on*ibil  nqtte, 
Che  fiur  de' padri  le  speranze  morte. 


CANTO  QUAKTO  6l 

L'altro  è  quel  che  sul  campo  estinte  e  rotte 

Lasciò  le  fòrze  che  il  superbo  Assiro  ^ 

Contro  Fumile  Giuda  avea  condotte. 
Dalla  spada  del  terzo  i  colpi  uscirò^, 

Che  di  pianto  sonanti  e  di  ruina 

Fischiar  per  Paure  di  S'ion  s^ udirò, 
Quando  la  provocata  ira  divina 

Al  mite  genitor  fé  d^Absalone 

Caro  il  censo  costar  di  Palestina. 
LSiltimo  fiero  volator  garzone^ 

Uno  è  de^sei  cui  vide  F  accigliato 

Ezechiello  arrivar  dall^ Aquilone  ^ 
In  mano  aventi  uno  stocco  aflBlato, 

E  percotenti  ognun  che  per  la  via 

Del  Tau  la  fronte  n9n  vedean  segnato. 
Tale  e  tanta  dal  ciel  se  ne  venia 

Dei  procellosi  Arcangeli  possenti 

La  terribile  e  nera  compagma^ 
Come  gruppo  di  folgori  cadenti 

Sotto  povero  ciel,  quando  sparute 

Taccion  le  stelle,  e  fremon  F  onde  e  i  venti. 
n  sibilo  senti  delle  battute 

Ale  Parigi^  ed  arretrò  la  Senna 

Le  sue  correnti  stupefatte  e  mute. 
Vogeso  ne  tremò,  tremò  Gebenna^ 

E  il  Bebricio  Pirene,  e  lungo  e  roco 

Corse  un  lamento  per  la  mesta  Ardenna. 
Al  lor  primo  apparir  dier  ratto  il  loco 

L^ assetate  del  Tartaro  caterve. 

Un  grido  alzando  lamentoso  e  fioco. 
Come  fugge  talor  delle  proterve 

Mosche  lo  sciame  che  alla  beva  intento 

Sul  vaso  pastoral  brulica  e  ferve  ^ 
Che  al  toccar  della  conca  in  un  momento 

Levansi  tutte,  e  quale  alla  muraglia, 

Qual  si  lancia  alla  mano  e  quale  al  mento  : 


62  BASSVa.LUNA 

Tal  si  dilegua  V  infemal  ciurmaglia  \ 
Ed  altri  una  pendente  nuvoletta, 
D^ira  sbuffando,  a  lacerar  si  scaglia^ 

Sovra  il  mar  tremolante  altri  si  getta, 
E  sveglia  le  procelle;  altri  s^awolve 
Nel  nembo  genitor  della  saetta; 

Si  turbina  taluno  entro  la  polve  ; 
E  tal  altro  col  guizzo  del  baleno 
Fende  la  terra,  e  in  fumo  si  dissolve. 

Dal  sacro  intanto  orror  del  tempio  usciéno 
Di  mezzo  all'atterrate  are  deserte 
Due  Donne  in  atto  d'amarezza  pieno'. 

L'  una  velate,  e  V  altra  discoperte 

Le  dive  luci  avea,  ma  di  gran  pianto 
D'ambo  le  gote  si  parean  coverte. 

Era  un  vel  bianco  della  prima  il  manto 
Che  parte  cela,  e  parte  all'intelletto 
Rivela  il  corpo  immaculato  e  santo. 

Una  veste  inconsutile  di  schietto 
Color  di  fiamma  1'  altra  si  cingea, 
Siccome  il  pellican  piagata  il  petto: 

E  nella  manca  l'una  e  l'altra  Dea, 
E  nella  dritta  in  mesto  portamento 
Una  lucida  coppa  sostenea: 

E  sculto  ciascheduna  un  argomento 
Àv^a  di  duolo,  in  bei  rilievi  espresso 
Di  nitid'oro  e  di  forbito  argento. 

In  una  sculto  si  vedea  con  esso  ^ 
n  figlio  e  la  consorte  un  Re  fuggire, 
Pensoso  più  di  lor  che  di  sé  stesso; 

E  un  dar  subito  all'arme,  ed  un  firemirc 
Di  cruda  plebe,  e  dietro  al  fuggitivo, 
Siccome  veltri  dal  guinzaglio,  uscire; 

Poi  tra  le  spade  ricondur  cattivo , 
E  tra  1'  onte  quel  misero  innocente 
Morto  al  gioire ,  ed  al  patir  sol  vivo. 


CAUTO    QVAATO  63 

Mirasi  dopo  una  perversa  gente  ^ 

Cercar  fhrendo  a  morte  una  Regina, 

Dir  non  so  se  più  bella  o  più  dolente  ^ 
Ed  ancisi  i  custodi  alla  meschina, 

E  per  rabbia  delusa  (  orrendo  a  dirsi  !  ) 

Trafitto  il  letto  e  la  regal  cortina. 
Vera  Furto  in  un^ altra,  ed  il  ferirsi'^ 

Di  cinquecento  incontro  a  mille  e  mille, 

E  delibarmi  il  firagor  parca  sentirsi. 
Formidabile  il  volto  e  le  pupille. 

La  Discordia  scorrea  tra  Pirte  lance, 

Tra  la  polve,  tra  U  fumo  e  le  fiaiville, 
E  i  tronchi  capi  e  le  squarciate  pance. 

Agitando  la  face  che  sanguigna 

De^  combattenti  scoloria  le  guance. 
Vienle  appresso  la  Morte  che  digrigna 

I  bianchi  denti,  ed  i  feriti  artiglia 

Con  la  grand^  unghia  antica  e  fetrugigna: 
E  pria  r  anime  felle  ne  ronciglia 

Fuor  delle  membra,  e  le  rassegna  in  fi-etta 

Fumanti  e  nude  allMnfemal  famiglia^ 
Poi,  ghermite  le  gambe,  ne  si  getta 

I  pesanti  cadaveri  alle  spalle. 

Nò  più  vi  bada,  e  innanzi  il  campo  netta. 
Dietro  è  tutto  di  morti  ingombro  il  calle  ^ 

n  sangue  a  fiumi  il  rio  terreno  ingrassa, 

E  lubrico  s*  avvia  verso  la  valle. 
Scorre  intomo  U  Furor  coll^asta  bassa, 

Scorre  il  Tumulto  temerario,  e  il  Fato 

Ch^un  ne  percuote,  ed  un  ne  salva  e  passa. 
Scorre  il  lacero  Sdegno  insanguinato, 

E  rOrror  co' capelli  in  fironte  ritti. 

Come  r  istrice  gonfio  e  rabbuffato. 
Al  fine  in  compagnia  de'  suoi  delitti 

Vien  la  proterva  Libertà  Francese, 

Gh'  ebbra  il  sangue  si  bee  di  quei  trafitti: 


64  BASSVnXIAKA. 

E  son  sì  vivi  i  volti  e  le  contese, 
Che  non  tacenti,  ma  parlanti  e  vere 
Quelle  immagini  credi  e  quell^  offese. 

Altra  scena  di  pianto,  onde  il  pensiere" 
Rifagge,  e  in  capo  arricciasi  ogni  pelo, 
Nella  terza  scultura  il  guardo  fere. 

Sacro  all^  inclita  Donna  del  Carmelo 
Aprìasi  un  tempio,  e  distendea  la  notte 
Sul  primo  sonno  de'  mortali  il  velo  : 

Se  non  che  dell^  oscure  Artiche  grotte 
Langufan  le  mute  abitatrici  al  cheto 
Raggio  di  luna  indebolite  e  rotte. 

Strascinavasi  quivi  un  mansueto 
Di  ministri  di  Dio  sacro  drappello, 
Ch'empio  dannava  popolar  decreto. 

Un  barbaro  di  lor  si  fea  macello: 

Ed  ei,  che  schermo  non.  avean  di  scudo 
Al  calar  del  sacrilego  coltello: 

Pietà,  Signor,  porgendo  il  collo  ignudo. 
Signor,  pietà,  gridavano:  e  venia 
In  quella  il  colpo  inesorato  e  crudo. 

Cadeau  le  teste ,  e  dalle  gole  uscxa 
Parole  e  sangue^  per  la  polve  il  nome 
Di  Gesù  gorgogliando  e  di  Maria. 

E  F  un  su  r  altro  si  giacean,  siccome 
Scannate  pecorelle,  e  fean  ribrezzo 
L'aperte  bocche  e  le  riverse  chiome. 

La  luna  il  raggio  ai  visi  esangui  in  mezzo 
Pauroso  mandava  e  verecondo, 
A  tanta  colpa  non  ben  anco  avvezzo; 

Ed  implorar  parea  d'un  vagabondo 
Nugolo  il  velo,  ed  affrettar  raminga 
Gli  atterriti  cavalli  ad  altro  mondo. 

Chi  mi  darà  le  voci,  ond'io  dipinga 
U  subbietto  feral  che  quarto  avanza, 
Si  eh'  ogni  ciglio  a  lagrimar  costringa  ? 


CANTO   QUARTO  65 

Uom  d^ affannosa,  ma  regal  sembianza, 

À  cui,  rapita  la  corona  e  il  regno, 

Sol  del  petto  rimasta  è  la  costanza, 
Venia  di  morte  a  vii  supplizio  indegno 

Chiamato,  ahi  lasso!  e  rei  traevan  quelli 

Che  fiir  dell'amor  suo  poc'  anzi  il  segno. 
Quinci  e  quindi  accorrean  sciolte  i  capelli 

Consorte  e  suora  ad  abbracciarlo,  e  gli  occhi 

Ognuna  avea  conversi  in  due  ruscelli. 
Stretto  al  seno  egli  tiensi  in  su  i  ginocchi 

Un  dolente  fanciullo,  e  par  che  tutto 

Negli  amplessi  e  nerbaci  il  cor  trabocchi; 
E  si  gU  dica:  Da' miei  mali  istrutto 

Apprendi,  o  figlio,  la  yirtude,  e  cogli 

Di  mie  fortune  dolorose  il  frutto. 
Stabile  e  santo  nel  tuo  cor  germogli  ** 

n  timor  del  tuo  Dio,  né  mai  d'un  trono , 

Mai  lo  stolto  desir  l'alma  t'invogli. 
E  se  l'ira  del  Giel  sì  tristo  dono 

Faratti,  il  padre  ti  rammenta,  o  figlio; 

Ma  serba  a  chi  l'uccide  il  tuo  perdono. 
Questi  accenti  parca,  questo  consiglio 

Profferir  l'infelice;  e  chete  intanto 

Gli  discorrean  le  lagrime  dal  ciglio. 
Piangean  tutti  d'intorno,  e  dall' un  canto 

Le  fiere  guardie  impietosite  anch'  esse 

SciogUean,  poggiate  suUe  lan^e,  il  pianto. 
Gotai  sul  vaso  acerbi  fatti  imprèsse 

L'artefice  divino;  e  se  vietato, 

Se  conteso  il  dolor  non  gliel  avesse, 
U  resto  de'  tuoi  casi  effifi(i*ato 

Vavrìa  pur  anco,  o^e  tradito,  e  degno 

Di  miglior  scettro  e  di  più  giusto  fato. 
E  ben  lo  cominciò;  ma  l'alto  sdegno 

Quel  lavoro  interruppe,  e  alla  pietate 

Cesse  alfin  l'arte,  ed  all'orrór  l'mgegno. 
Monti.  Poemetti.  5 


66  BÀSSyJLLUNA 

Poiché  di  doglia  piene  e  d^  onestate 
Si  fiir  r  alme  due  Dive  a  quel  feroce 
Spettacolo  di  sangae  approssimate, 

Sul  petto  delle  man  fero  una  croce  ^ 
E  sull^  illustre  estinto  il  guardo  fise, 
Senza  moto  restarsi  e  senza  voce, 

Pallide  e  smorte  come  due  recise 
Caste  viole,  o  due  ligustri  occulti, 
Cui  né  Taura  né  Palba  ancor  sorrise. 

Poi  con  lagrime  rotte  da^  singulti 

Baciar  r augusta  fronte,  e  ne  serraro 
Gli  occhi  nel  sonno  del  Signor  sepulti^ 

Ed  il  coi*po  composto  amato  e  caro. 
Vi  pregar  sopra  F etemo  riposo, 
Disser  F ultimo  vale,  e  sospiraro. 

E  quindi  in  riverente  atto  pietoso 
n  sacro  sangue,  di  che  tutto  orrendo 
Era  intomo  il  terreno  ahbominoso, 

Nell^ auree  tazze  accolsero  piangendo. 
Ed  ai  quattro  guerrier  vestiti  a  bruno 
Le  presentar  spumanti^  una  dicendo: 

Sorga  da  questo  sangue  un  qualcheduno 
Yendicator,  che  col  ferro  e  col  foco 
Insegna  chi  lo  sparse^  né  veruno 

Del  delitto  si  goda,  né  sia  loco 

Che  lo  ricovri:  i  flutti  avversi  ai  flutti, 
I  monti  ai  monti,  e  V  armi  all'armi  invoco. 

Il  tradimento  tradimento  frutti^ 

L'esiglio^  il  laccio,  la  prigion,  la  spada 
Tutti  li  perda,  e  li  disperda  tutti. 

E  chi  sitia  più  sangue ,  per  man  cada  *^ 
D'una  virago,  ed  anima  funebre 
À  dissetarsi  in  Acheronte  vada. 

E  chi  n'arso  da  superba  febre  '^, 

Del  capo  altrui  si  fea  sgabello  al  soglio , 
Sul  patibolo  chiuda  le  palpebre; 


CÀUTO   QUARTO  67 

E  gli  emirnga  il  carnefice  P orgoglio^ 

Né  ciglio  il  pianga^  uè  cor  sia  che,  fìiora 

Del  suo  tardi  morir,  senta  cordoglio. 
La  veneranda  Dea  parlava  ancora, 

E  già  fuman  le  coppe  ^  e  a  quei  campioni 

n  cherubico  volto  si  scolora; 
Pari  a  quel  della  Luna,  allor  che  proni 

Ruota  i  pallidi  raggi,  e  in  giù  la  tira 

n  poter  delle  Tessale  cannoni  ; 
E  rocchio  sotto  Telmo  un  terror  spira, 

Che  buia  e  muta  Paria  ne  divenne, 

E  tremò  di  quei  sguardi  e  di  quelP  ira. 
Dei  quattro  opposti  venti  in  su  le  penne 

Tutti  a  un  tempo  fèr  vela  i  Cherubini, 

Ed  ogni  vento  un  Gherubin  sostenne. 
Già  il  Sol  lavava  lagrimoso  i  crini 

Nell^  onde  Maure ,  e  dal  timon  sciogliea 

Impauriti  i  corrìdor  divini^ 
Ghè  la  memoria  ancor  retrocedea 

Dal  veduto  delitto,  e  chini  e  mesti 

Espero  all^ auree  stalle  i  conducea  ^ 
Mentre  la  notte  di  pensier  funesti 

E  di  colpe  nudrice  e  di  rimorsi 

Le  mute  riprendea  danze  celesti  : 
Quando  per  Paria  cheta  erte  levorsi 

Le  quattro  oscure  vision  tremende, 

E  Puna  all^  altra  tenea  vólti  i  dorsi. 
Glimte  là  dove  la  folgore  prende 

L'acuto  volo,  e  furibonda  il  seno 

Della  materna  nuvola  scoscende^ 
Inversero  le  coppe,  e  in  un  baleno 

Imporporossi  il  cielo,  e  delle  stelle 

Livido  fessi  il  virginal  sereno. 
Inversero  le  coppe,  e  piobber  quelle 

n  fatai  sangue,  che  tempesta  roggia 

Par  di  vivi  carboni  e  di  fiammelle. 


68  BÀssvnxiJUffA 

Sotto  la  strana  rubiconda  pioggia 
Ferve  irato  il  terren  che  la  riceve , 
E  rompe  in  fìimo^  e  il  fumo  in  alto  poggia, 

E  i  petti  invade  penetrante  e  lieve 
E  le  menti  mortali,  e  fa  che  d'ira 
Alto  incendio  da  tutte  si  soUeve. 

Arme  firemon  le  genti,  arme  cospira 

L' Orto  e  V  Occaso,  T Austro  e  rA(juilone, 
£  tuttacpianta  Europa  arme  delira. 

Quind'  escono  del  fier  Settentrione  *^ 
L'Aquile  bellicose,  e  coli' artiglio 
Sfrondano  il  Franco  tricolor  bastone. 

Quinci  move  dall'Anglico  coviglio 
n  biondo  imperator  della  foresta 
n  tronco  stelo  a  vendicar  del  Giglio. 

Al  fraterno  ruggito  alza  la  testa  *^ 
L'Annoverese  impavido  cavallo, 
E  il  campo  colla  soda  unghia  calpesta. 

D'  altra  parte  sdegnosa  esce  del  vallo 
E  maestosa  la  gran  Donna  Ibera 
Al  crudele  di  Marte  orrido  ballq^ 

E  scossa  la  cattolica  bandiera. 
In  su  la  rupe  Pire^ea  s'affaccia, 
Tratto  il  brando  e  calata  la  visiera^ 

E  la  Celtica  putta  a^to  minaccia , 
E  r  osceno  berretto  all^  ribalda 
Scompiglia  in  capo,  e  per  Io  fango  il  caccia. 

Ma  del  prisco  valor  ripiena  e  calda 
La  Sovrana  dell'Alpi  in  su  l' entrata 
Ponsi  d' Italia,  e  ferma  tiensi  e  salda 5 

E  alla  nemica  la  fatai  giornata  '7 

Di  Guastalla  e  d'Assietta  ella  rammenta, 
E  l'ombra  di  Bellisle  invendicata, 

Che  rabbiosa  s' aggira,  e  si  lamenta 
In  vai  di  Susa,  ^  arretra  per  pauri^ 
Qualun^e  la  vendetta  ancor  ritenta. 


CAUTO   QUARTO  69 

Mugge  firattanto  tempestosa  e  scura 

Da  lontan  Tonda  deDa  Sarda  Teti, 

Scoglio  del  Franco  ardire  e  sepoltura. 
Mugge  Fonda  Tirrena,  irrequieti 

Levando  i  flutti,  e  non  aver  si  pente 

Da  pria  sommersi  i  mal  raccolti  abeti. 
Mugge  Tonda  d^ Atlante  orribilmente, 

Mugge  Tonda  Brittanna,  e  al  suo  muggito 

Rimormorar  la  Baltica  si  sente. 
Fin  daU^  estremo  Americano  lito 

n  mar  s^ infuria,  e  il  Lusitan  n^  ascolta 

Nel  buio  della  notte  il  gran  ruggito. 
Sgomentossi,  ristette,  e  a  quella  volta 

Drizzò  r orecchio  di  BassviUe  anch'essa 

la  attonit' Ombra  in  suo  dolor  sepoltSL 
Palpitando  ristette,  e  alla  convessa 

Region  sollevando  la  pupiUa 

Traverso  all'ombra  sanguinosa  e  spessa. 
Vide  in  su  per  la  truce  aria  tranquilla 

Correr  spade  infocate^  ed  aspri  e  cupi 

^P intese  i  cozzi,  ed  un  clangor  di  squilla. 
Quindi  gemere  i  boschi,  urlar  le  rupi, 

E  piangere  le  fonti,  e  le  notturne 

Strigi  solinghe,  e  ulular  cagne  e  lupi^ 
E  la  quiete  abbandonar  dell'urne 

Pallid' ombre  fiir  viste,  e  per  le  vie 

Vagolar  sospirose  e  taciturne^ 
Starsi  i  fiumi,  sudar  sangue  le  pie 

Immagini  de' templi,  ed  involato 

Temer  le  genti  eternamente  il  die. 
O  pietosa  mia  guida,  die  campato 

M' hai  dal  lago  d'Avemo ,  e  che  mi  porti 

A  sciog^ere  per  gli  occhi  il  mio  peccato^ 
Certo  di  stragi  e  di  sangue  e  di  morti 

Segni  orrendi  vegg'io:  ma  come?  e  donde? 

E  a  chi  propizie  volgeran  le  sorti? 


> 


70  bassvillura,  cauto  quarto. 

Ài  suo  duca  si  disse,  e  avea  feconde 
Di  pianto  la  firancese  Ombra  le  ciglia. 
Vienne  meco,  e  il  saprai,  F  altro  risponde '*; 

Eà  amoroso  per  la  man  la  piglia. 


NOTE 


ALLA    BASSVILLIANA 


AFFERTIMENTO  DELL'EDITORE 


Per  queste  NotCj  rispetto  ai  primi  due  Canti j  non  credo  di  poter 
prescindere  da  quelle  stampate  nel  1795  in  Roma  presso  Luigi 
Perego  Salvionij  giacché,  per  quanto  ritraesi  dalle  sue  lettere  pub' 
blicate  postume^  sono  lavoro  delV Autore  medesimo.  Non  avendo 
però  egli  fatto  altrettanto  sugli  altri  due  Canti^  a  corredo  di  questi 
ristampo  le  brevi  Note  che  accompagnano  la  Bassyilliana  nelle 
varie  edizioni  della  Società  Tipografica  dei  Classici  Italiani  compi' 
late  da  un  amico  del  Monti,  il  quale  se  ne  mostrava  pienamente 
soddisfatto. 


RAGIONE  DELLE  NOTE 


Dae  cose  si  propone  T autore  di  queste  dichiarazioni:  una  di 
soddisfare  al  desiderio  del  pubblico»  nel  quale,  da  che  uscirono 
alla  luce  i  primi  Ganti,  fu  sentita  la  non  ingiusta  querela  che 
mancassero  questi  di  una  certa  necessaria  illustrazione  non  meno 
su  i  fatti,  che  sul  modo  di  raccontarli. 

L'altra  si  è  di  yendicare  la  Gantica  dalle  sciocche  e  mise- 
rabili note  deli'  edizione  d'Assisi  e  di  Macerata ,  note  dettate 
dalla  fame  e  stampate  senza  onestà.  Ayendo  poi  il  poeta  sotto 
un  modesto  titolo  intrapreso  a  descrivere  dei  grandi  ayrenimenti, 
alla  tognizione  dei  quali  ha  diritto  non  tanto  V  uomo  di  lettere, 
che  l'uomo  del  volgo,  si  è  procurato  che  le  presenti  note  con- 
tentino l'ignorante  ed  il  dotto,  conducendo  il  primo  per  mano 
nell'oscurità  delle  materie  egualmente  che  dello  stile,  e  rinfre^ 
scando  all'altro  le  sue  riflessioni,  onde,  di  passeggiere  ch'erano 
nella  sua  mente,  fissarle  e  perfezionarle:  lo  che  credo  noi  lascerà 
senza  un  quakhe  diletto ,  ricordandogli  la  sua  erudizione ,  e  fa- 
cendolo accorto  del  retto  suo  giudicare.  E  siccome  il  criterio 
del  volgo  non  è  quello  affatto  dell'uomo  di  lettere,  e  all'uno  e 
all'altro  tuttavia  in  argomento  pubblico  è  dnopo  di  compiacere; 
così,  per  conciliarne  la  differenza  in  modo  che  il  commentatore 
non  sofiìra  indebitamente  la  pena  di  questa  disparità  di  opinioni, 
riilitterato  consideri  che  vi  son  molti  eruditi  che  bisogna  rispet- 
tare, e  consideri  l'erudito  che  vi  sono  moltissimi  illitterati  cui 
bisogna  istniire. 


y4  NOTE    ALLA    BASSVILLIANÀ 

Faremo  ancora,  per  dar  ragione  di  tutto,  alcune  parole  sulla 
scelta  del  metro  e  dello  stile.  E  in  quanto  al  metro,  vuoisi  os- 
servare che  la  terza  rima  più  che  l'ottava  si  adatta  ad  una 
poesia  in  cui  gli  orrori  e  i  delitti  e  la  sferza  del  vizio  denno 
aver  parte  piili  che  le  azioni  virtuose  ed  eroiche,  ad  una  poe- 
sia, che  cammina  al  suo  fine  non  per  vie  aperte  e  visibili ,  ma 
per  sentieri  pieni  di  tenebre  e  di  mistero ,  perchè  l'evento  della 
gran  vertigine  che  sconvolge  l'Europa,  sempre  è  sospeso  e 
sempre  più  fugge  dinanzi  agli  occhi  della  più  attenta  politica; 
sembrando  che  Iddio  n'  abbia  riserbata  a  sé  solo  la  cognizione. 
Ora  ad  un  siffatto  andamento  di  cose  pare,  o  io  m'inganno,  che 
la  terzina  si  presti  mirabilmente,  sì  perchè  il  capitolo  si  acco- 
sta più  all'indole  misteriosa  delle  poesie  profetiche,  si  perchè 
concatenandosi  l' idee  al  pari  de'  versi ,  ed  incalzandosi  senza 
riposo  l'una  coU'altra,  più  si  fa  strada,  più  la  mente  si  trova 
sollevata,  riscaldata  e  rapita. 

Un  altro  motivo  di  quella  scelta  è  stato  di  allontanare  da 
questo  poema y  qualunque  siasi ^  il  sospetto  e  l'aria  di  epico, 
che,  secondo  le  idee  già  ricevute,  mal  confarebbesi  colla  terza 
rima  ;  meno  poi  col  soggetto  ehe  si  imprende  a  cantare,  essendo 
questa  un'  azione ,  anzi  un  cumulo  d' azioni  non  solamente  non 
consumate ,  ma  che  tuttogìorno  si  moltiplicano  e  lentamente  si 
vanno  sviluppando  (e  dovrei  dire  imbrogliando)  sotto  la  penna 
medesima  del  poeta.  Quindi  nessuno  per  avventura  si  avvisasse 
mai  di  credere  che  il  personaggio  di  Bassville  sia  l'oggetto 
principale  di  questa  Cantica.  Egli  n'è  tanto  l'eroe,  quanto  lo 
è  Dante  della  sua  Commedia  ;  anzi  assai  meno  :  perocché  Dante 
.non  solo  interviene  in  qualità  di  spettatore  a  tutta  V  azione  de- 
scritta ne'  suoi  tre  mondi ,  ma  spesse  volte  v*  interloquisce  in 
qualità  di  attore,  e  molte  cose  ancora  vi  accadono  a  suo  solo 
riguardo.  Laddove  nella  nostra  Cantica  l'anima  di  Bassville  non 
è  che  una  semplice  passiva  spettatrice  dei  tristi  avvenimenti  che 
si  descrivono.  La  loro  scelta  dipende  tutta  dall'arbitrio  della  fan- 
tasia, e  alle  operazioni  di  questa  presiede  sempre  la  religione  che 
sottraendola  alle  regole  ordinarie  dell'umano  intelletto,  le  dà  l'ali 
per  volar  dappertutto.  Mi  si  dirà  che  allora  il  titolo  dell'  opera 
è  bugiardo  ;  né  io  ne  dissento  :  ma  chi  ci  assicura  che  questo 
titolo  le  rimarrà  sempre?  Quante  opere  sono  stale  cominciate 
con  un  nome,  ed  han  terminato  in  un  altro?  e  poi  che  monta 
adesso  una  disputa  di  parole? 

Dalla   natura  del   soggetto   discende   quella   dello   stile  ^   se- 


NOTE  ALLA  BASSVILLUNA  75 

oondo  il  precetto  d'Oraiio  e  della  ragione.  È  indubitato,  seb- 
bene assai  pocbi  lo  sappiano,  che  la  nostra  lìngua  in  bocca  di 
ninno  è  così  maschia ,  cosi  veemente ,  così  magnifica  come  in 
qoella  di  Dante.  Sempre  nobili,  sempre  eleganti,  sempre  toscane 
sono  le  sae  locuzioni,  non  sempre  però  i  suoi  Tocaboli;  e  vili 
e  basse  appaiono  pure  non  di  rado  le  sue  immagini  e  i  suoi 
sentimenti,  secondo  che  la  bile  ghibellina  gl'intorbida  la  fantasia: 
ond'è  che  a  ragione  egli  intitolò  Commedia  questo  suo  strano 
e  marayiglioso  poema.  Ma  quanto  è  agevole  cosa  l'imitarlo  nei 
suoi  difetti,  altrettanto  è  disastrosa  T  imitarlo  nel  bello;  e  se 
diceva  Virgilio  esser  piii  facile  rapir  la  clava  ad  Ercole,  che 
nn  verso  ad  Omero,  a  più  buon  dritto  potrebbe  dirsi  esser  piiì 
facile  rapir  il  fulmine  a  Giove,  che  un  verso  a  Dante. 

L' autore  della  Cantica  BassviUiana  è  ben  lontano  da  così  gran 
pretensione.  Non  sarà  poco  se,  disperando  di  andargli  vicino 
quando  è  sublime,  lo  avrà  schivato  quando  è  plebeo;  sebbene 
dal  processo  di  queste  note  si  comprenderà  di  leggieri  che  il 
contemporaneo  di  Cimabne  non  è  l'unico  né  il  più  caro  idolo 
a  cui  egli  sempre  sacrifica.  Per  la  qual  cosa  a  tutti  qnelli  che 
si  lagnano  di  dover  leggere  questa  Cantica  col  vocabolario  alla 
mano,  l'autore  non  può  altro  rispondere,  se  non  che  quando 
scrivea,  egli  non  pensava  veramente  all'ignoranza  di  tai  leggito- 
ri ;  fra'  quali  poteva  egli  mai  figurarsi  esservi  anime  così  corag- 
giose, da  giudicare  e  vilipendere  quello  che  non  intendono? 
Anche  quelli  che  lo  rimproverano  d' aver  pescate  nelle  bolge 
dantesche  voci  morte  o  bandite ,  siano  ben  persuasi  che  qui 
Dante  è  imitato  in  tutt'altro  che  nei  vocaboli ,  per  la  gravità  e 
purità  dei  quali  egli  riposa  principalmente  sull'autorità  del 
primo  inappellabile  maestro  d'italiana  eleganza,  l'Ariosto ,  a  cui 
supplica  umilmente  questi  spiriti  fastidiosi  di  girare  la  loro 
censura. 

Coloro  poi  che  per  difetto  di  gusto  non  giungono  a  capire 
come  le  parole,  che  chiamano  antiquate,  accrescono,  se  con 
senno  si  adoprino ,  venerazione ,  dignità  e  virilità  allo  stile  ; 
coloro  che  torcono  il  naso  alla  vista  d'un  latinismo,  e  si  di- 
menticano che  la  lingua  italiana,  siccome  figlia  ed  erede  della 
latina,  ha  tutto  il  diritto  a  giovarsi  della  materna  suppellettile, 
quando  le  torna  conto;  coloro  che  ignorano  il  consiglio  d'Ari- 
stotele ,  il  quale  raccomanda  1'  uso  delle  parole  straniere  come 
uno  dei  tre  mezzi  da  lui  proposti  per  esaltare  la  locuzione;  che 
perciò  Virgilio,  e  più  di  lui  Orazio  e  Properzio  sono  pieni  di 


76  NOTE  ALLA  BAS8VILLIANA 

ellenismi  I  e  die  ninno  da  essi  in  poi  è  salito  a  gran  pregio  di 
stile  senza  questo  artificio;  coloro  finalmente  che,  incapaci  di 
sollevarsi,  beffino  nn  poeta ,  quando  abbandona  le  fininole  co- 
muni dell' espressione,  e  sono  chiamati  da  Dryden  i  suoi  critici 
in  prosa:  noi  gli  avvisiamo  tutti,  che  Aristotele  gli  ha  già  giudi- 
cati nella  persona  di  quel  suo  ridicolo  Eodide,  di  cui  deride 
certa  insipida  allegoria  ;  e  badino  che  la  censura  ricade  tutta  in 
disonor  del  censore,  scoprendolo  ignorante  e  maligno. 

Daremo  fine  con  una  riflessione  di  Addison,  nel  quinto  de' 
suoi  Spettatori  sopra  il  poema  del  Paradiso  perduto.  Un  vero 
critico i  die'  egli,  deve  arrestarsi  pm  aUe  beUexx^e,  che  alle  ùn- 
perfexioni  étwrC  opera ,  palesarne  con  candore  le  più  nascoste 
grafie ,  e  partecipare  al  pìMUco  quelle  cose  che  sono  pm 
degne  et  osserva:Qone»  Le  pm  squisite  elegcatxe  e  i  tratti  pm 
maestrevoli  et  uno  scrittore  ^  son  quelU  che  sovente  appaiono 
I  pm  dubbiósi  e  i  più  riprensibiU  ad  uno  sparito  sfornito  ih 
gusto  e  di  fina  letteratura^  e  son  quelli  che  un  critico  mor^ 
duce  e  sen^a  discernimento  assaUsce  con  la  tnassùna  vioknxa. 


77 


NOTIZIE    STORICHE 


Dopo  molte  diligenze  »  poche  notizie  abbiamo  potato  raccogliere  della 
▼ha  di  Nicola  Ugo  di  BaBsville.  Noi  le  daremo  senza  sdegno  e  parzia- 
lità^ e  collo  stesso  candore  con  cui  ci  sono  state  comunicate. 

Egli  era  nativo  d^AbbcTÌlle,  città  rìgnarderole  della  Francia^  dopo 
Amiens  la  più  popolata  della  Piccardia  inferiore^  e  rinomata  per  l'ec- 
cellenza delle  sue  tinte^dicui  proyyede  tutta  l'Europa.  Suo  padre,  che 
ìtì  esercitava  e  tuttora  vi  esercita  l'arte  del  tintore ,  osservando  dei 
talenti  nel  figlio  e  desiderando  migliorarne  la  fortuna  e  la  condizione, 
l'incamminò  per  la  strada  ecclesiastica.  Il  giovine,  per  secondare  la  pa- 
tema intenzione  pia  che  la  propria  inclinazione  che  lo  traeva  parti- 
colarmente verso  le  belle  lettere,  si  applicò  di  proposito  agli  studii  teo- 
logici, nei  quali  cadde  il  sospetto  che  la  purità  delle  massime  non  an- 
dasse del  pari  colla  rapidità  del  profitto.  Comunque  sia,  ottenuta  pre- 
stamente una  cattedra  di  teologia,  prestamente  se  ne  dimise;  e  disgu- 
stato di  quegli  studii  all'indole  sua  non  confacenti,  si  abbandonò  nuo- 
vamente all'amenità  delle  lettere,  e  si  portò  a  cercare  nell' antica  Pa- 
rigi un'altra  fortuna. 

Ivi  giunto,  s'insinuò,  destro  com'era,  nella  grazia  d'un  gran  perso- 
naggio ,  che  seco  il  tenne  qqalche  tempo  in  qualità  di  bibliotecario  e 
di  bello  spirito.  Fu  allora  che  due  ricchi  giovani  americani  delle  co- 
lonie inglesi  essendo  capitati  a  Parigi  con  raccomandazioni  particolari 
a  quel  ministero,  fu  scelto  il  Bassville  (forse  per  la  mediazione  dell'  il- 
lottre  suo  protettore)  a  compagno  ed  aio  di  questi  due  viaggiatori  nel 
giro  che  intrapresero  della  Germania;  nel  che  egli  liberò  cosi  bene  il 
sno  debito,  che  ne  fu  premiato  colla  cospicua  pensione  di  tremila  lire, 
in  che  consisteva  tutta  la  privata  sua  rendita. 

Durante  questo  viaggio  scontrossi  a  Berlino  con  Mirabeau  il  mag- 
giore, quello  cioè  che  nelle  prime  scosse  del  regno  di  Francia  mo- 
strò e  fé  valere  de'  vizi  e  de'  talenti  pari  alla  grandezza  di  quel  tempo 
calamitoso;  e  consonando  di  massime  e  d'opinioni,  si  strinse  con  esso 
in  legami  di  particolare  amicizia. 

Nella  sua  dimora  a  Berlino,  quella  Reale  Accademia  lo  ascrisse  a' 
suoi  membri,  con  uno  de' quali  sostenne  fortuitamente  un'acre  contesa 
letteraria  sul  merito  degli  scrittori  francesi  che  l'altro  aveva  malme- 
nati in  certo  suo  libro.  Fu  questi  il  celebre  Carlo  Denina,  istoriografo 


yS  NOTE  ALLA   BASSVILLIÀIHÀ 

del  gran  Federico,  autore  dell'opera  tanto  applaudita  delle  rivoluzioni 
d'Italia,  e  dell'altra  tanto  mediocre  dell' ittoria  letteraria  della  Grecia, 
e  di  un^ altra  ancpra  che  fa  compassione,  intitolata  la  Bibliopea,  os- 
sia l'Arte  di  compor  librì. 

Di  là  venne  in  Olanda  a  fine  d'istruirsi  profondamente  nel  commer- 
cio ,  e  scrisse  sopra  il  commercio  medesimo  un  poema  che  dicesi  non 
fé  disonore  al  suo  nome.  Pubblicò  in  appresso  i  suoi  elementi  di  mi- 
tologia, opera  ragionata,  e  nei  giornali  di  Francia  ricordata  con  lode; 
ed  inoltre  un  volume  di  poesie  d'ogni  genere,  le  quali  però  se  per 
una  parte  lo  palesarono  uomo  di  brillante  immaginazione,  lo  scoper- 
sero per  l'altra  un  consumato  libertino;  avendole  egli  sparse  in  più 
luoghi  di  quelle  scellerate  ed  empie  eleganze,  di  cui  Marot  aprì  la 
fonte,  e  che  Voltaire  poscia  dilatò  tanto ^  che  ne  fa  innondata,  cosi 
non  fosse!  e  contaminata  tutta  la  Francia. 

Cominciò  intanto  la  rivoluzione,  il  più  grande  e  il  più  funesto  de- 
gli avvenimenti  politici  che  siano  mai  accaduti  sul  globo  ;  rivoluzione 
che  spaventa  il  pensiero  quando  vuol  meditarla,  e  a  cui  la  tarda  pa* 
cata  posterità  difficilmente  presterà  fede.  Nei  primi  tempi  della  me- 
desima egli  fu  abbastanza  savio  ed  onesto  per  attenersi  tutto  al  par- 
tito del  re;  e  lo  fé  conoscere  nella  compilazione  ed  estensione  d'un 
giornale  che  aveva  per  epigrafe:  Il  fiau  un  roi  aux  Frangais  :  i  quali 
sentimenti  sviluppò  in  parte  anche  nell'  istoria  che  intraprese  ddlla  rì- 
voluzioncj  pubblicata  in  due  tomi,  e  dedicata  al  marchese  de  la  Fayette 
suo  grande  amico,  e  indi  a  non  molto  magnificamente  ristampata,  ma 
non  terminata.  Dalla  lettura  di  quest'  opera  è  agevole  cosa  il  compcen- 
dere  che  i  suoi  principi!  non  tendevano  allora  a  qtiel  democratico  fa- 
natismo, a  cui,  sedotto  o  dal  timore  o  dall'ambizione  o  dal  bisogno, 
0  da  tutti  insieme  questi  motivi,  si  diede  sventuratamente  in  appresso. 
Lo  stile  è  iacile  e  pronto,  ma  non  esattissimo;  e  questa  sua  prodigiosa 
fiicilità  di  esporre  e  colorire  le  proprie  idee,  gli  costituiva  una  certa 
ardita,  ma  naturale  eloquenza  che  ingannava  e  persuadeva.  Aggiungi 
significante  compostezza  di  volto,  pazienza  della  fatica,  audacia  di  a- 
nimo,  incredibile  scaltrezza  d'ingegno,  e  maniere  quanto  subdole,  al- 
trettanto attraenti  e  pericolose;  le  quali  in  quel  tempo  malvagio  desi- 
derate e  fortunate  prerogative  gli  guadagnarono  la  confidenza  di  pa- 
recchi individui  dell'assemblea,  fra  cui  ricordava  particolarmente  Bi- 
ron  e  Brìssot;  ed  inoltre  la  considerazione  del  generale  Dumonriez  che 
il  fé  nominare  segretario  di  legazione  allareal  Corte  di  Napoli.  Ninno 
ignora  gli  speciosi  motivi  che  poi  da  Napoli  lo  spinsero  a  Roma;  ninno 
ignora  il  grande  ed  iniquo  fine  di  questa  sua  misteriosa  missione,  la 
quale  non  sarebbe  forse  riuscita  totalmente  vota  d'elTetto,  se  egli 
vi  avesse  trovata,  come  sperava,  la  Roma  di  Giugurta^  Ma  convinto 


irOTE    ALLA  BASSVILLIANA  79 

fin  dai  primi  momeDli  di  saa  venuta  dell' insuperabile  attaccamento 
del  popolo  alla  sua  religione,  non  meno  che  al  suo  sovranoi  e  sbalor- 
dito dalla  fermezza  e  grandezza  dei  sentimenti  romani ,  egli  ebbe  a 
dire  e  a  scrìvere  che  Roma  era  inèUvabUj  il  qnal  detto  manifesta  tutto 
ad  un  tempo  e  l' acutezza  del  suo  intendimento,  e  la  malvagità  del  di- 
segno che  l'aveva  condotto.  Gontuttociò  v'ebbe  dei  pazzi  compatrìotti 
ancor  più  tristi  di  lui,  che,  parte  minacciando  e  parte  farneticando,  lo 
strascinarono  suo  malgrado  ad  insultare,  come  poi  fece,  la  maestà  del 
prìncipe  e  la  dignità  del  popolo  ;  insulto  che  gir  costò  la  vita  e  ch'egli 
stesso  prima  di  spirare  altamente  detestò,  ripetendo  :  Je  meurt  la  victime 
ifunjbu. 

L'esempio  del  pietoso  nostro  Sovrano  che  non  risparmiò  nessuna  delle 
paterne  sue  cure  per  salvarlo,  e  la  cristiana  morte  che  ei  fece  (*),  e  che 
soltanto  la  stolta  penna  d' un  miscredente  potè  negare  e  derìdere,  deb- 
bono invitare  ogni  onesto  cattolico^  stendere  un  velo  di  carità  sopra 
il  suo  errore,  e  fargli  riflettere  che  quando  Iddio  ha  perdonato,  siccome 
il  suo  ravvedimento  ne  fa  sperare,  l'uomo  è  più  reo  del  suo  offensore 
medesimo  se  non  dimentica  l'ingiuria,  per  grande  che  questa  sia,  e 
non  volge  l' odio  in  amore ,  ed  in  compassione  lo  sdegno. 

La  sua  età,  a  giudicarla  dal  volto,  non  poteva  oltrepassare  i  quaranta, 
se  par  vi  giungeva.  Quando,  per  conformarsi  alla  volontà  del  padre, 
intraprese  la  carriera  ecclesiastica,  obbedì  a  condizione  di  non  essere 
forzato  a  legarsi  negli  ordini  sacri  prima  dei  trenf  anni  :  il  che  poi 
non  fece  né  di  trenta  né  dopo.  Per  lo  che  è  ùho  ch'ei  Ibase  sacer- 
dote e  curato,  siccome  alcuni  han  creduto.  Libero  dunque  di  sé  mede» 
simo,  ei  prese  moglie  nel  primo  anno  della  rivoluzione,  e  n'ebbe  un  fi» 
glio  che  la  pietà  del  glorioso  Pio  Sesto,  e  la  providenza  del  Governo 
misero  in  salvo,  unitamente  alla  madre,  nella  notte  dei  i3  di  gennaro 
{1793),  e  che  egli  stesso,  morendo,  raccomandò  nel  suo  testamento  al- 
l' amico  Brissot,  e  ad  una  de'  due  Americani  dei  quali  abbiamo  di  sO" 
pra  parlato. 

La  saviezza  con  cui  da  questo  Ministero  fu  il  Bassvillc  in  dilEcilìs- 
sime  circostanze  sofferto,  quantunque  affatto  spogliato  di  carattere  pub- 
blico, le  imprudenze  con  che  egli  stesso  si  procacciò  la  sua  morte, 
lo  scampo  procurato  in  quel  popolare  tumulto  non  solo  alla  sua  fami* 
glia,  ma  a  tutti  gl'individui  della  nazion  francese,  perfino  allo  scel- 
lerato e  pazzo  la  Flotte,  primo  ed  unico  artefice  della  morte  di  questo 
infelice,  e  cento  altre  cose  che  precedettero  ed  accompagnarono  que- 
sto avvenimento,  non  é  qui  duopo  il  ripeterie,  essendo  manifeste  ne' 
fogli  della  sempre  calunniata  e  sempre  veridica  Relazione  romana. 

(*)  Il  dì  14  gennaio  1793.  trectaquattr*  ore  òo^  di  esame  lUto  ferito  nel  ventre  con 
un  pugnale  nellu  sommossa  del  pciiolo  soUevalou  contra  di  kù. 

L*  Editore. 


8o 


NOTE  AL  CANTO  PRIMO 


Pag.  33. 
>  Tùi  Erynnù  sìhUat  ì^drìs,  disse  Virgilio,  da  cui  sembra  che  il  no- 
stro poeta  abbia  preso  il  sibilo  de'  serpenti  che  attribuisce  al  demonio 
in  luogo  di  crini,  nel  modo  appunto  che  si  dipingono  le  Furie.  Il  mo- 
yimento  di  queste  serpi  non  è  che  la  poetica  espressione  dello  sdegno 
di  Satana  nel  vedersi  tolta  la  preda;  ed  è  imitazione  d'Ovidio,  che  nel 
quarto  delle  Metamorfosi  cosi  descrisse  il  moversi  di  Tisifone: 

mote  MBuera  colnbne: 

Punque  iacent  humeiis,  pan  circum  tempora  lapsa 
SiUU  dant,  taaaàaajaa  ▼onuuit,  linguasqne  conucant. 

Stazio  pure,  nel  lib.  XI  della  Tebaide  introduce  Tisifone  colle  idre  stri- 
denti: adstridentibut  hydris,  e  nel  libro  I,  parlando  di  questa  Furia,  cantò: 

....  Fera  ftibOa  crine  virenti 
CoQgeminat. 

Ove  notisi  la  beliesza  e  la  forza  di  quel  viranti  trasportato  dalle  serpi 

ai  capelli. 

Ivi. 

'  Questo  voltarsi  dell'  anima  a  riguardare  il  suo  corpo ,  movimento 

spontaneo  e  naturale  in  chi  esce  da  un  gran  pericolo,  rassomiglia  molto 

a  quel  pensiero  di  Dante,  /ra/T,  canto  I: 

E  come  quei  che  eoo  lena  afiànnata 
Uacito  fmx  àé.  pelago  alla  riva. 
Si  Tolge  all'acqua  perigUoia,  e  guata. 

La  qual  terzina  il  Maggi  stemprò  in  questo  verso: 

Qual  dii  campa  dall'onda  e  all'onda  guata. 

Ivi. 

3  Allude,  se  non  erro ,  a  quel  famoso  verso  dell'Alighieri  scrìtto  sulle 
porte  dell'inferno: 

Lasciala  ogni  iperanaa,  o  voi  ch'entrate, 

0  a  quegli  altri: 

Nulla  spennia  gli  conforta  mai. 
Non  dia  di  pota,  ma  di  minor  pena. 

Ivi. 

4  Acconciamente  qui  la  giustizia  di  Dio  vien  chiamata  severa  e  pietosa, 
poiché  il  rigore  con  cui  ella,  secondo  che  la  fede  n'insegna,  punisce  le 


NOTE  AL   CilfTO  PRIMO  DELLi  BASSTILLIANJL  8i 

anime  del  purgatorio^  non  è  dugionta  dalla  pietà  Terso  le  medeaime ,  le 
quali  per  la  via  del  tormento  arrìtano  al  termine  beato  a  eai  sospirano^ 
Frugare,  adoprò  Dante  pia  ^Ite  nello  stesso  senso  del  nostro  poeta,  e 
segnatamente  in  quel  Terso  affatto  consimile  : 

Lft  rigida  gitylÌBS  che  ni  firqga. 

Pag.  33. 
& Siegue  la  frase  di  s.  Paolo:  Ifon  hahmUm  macularne  neqUé  rugam^ 
parlando  della  Chiesa.  Labe  poi  per  maechia  adoprarono  altri  ottimi  scrit- 
tori^ e  ruga  dM' anima  disse  FAriosto: 

« 

Virtudt  indsfa  intono  coDd  ipeglÌD, 
Che  h  Teder  neU*aniiiMi  ogni  rag». 


Pag,  34. 
C  Voce  latina  usata  da  buoni  scrittori ,  e  che  ha  buon  diritto  alla  cit- 
tadinan^  italiana^  quando  tutto  giorno  si  accorda  ad  inuUo,  ultore  ed 
ukrice.  Vaglia  per  tutti  l'esempio  del  padre  dell'eleganza,  0*l. ySir.^  can- 
to 4>>  >t.  6a. 

Per  «(netto  tardi  vendicato  ed  ulto 
Fia  dalla  moglie  .... 

Iti. 

7  Enea,  raccontando  imali  della  sua  patria,  disse:  Quorum  pars  magna 
fid,  e  STca  ben  ragione  di  dirlo.  Ma  con  buona  pace  del  nostro  poeta, 
che  ha  egli  fatto  questo  BassTille  per  meritar  T  onore  di  un  detto  cosi 
magnifico?  perchè  ingrandirlo  a  spese  del  Tero? 

Iti. 

8 Questo  spirituale  castigo  formerà  la  basa  di  tutta  la  Cantica,  ed  a- 
prirà  al  poeta  una  facile  Tia  onde  deriTare  nel  suo  laToro  tutti  i  più 
grandi  aTTcnimenti  della  riToluiione  franeese.  Sopra  di  che  ci  sia  per- 
messo di  riportare  un  paragrafo  di  lettera  che  all'autore  della  Cantica 
scriTe  l'egregio  sig.  abate  Francesco  Torti,  gioTine  di  fervidi  talenti  e 
di  profondissimo  sentimento.  Non  oseremo  però  decidere,  se  la  sua  penna 
sia  stata  mossa  dalla  sola  amicizia  o  dall'amicizia  insieme  e  dalla  ragione. 

M  In  Tenta  il  Tostro  espediente  è  ammirabile.  Gollegando  all'  uniTcrso 
fisico  il  mondo  inTisibile  della  religione,  toì  siete  padrone  di  far  pen- 
dere la  bilancia  dalla  parte  che  più  tì  aggrada.  La  religione  ha  in  mano 
la  chiaTC  di  tutti  i  successi,  ed  essa  gli  spiega  all'  uomo  in  una  maniera 
sempre  capace  di  sbalordirlo. 

»  Io  non  cesserò  mai  di  ripetere  su  questo  punto  i  Tostri  Tantaggi  so- 
pra Dante  medesimo.  Più  Tolte  ho  riflettuto  con  delizia  sulla  differenza 
delle  sue  e  Tostre  idee  anche  quando  l' indentità  del  soggetto  sembraTa 
che  doTCSse  aTTicinarle.  Il  purgatorio  che  toì  assegnate  al  BaasTille,  è  di 
una  specie  incomparabilmente  nuoTa  e  sublime.  Le  pene  di  questo  spi- 
rito non  sono  di  un  genere  meccanico  j  non  è  la  sostanza  fisica  che  a- 
giace  grossolanamente  sull'  ente  spirituale.  Egli  è  lacerato  nella  parte  più 
TiTa  della  sua  sensibflitàj  gli  orrori  della  sua  patria  e  i  suoi  rimorsi  for- 

MovTi.  Poemetti,  6 


82  VOTE  AL  CAUTO  PRIMO 

mano  il  tuo  lupplicio:  egli  è  yerafflente  in  pipda  all'angoscia.  Un'ani- 
ma che  piange  ani  mali  de'  inoi  simili ,  de*  suoi  cittadini ,  da'  suoi  fra« 
telU  :  ohimè  1  chi  non  si  sente  penetrato ,  commosso  da  un  genere  si 
squisito  e  si  nobile  di  tonnenti?  E  però  quanto  è  nuova ,  quanto  è  toc- 
cante l' idea  di  tal  purgatorio  !  » 

Pao.  34. 

9  Sentimento  assai  uniforme  a  quello  di  Dante  nel  canto  XX  del  Purg, 

O  Signor  mio»  qunido  wuò  ti  lifto 
A  veder  la  vnidelti  dia  mmom 
Fa  doka  T  in  ina  mi  tao  aagretot 

Ai  quali  Tersi  gì'  interpreti  j  massimamente  il  Ventori  appone  una  chiosa 
ben  puerile  commentando  cosi:  Fa  comparire  il  tuo  giusto  seUgno  troppo 
dolce  e  induigenie,  mentre  sta  lunga  pexxa  nascosto  nefjU  arcani  della  tua 
sapienza^  onde  gli  empj  sempre  più  insolentiscono. —  E  i  commentatori  (9%» 
giuDgo  io)  sempre  pia  fanno  compassione»  Ora  il  senso  Dantesco  è  pianis* 
simo,  ed  è  questo:  O  mio  Signore ,  quando  atro  io  il  contento  di  federe 
scoppiata  sopra  costoro  la  tua  vendetta ,  la  quale  nascosa  e  maturata  nel 
segreto  dt^  tuoi  ditóni  giudizii  raddolcisce  il  tuo  sdegno^  e  lo  quieta  sulla 
certezza  elei  castigo  già  decretato?  E  si  osservi  la  proprietà  di  quell'  espres- 
sione /a  dolce  ',  poiché  quanto  è  molesto  ed  incomodo  il  sentimento  del- 
l'ira allorachè  manca  la  speranza  della  vendetta^  altrettanto  diventa  dol- 
ce e  rapisce  l' anima  quando  la  vendetta  non  può  preterire  :  ed  allora 
la  speranza  equivale  ad  una  vendetta  anticipata ,  ed  è  quel  spe  prcesU" 
mercj  spe  prcecipere  tanto  frequente  nei  Latini.  Verrà  in  soccorso  del  no- 
stro parere  una  beli'  aria  del  Metastasio  : 

Gii  l'idea  dd  gimio  idq;iio 
Mi  Inànga  e  mi  diletta} 
G&  pfwando  alla  vandelta, 
Bfi  comincio  a  ▼«ndimr. 

Questo  schiarimento  sopra  il  passo  di  Dante  porta  egualmente  la  luce  su 
quello  del  nostro  poeta. 

Ivi. 

10  Questa  immagine  ne  ritorna  alla  mente  un'altra  assai  delicata  del 
vero  incomparabile  imitatore  di  Dante ,  D.  Alfonso  Varano,  che  nella 
sua  Vbione  su  la  peste  di  Messina,  parlando  d'un  giovine  santamente 
morto,  disse: 

La  idoka  acoompopiaro  {gli  Angeli^  alma  immortale , 
Che  dall'aurata  nube,  in  cui  si  chiuse  , 
Die  un  guardo,  e  dire  addio  panre  al  suo  firalc. 

Ivi. 
s»  Sono  le  preghiere  che  solevansi  iscrivere  sopra  i  sepolcri,  colle  sigle 
S.  T.  T.  li.,  cioè  sit  tibi  terra  levis;  parole  che  spesso  si  trasportavano 
intere  ne' versi,  come  in  quello  di  Abraiale: 

Sit  Ijfai  terra  leris,  molliqne  t^garis  arena. 


BEIXà  BASSVILLIANA  83 

E  questa  fomioU  di  pregare  era  U  medesima  che  il  sii  humiu  cineri  non 
oneroBa  tuoi  e  il  moUàer  otta  cubent,  di  eui  sono  pieni  i  poeti > 
particolarmente  Ovidio  che  ne  ridonda.  Allude  a  questo  costume  un  cu- 
rioso passo  di  Persio  deridente  un  mimico  scilinguato  poeta,  che  va  tutto 
in  brodetto  nel  sentir  lodati  i  suoi  Tersi  fra  le  crapole  della  tsvola: 

Ananier»  Tiri  :  nuoe  non  dnU  ille  poete 
Fdizf  mine  feTÌor  ci|ipds  non  impfiniit  oos t 

Pao.  $4. 
iaA  questa  deprecasione ,  perchè  il  corpo  dopo  morte  non  fosse  ol- 
traggiato dagli  elementi^  né  maledetto  dai  passeggièri,  opponevaai  l'im- 
pieca2Ìone,  perchè  accadesse  tutto  all'opposto  quando  si  aveya  ragione 
di  odio  contro  del  morto.  Eccone  un  bellissimo  esempio  nell'  Àminla,  in 
bocca  di  quel  satiro»  che  si  lamenta  della  sua  mala  fortuna  in  amore 
per  esser  povero  : 

O  dùanqjiM  tu  CmU,  che  im^miti 
Primo  a  vender  l'anor,  ne  meledetto 
U  tuo  cener  sepolto,  e  V  osia  fredde^ 
E  non  ci  trovi  mai  pattore  o  ninfii 
Che  lor  dica  panando:  Alibiate  pace; 
Ma  le  bagni  la  piogjgia  e  mova  il  vento, 
E  con  piò  immondo  la  greggia  il  calpesti, 
E  fi  pdkgiin..«. 

De'  quali  versi  (lo  che  notisi  per  ammaestramento  degli  studiosi)  i  primi 
sono  tradotti  da  questi  di  Tibullo,  El.  4j  1*  i* 

▲1  tibi»  qui  TeMSeiB  docnisti  Tendere  primas» 
Qnisquia  th  inftlis  lugeat  sna  hp&ii 


e  il  sesto  è  tolto  interamente  all'Alighieri,  canto  III  del  Purgatorio,  e  l'A- 
ligeri il  tolse  a  Virgilio,  laddove  l'ombra  di  Palinuro  si  querela  di 
non  goder  ancora  l'onor  del  sepolcro  : 

Mone  me  floctns  habet,  vcnantque  in  litore  venti. 

Chi  volesse  vedere  una  bizsarra  imprecazione  fatta  alle  ceneri  di  una 
ruffiana,  legga  il  fine  dell'Elegia  5  del  L  4  ^i  Properzio. 

Ivi. 
>3  Sentenza  in  tutto  conforme  a  quella  di  Quinto  Calabro  nel  primo 
de' suoi  Paralipomeni  v.  806:  Mortuis  non  est  iratcendum^  immo  miseri» 
cardia  digni  tunt. 

Ivi. 
>4  Lodasi  il  giusto  e  generoso  carattere  romano,  a  cui  sempre  è  com- 
petuto quel  memorabile  detto,  che  poi  divenne  canone  di  virtù  per  quei 
signori  del  mondo  : 

Romane,  memento 


•  t  •  •  • 


Pucm  «liiMÙ,  et  ddxjh»  «Fob... 
Al  qual  «entimcnto  consuona  anche  quello  di  Properzio  in  bocca  de*  Ro- 


84  NOTE  AL  curro   PRIMO 

mani  medesimi:  Pietate  paUnUs  ttamiuj  e  Romana  clementia  ditse  Ta» 
citOj  lib.  I  degli  Annali ,  e  Romana  manmetudine  Quinto  Curzio ,  lib.  IV. 

Pag.  34. 
«5  Fra  i  molti  luoghi  di  Omero  tradotti  da  Virgilio  annorem  Macro- 
bio  nel  e  5  dei  Saturnali  questa  due  Tersi  dell*  Eneide  1 

V«rtitnr  intana  calmpi,  et  mit  ooeuo  nos 
LiTolteni  aoibni  magna  tarramqne  polumqna  } 

al  qual  concetto  fa  eco  quest'altro  pure  dell'Eneide: 

«...  hrnnuntìlwu  moiini 
Nox  opentterrat. 

Stazio j  insistendo  sull'orme  di  Virgilio ,  disse  nel  III  della  Tebaide: 

Vox  aobìitf  cimsqiio  nonùnooiy  netnatjUB  fisranm 
Composuit,  tàgjtoqae  polca  ÙTolvit  amkta. 

E  il  nostro  poeta ^  gustando  le  idee  dell'uno  e  dell'altro: 

GA  di  sua  Teste  rogiadooi  e  iciiia 
Copria  k  notte  il  mondo 

Vedi  Scaligero  nella  comparazione  ch'egli  fa  delle  immagini  Virgiliane 
con  quelle  d'Omero. 

Pao.  35. 

■6  Sette  erano  gli  Angeli  protettori  delle  chiese  9  che  in  veste  di  luce 
a  guisa  di  stelle  fregiavano  la  destra  mano  del  misterioso  simbolo  di 
Gesù  Cristo,  veduto  da  s.  Giovanni  in  ispirilo  per  mezzo  a  sette  can- 
dellieri  d' oro,  ciascuno  de'  quali  (commenta  il  Tirino),  instar  candelabri 
Mosaici  septem  constabat  scapis^  siue  calamis,  et  septem  in  culmine  lucer~ 
nis.  Pathmos  poi,  una  delle  Sporadi,  isole  cosi  dette  nell'Arcipelago,  è 
quella  appunto  in  cui  da  Domiziano  fu  relegato  il  santo  Evangelista^  appel- 
lato con  quella  volgare  antonomasia  l'Estatico  di  Pathmos. 

Ivi. 

«7  Espressione  derivata  da  quel  verso  di  Dante  : 

Intorno  agli  occhi  area  di  fiamme  rote, 

corrispondente  all'oc  illuc  vohens  oculos  della  furibonda  Didone»  e  al 
lumina  flanunce  di  Caronte. 

Ivi. 
>8  Niun  presagio  più  funesto  presso  gli  antichi  che  la  comparsa  delle 
comete,  sebbene  Servio  in  quel  suo  lungo  e  curioso  commento  a  quei 
versi  di  Virgilio, 

Non  Mena  ac  liipii^  li  qoaiido  noote  oometas 
Sanguinei  liiguhre  rubenL  .... 

pretenda  di  buona  fede,  che  fra  le  cattive  ve  n'abbia  ancora  delle  buo- 
ne, formate,  die' egli,  ex /oce  <f  Venere,  Nei  poeti  però  le  troverai  sem- 
pre cattive.  In  Tibullo  sono  un  segno  di  guerra:  belUmalasig^  comeU9, 
In  Silio  rovesciano  e  spaventano  i  regni: 

Rqnoram  cvenor  mbuit  faUde  eometes. 


DELLA  BASSTILLUllà  85 

E  altroye:  Umifera  regna  comete^.  In  Lneano  pure  fanno  lo  stesso: 

dinaaqae  timendli 

Skkris,  et  terris  mutantem  regna  cometem  3 

espressione  nello  stesso  proposito  imitata  ancora  dal  Tasso,  che  imitava 
il  bello  per  tutto  dove  il  trovava.  Finalmente  llfanilio,  nel  fine  del  lib.  I, 
nomerà  a  lungo  le  calamità  che  le  comete  sogliono  presagire.  Né  si  creda 
che  i  s'oli  poeti  spargessero  nel  volgo  queste  paure  5  poiché  altrettanto 
facevasi  dagli  storici  e  dagli  oratori.  I  filosofi  poscia  e  gli  astronomi  le 
hanno  rese  innocenti ,  e  liberato  il  mondo  da  questi  vani  errori;  ma  i 
poeti  han  ritenuto  il  diritto  di  servirsene  sempre  a  spavento.  Eccone , 
per  tutti ,  due  bellissimi  esempi ,  uno  di  Milton  secondo  là  traduzione 
del  Rolli  y  Par.  perd.,  lib.  I. 


E  qml  ooaneta  6aiiuiMggìòf  che  infoca 
La  Innghesaa  d'Oftuco,  Tastùània 
SoT»  l'Artico  delo ,  e  dalla  chioma 
Orrida  Kuote  pestilenia  e  gnemi. 

E  F  altro  di  Shakespeare  che  riportiamo  principalmente  per  la  sua  ori- 
ginale singolarità: 

M  Copra  un  funebre  velo  l'estensione  del  cielo*  Il  giorno  ceda  il  luogo 
alla  tenebrosa  notte;  e  voi  comete  che  apportate  i  cangiamenti  e  le  ri- 
voluzioni nei  secoli  e'nelle  nazioni ,  scuotete  le  vostre  cristalline  trecce 
pel  firmamento»  e  sferzate  con  queste  le  stelle  ribelli  che  congiungendo 
le  loro  influenze,  hanno  cospirata  la  morte  di  Enrico  V.  m 

Pag.  35. 
>9  Questo  scudo   veramente  è  un  po'  più  grande  di  quello  d'Ajace , 
che  l' avea  più  grande  ancora  d'Achille  ;  ma  è  ben  piccolo  a  paragone 
di  quello  dell'  Angelo  protettore  di  Raimondo  nel  canto  VII  della  Ge- 
rusalemme, st  8a. 

Grande ,  che  può  coprir  genti  e  paeii , 
Quanti  ye  n'  ha  Ora  il  Caucaso  e  l' Atlante. 

Che  diremo  dell'  elmo  di  Pallade  nel  quinto  dell'Iliade,  sufficiente  a  co- 
prire un  esercito  tratto  da  cento  città  ?  La  poesia  ama  molto  di  vestire 
le  idee  astratte  d'immagini  allegoriche  e  sensibili.  Perciò  vediamo  in 
Bfilton  l'Eterno  Geometra  prender  in  mano  il  compasso^  centrarlo  nel- 
V  immensità  del  caos ,  e  girarlo  per  circoscrivere  l' universo.  Cosi  nei 
profeti  il  Divino  Architetto  misura  le  acque  del  globo  nel  cavo  della 
mano ,  compassa  il  cielo  colla  spanna,  pesa  le  montagne  nella  bilancia; 
e  cent' altri  pensieri  di  questo  genere  maraviglioso  e  sublime,  unico 
linguaggio  con  cui  la  debole  umana  immaginazione  può  slanciarsi  verso 
r onnipotenza,  e  delibarne  l'idea. 

Ivi. 
•o  Questa  similitudine  scritturale  allude  all'imperturbabile  tranquillità 
della  Chiesa  Romina  nel  tempo  che  altrove  si  tremava  tante  al  remore 
dell'anni  francesi. 


86  NOTTE   AL  CANTO   PRIMO 

Pao.  35. 

«>  Per  non  intricarsi  nell'etimologia  del  cùt^igUo,  da  cni  laCroscaci 
rimanda  al  copigUo,  e  poi  al  compiglio,  e  da  Erode  a  Pilato,  come  snol 
dirsi  ;  noi  diremo  che  covigUo  deriva  qui  da  CMibile,  il  quale  procede  da 
cubare,  che  è  il  padre  di  tutte  queste  discenderne,  e  con  permissione 
de' Cruscanti  soggiungeremo,  che  troviamo  più  rispettata  la  natura  di 
questo  verbo  nell'  intendere  coniglio  per  coinU  d' animali,  che  per  cot- 
tetta  di  pecchie.  E  se  rimota  cubilia  disse  Virgilio  invece  di  aivearia, 
egli  non  può  aver  parlato  che  metaforicamente.  In&tti,  senta  la  distin- 
tiva del  rimosa,  è  egli  possibile  che  cu^iZiaper  sé  solo  significhi  alveare? 

Ivi. 

•>  Anche  T  Ariosto  disse: 

E  timuio  ad  mar  Lflwwrhin  resta. 

Il  che  vale  lo  stesso  che  regnatore,  per  denotare  il  predominio  di  que* 

sto  vento  sopra  quel  mare.  Neil'  istesso  senso  Orazio  :  tfrrannus  Hesperia 

Capricomus  unJ!rv;e  altrove  parlando  del  vento  Noto:  quo  non  arbiter 

Adria  major. 

Ivi. 

a3  Si  accennano  le  replicate  e  fiere  burrasche  che  respinsero  con  suo 

gran  danno  la  flotta  fiiuncese  dalla  Sardegna ,  e  che  precedettero  di  pò» 

chi  giorni  la  morte  di  Bassville. 

Pag.  36. 

a4  Battersi  la  guancia  è  atto  naturale  e  cruccioso  di  chi  si  pente. 

Cosi  l'Ariosto: 

P«r  lare  al  re  Marsiglio  e  al  re  Agramaate 

Batterà  aooor  dd  folle  ardir  la  guancia. 

Che  poi  la  Francia  siasi  pentita  d'aver  provocate  le  armi  dell' Inghil- 
terra,  chi  è  che  noi  sappia  e  tuttogiomo  noi  vegga? 

Ivi. 

^^Sono  note  le  crudeltà  praticate  dai  Francesi  in  Nizza  e  l'invitto 
coraggio  degli  Onegliesi  nel  respingere  il  nemico  dalla  rovinata  città 
che  veramente  fumava  e  combatteva. 

Ivi. 

*6  Tra  le  molte  scelleraggini  nella  Francia  commesse  prima  della  morte 
di  Bassville,  quella  per  private  lettere  e  pubblici  avvisi  fu  divolgata 
che  nel  lUarsigliese  una  tuiba  di  miscredenti  spingesse  tant' oltre  l'o- 
dio suo  contro  della  cattolica  religione,  che  volle  costringere  il  carne- 
fice ad  impiccare  l'immagine  di  Gesù  Cristo, e  che  inorridendo  e  ri- 
cusando egli  di  prestarsi  a  tanta  empietà,  fosse  da  coloro  barbaramente 
trucidato.  —  FoUoy  sostantivo  significante  lo  stesso  che  folla,  usato  assai 
volte  dall'Ariosto,  per  tacere  degli  altri  e  prosatori  e  poeti. 

Ivi. 

*7  Cosi  Dante  nel  canto  XX  del  Purgatorio,  parlando  anch'esso  del 
divin  Redentore , 

Veggiolo  nn* altra  voUa  esser  deriso. 
Veggio  rinnoTellar  Taceto  e  il  fiele, 
E  tra  tìtì  ladroni  esser  anciso. 


VtUsk  BàSSVIIXIAlfA  87 

Pao.  36. 
a8  II  più  sentenxioso^  il  pia  ìspido  di  tatti  gli  storici^  Tacito^  in  quel 
sno  terrìbile  quadro  defìa  malvagità  de*  tempi  di  cai  scrire  la  storia  » 
disse:  omissi,  gutiqué  honores  prò  crimine,  et  ob  virtuiet  ctrtutimum 
exitium.  Or  non  è  questo  il  fio  che  in  Francia  si  paga  dell'  essere 
TÌrtuoso  ? 

Iti. 
>9  Sostarsi ,  fermarsi ,  posarsi^  e  sostare ,  fermare^  posare^  ottimo  yo* 
cabolo  derìyato  dal  ntto  latino.  Dante  : 

StfrtaU  In,  che  aU'afaito  ne  mibWì.  . . . 

E  altroTe: 

So«U  un  poco  per  ma  tua  maf^ior  coni. 

E  dar  sotta  ai  piedi  disse  ancora  felicemente  in  vece  di  dar  riposo  ai  pie- 
di; ne  solo  nei  Tersi,  ma  pure  nelle  prose  viene  questa  voce  da  eastigatis' 
simi  autori  adoperata. 

Ivi. 
^  Emunto  di  Una  disse  Dante;  emunto  di  uigorty emunto  d'orgoglio, 
emunto  tit  amore,  disse  l'Ariosto;  ed  emunto  et  alma  e  di  sangue^  il  no- 
stro poeta  :  il  ohe  vale  pri^^  di  vùa. 

Pao.  S7. 
3i  Sospensione  che  manifesta  l' orrore  di  cui  è  compreso  l'animo  del 
narratore 9  e  che  accennando  la  grandesza  del  misfatto,  prepara  l'u- 
ditore a  prestarvi  attenzione.  Questo  artificio  rettorìco  é  tolto  dal  terzo 
dell'  Eneide,  laddove  Enea  racconta  il  prodigio  occorsogli  sul  sepolcro 
di  Polidoro: 

Eloqnar,  an  lileamt  gemttos  hayrnebUis  imo 
Auditur  tamalo .... 

Ivi. 
3*  Modi  di  dire  usurpati  da  Virgilio  per  esprimere  il  religioso  orrore 
del  fatto  che  si  racconta.  Eccone  alcuni  pochi  esempi  di  molti  che 
s'incontrano  per  tutta  l'Eneide,  colla  perpetua  ripetizione  non  solo 
degli  stessi  sentimenti,  ma  degli  stessi  versi: 


ObsU^iui,  lietenmtque  oonue 

AirecUBtjne  hoRore  cohub  .  •  •  • 

Gelidiu  per  dura  cucurrit 

Ossa  tremori 

e  cent' altri  che  il  curioso  lettore  facilmente  può  riscontrare  per  con- 
vincersi che  non  tutte  le  ripetizioni  sono  viziose,  e  che  senza  essere 
molto  indulgente,  se  ne  può  talvolta  perdonare  agli  altri  qualcuna  o 
sfuggita  o  forzata  dal  sentimento  e  dal  luogo  ^  quando  il  più  elegante, 
il  più  castigato  di  tutti  mai  i  poeti  non  ha  avuto  scrupolo  di  ripetersi 
tante  volte. 

Ivi. 
^\Sv\  parere  di  dotta  persona  io  era  disposto  a  credere  vizioso  l' uso 


/ 


88  NOTE  AL  CAIVTO  PUHO 

che  qai  si  fa  del  verbo  mlerulsre  in  vece  di  Mentire;  ma  essendomi  im- 
ballato in  dae  |»assi  di  Golunellay  ove  il  yeibo  ùuelligt^  è  adoperato 
onninamente  in  luogo  di  mntio,e  son  questi:  inuUigere  Jriguii  de  arbo* 
rìbus,  capo  i3;  aqum  ìoImb  eaporem  inuUigere,  1.  la»  capo  ai  :  mi  sono 
indotto  a  persuadermi  della  convenevolesia  di  questa  locuzione.  E  se 
Torremo  ricordarci  del  consiglio  che  dava  Orazio  ai  snoi  Latini»  di  gio- 
varsi delle  parole  che  graco fonte  cadunt  paree  detona  y  e  noi  dai  La- 
tini r  applicheremo  agi'  Italiani ,  troveremo  non  pur  giusta ,  ma  lode- 
vole ancora  l'impugnata  espressione;  della  quale  chi  potrà  mai  con 
certezza  giurare  non  esservi  esempio  fra  i  nostri  classici?  Ciò  vaglia 
per  difendere  e  il  nostro  poeta  e  il  Metastasio^  che  nel  medesimo  senso 

disse: 

QuMido  lo  tìnìlf&aal, 
Sfmtn  in*iiiteit  fl  con .... 

Pao.   37. 

34  Imitazione ,  se  non  erro^  di  quei  versi  di  Dante  in  bocca  del  fe- 
rito re  Manfredi  nel  terzo  canto  del  Purgatorio, 

P<Mda  eh' i*  «libi  ntts  k  iMnon» 
Di  due  ponte  mortali,  io  mi  vendei 
Pimgendo  s  Quei  dw  Tolentier  perdona, 

cioè  a  Dio;  circollocuzione  imitata  pure  dal  nostro  autore  più  sopra, 
ove  dice: 

Bla  l' infinito  amora 

Di  Quei  mi  vabe,  dio  mori  per  miL 

Ivi. 

35  Di  dolore  cioè  e  di  piacere  :  di  dolore  nell'  ascoltare  V  oltraggio 
fatto  a  Dio,  e  la  crudeltà  praticata  sulla  persona  di  quel  cristiano 
carnefice:  di  piacere  poi  nell' intendere  la  misericordia  che  gli  avea 
u^ata  il  Signore  in  quel  punto.  Di  queste  lagrime  tanto  dolci  vedine, 
per  tacere  dei  tragici ,  che  ne  son  pieni,  due  belli  esempi  in  Virgi- 
lio :  il  primo  allorché  Enea  si  scontra  coir  ombra  del  padre  negli  Eli- 
si; e  l'altro  di  quel  venerabile  vecchio  Alete,  che  abbraccia  Niso  ed 
Eurialo  già  disposti  alla  notturna  loro  sortita.  Interessantissimo  è  quello 
d'Omero,  laddove  Ulisse  peregrino  in  casa  d'Alcinoo  non  può  tratto- 
nere  le  lagrime  nel  sentir  celebrare  le  sue  imprese  dal  cantore  Demo- 
doco  che  noi  conoscea:  e  tenerissimo  quell'altro  dove  Penelope  rico« 
nosco  finalmente  il  marito,  e  ambedue  non  fan  che  abbracciarsi  e  pian- 
gere per  lungo  tempo  senza  poter  parlare. 

Ivi. 

36  Accenna  il  prodigio  dell^  acque  che  sotto  il  colpo  della  verga  mo- 
saica  scaturirono  dalla  rupe  nel  deserto,  e  simboleggiarono  il  potere 
della  grazia  divina  nel  trarre  lagrime  di  penitenza  dal  cuor  doro  del 
peccatore;  ed  imita,  anzi  usurpa  del  tutto  la  frase  e  il  sentimento  del- 
l'Alighieri nel  sopraccitato  canto: 

Oiribil  foron  li  peccati  miei; 
Ma  la  bontà  infinita  ha  ti  gran  bncda , 
CIm  prende  dò  die  si  rÌToIve  a  lei. 


DELLA  BAMTILLUIIA  89 

Pao.  38. 

37  Sioeome  Pareo  teso  prima  di  scoceare  ritiene  qoaii  firenato  lo  strale; 
cosi  scooeandoy  quasi  ne  lo  sfrena:  e  perciò  tUf/henata  uutta  disse  nel 
medesimo  senso  anche  il  nostro  AlighierL 

lYI. 

38  Gran  fiome  detta  Francia  all'  occidente  di  Hartiglia.  Nette  pianare 
del  medesimo  è  situata  Avignone  >  di  coi  si  accennano  le  stragi  civili 
che  l' insanguinarono  fino  dai  primi  movimenti  detta  rivoluzione  fran- 
cese a  coi  gU  Avignonesiy  prevalendo  il  partito  più  forte  >  sconsiglia- 
tamente aderirono  >  sottraendosi  al  legittimo  e  pacifico  dominio  del 
romano  pontefice,  yùt  è  qui  particeUa  puramente  esornativa^  e  soi^resfo 
non  vale  più  che  il  semplice  $ovra,  come  suolsi  elegantemente  usare 
dai  purgati  scrittori;  e  cosi  con  eoo  un  colpo>  btnf^ietso  il  mare>  cioè 
con  un  oolpo,  lungo  il  mare. 

.  Ivi. 

3$  Dopo  le  cose  già  dette  j  chi  può  non  intendere  tt  chiarissimo 
senso  di  questa  aUegoria  ?  chi  non  sa  qnsl  si  fosse  l' incantatrice  figUa 
del  Sole,  e  quale  l' ordinaria  metamorfosi  de'  suoi  amanti  ?  La  prero- 
gativa del  canto  e  dell'  eloquenxa  che  Omero  riconosce  in  questa  Dea^ 
che  VirgiUo  chiama  crudele,  giustifica  molto  bene  l'adescamento  che 
il  nostro  poeta  le  attribuisce ,  e  che  forse  gli  è  stato  suggerito  da 
quel  suada  Circm  pocula  di  Simmaco,  epist  4?»  lib*  l,  o  daU'  aura  dan- 
teaca^  ove  dice: 

Che  par  che  Gin»  gli  arene  m  peiton , 

parlando  appunto  de' suoi  degeneri  ed  imbestiati  FiorentinL 

Ivi. 

4o  Gran  fiume  di  Francia,  che  nasce  netta  Catalogna,  passa  per  la 
Linguadoca  e  la  Guienna,  e  si  scarica  nell'Oceano  sotto  Bordeaux. 
Ora  si  chiama  la  Gironda. 

Ivi. 

4i  Monti  dei  più  eminenti  della  Francia  nella  Linguadoca  inferiore, 
oggi  detti  Cétfennes,  da  cui  hanno  presa  la  denominazione  i  paesi  cir- 
convicini. Ne  parla  fra' poeti  l'Ariosto  più  d'una  volta^  e  Lucano  nel 
Ub.  I. 

Geu  habitat  eana  pendentes  n^  GeiMonai. 

Ivi. 
4a  Gamisardi  furono  chiamati  i  Calvinisti  ribelli ,  che  nel  principio 
di  questo  secolo,  cotta  speranza  di  ricuperare  il  libero  esercizio  della 
lor  religione,  presero  le  armi  profittando  della  guerra  che  laJPrancia 
e  la  Spagna  sostenevano  allora  contro  la  Casa  d' Austria.  La  ribellione 
di  costoro  riusci  tanto  più  incomoda,  quanto  che  il  loro  partito  venne 
aiutato  e  cresciuto  da  tutta  sorta  di  scellerati,  a  cui  apersero  le  pri- 
gioni. Le  montagne  di  Gebenna  furono  il  teatro  delle  loro  crudeltà 
contro  i  GattoUci,  e  della  totale  loro  sconfitta  sotto  il  maresciallo  di 
VUlars  nel  1703.  Quei  pochi  che  poterono  salvarsi,  passarono  in  Olanda 
e  in  Inghilterra,  ove  spacciandosi  per  profeti,  divennero  oggetto  di 


gO  NOTE  AL  CAMrrO  PRIMO 

depresso  e  di  odio.  L'origine  del  loro  nome  è  disputata  ed  incerta. 
Alcuni  io  derìTano  da  comira^  (termiDe  di  guerra,  che  equivale  a 
sortita  improTvisa),  alludendo  alla  prontena  de*  loro  attacchi ,  e  alle 
scorrerie  che  facevano  dalle  montagne  ;  altri  dalla  Teste  che  portayano» 
simile  molto  ad  una  camicia. 

Pao.  3S. 
43  Ecco  ciò  che  dell' Arari,  oggi  la  Saona,  scrire  Giulio  Cesare  nei 
suoi  Commentarli  de  Belìo  GaìUcOy  lib.  I,  e.  3.  Ftumen  ett  Arat^  qwtd 
perfinet  JEduorum,  et  Sequanorum  in  Bhodanum  infimi  incrediHli  le» 
nitate,  ita  ut  ocuUs  in  utram  pattern  fluat  judicari  non  posMÌL  II  pane- 
girista di  Costantino  lo  chiama  lenem  et  cuncuAundum^  e  Qaudiano 
lentum,  e  Plinio  js^nem.  Da  Silio  poi  vien  detto  pigerrimm,  e  stanti 
iùttilig.  Dopo  d' aver  i  poeti  e  gP  istorici  esauriti  tutti  i  sinonimi  della 
pigrizia  per  descrivere  la  lentezza  di  questo  fiume,  non  mancava  che 
quello  d'irreMoluto  e  di  stupido  a  compirne  il  panegirico.  Nessun  però 
più  leggiadramente  dell'elegantissimo  Alamanni: 

O  di  Rodan  tofeAo  umfle  iposa, 
Snrn  Tiga  e  gentil,  die  il  cono  prendi 
Dal  pia  gdato  polo,  e  in  faaiio  aoendi, 
Qual  ti  aa  la  cagion,  mata  e  penson. 

Ivi. 
U  Per  esprimere  all'opposto  la  pienezza  e  la  rapidità  del  Ligerì, 
prende  la  firase  da  quel  noto  Virgiliano  emistichio: 

pooton  indignatut  Amet, 

imitato  poi  da  Valerio,  nel  lib.  I  dell' Argonautica: 

Oeeanoi,  Phrfgioa  prins  indignatm  Inln: 

e  con  pari  enfasi  da  Claudiano  nel  sesto  consolato  di  Onorio: 

At^  indignanteg  in  jora  ledegent  Arctot. 

Sebbene  non  so  quanto  sia  vera  questa  supposta  rapidità  e  veemenza 
del  Ligeri,  trovando  che  Lucano  dice  tutto  il  contrario  : 

....  placida  Ligeris  rocreatur  ab  unda. 

E  l'epiteto  di  cerulea,  che  le  dà  pure  Tibullo,  pare  che  significhi 
perspicuità  di  acque  e  placidezza  di  corso.  Eccone  il  passo,  nel  quale 
troverai  accennati  in  un  solo  distico  tutti  quattro  i  fiumi^  di  cui  si  é 
finora  parlato: 

Testis  Arar,  Rhodanusque  celer,  magnnsque  Ganunoa, 
Carnati  et  flari  cenila  lympha  Liger. 

Ivi. 
4S  Giulio  Cesare  racconta,  che  mentre  l'esercito  degli  Elvezii  aveva 
già  con  tre  delle  quattro  sue  parti  tragittato  l'Ararì,  sorprese  egli  la 


DBiXA  bassyuxiama  91 

quarta  parte^  prima  ehe  questa  pare  tragìttaiM^  e  la  disfece.  Indi  sog- 
giunge che  il  luogo  di  quella  battaglia  pagu$  appdUbatur  Tigioimu. 
Il  poeta  nostro  adunque  ragionerolniente  supponendo  che  fòsse  PArari 
medesimo  il  termine  di  quel  territorio,  appella  il  campo  di  battaglia 
fiUa  J'igunna,  che  é  quanto  dire,  lembo^  estremità  del  Tigurino  di* 
stretto.  Siccome  poi  hk  ptigu»  unu$,  prosegue  Cesare,  4ptum  domo 
éxissHj  pairUM  nostromm  memoria^  Lucium  dusòtm  comulem  inur/k* 
cerats  •t  ^>u  SMrectiim  tub  jugum  mùtna,  ùa  $ù^  casu,  swe  consUio 
deoruM  òimtùrtaiium^  ^ua  jmn  euitaiii  Hebf^óm  ùui(pìMm  caìamiudtm 
popuìo  romano  mUiUraij  ea  prmetps  paonoB  jmr9oh4L  Tutto  questo 
parca  necessario  di  sapersi  a  ben  intendere  il  senso  di  questa  tersina, 
derÌTata  e  spremuta,  come  ognun  yede,  dall'allegato  intero  passo  dello 
stMÌco  dittatore. 

Pao.  38. 

4<  GioTanna  d' Arco,  detta  comunemente  la  PuìeeUa  d'OrUant.  Que* 
sta  eroina,  aigomento  di  due  poemi  francesi,  ano  che  oostò  al  suo 
autore  (Chapelaln)  treni'  anni  di  fatica,  e  mori  in  trenta  giorni;  l'al- 
tro, il  più  empio  di  quanti  potesse  mai  idearne  l'irreligione;  questa 
eroina,  io  dico,  costrinse  prodigiosamente  gì'  Inglesi  a  lerar  l' assedio 
d' Orléans,  e  in  una  battaglia  disfeceli  interamente.  Shakespeare  nella 
prima  parte  dell'Enrico  VI  ne  strascina  pel  fango  la  riputasione,  e 
ne  ayrilisce  il  carattere  contro  la  storica  verità.  Egli  la  yuole  colpe- 
▼ole  d'eresia  e  di  sortilegio,  onde  giustificare  i  suoi  compatrìotti  del- 
l'ingiusto  supplizio  che  subir  fecero  a  questa  celebre  Amazone,  con- 
dannandola ad  essere  bruciata  viva;  ma  in  realtà,  questa  bariiarìe 
disonorò  piuttosto  i  giudici  che  l'accusata,  il  di  cui  nome  merita  di 
arrivare  puro  ed  onorato  alla  più  remota  posterità.  Guerriera,  giovine, 
bella,  non  aveva  ancora  trent'anni,  quando  le  fu  tolta  la  vita.  Dopo 
la  sua  morte,  Carlo  VII ,  per  gratitudine ,  nobilitò  tutta  la  sua  fami- 
glia, comprese  le  donne,  e  cangiò  il  nome  di  Arco  in  quello  di  Giglio, 
Si  recitava  nella  città  d' Orléans  ogni  anno  il  suo  panegirico;  ora  hanno 
altro  che  fare. 

Ivi, 

4?  Anche  Eschilo  nell'Agamennone  chiamò  le  ali  degli  uccelli  un 
remeggio,  e  Luciano  disse  altrettanto  nel  Timone,  parlando  di  Mer- 
curio. Ma  fra  i  poeti  latini  nulla  di  più  trito.  Virgilio,  nel  lib.  I  del* 
l'Eneide: 

voiat  ills  per  Mia  mtgnam 

lUmigio  alaniiii; 

e  lo  ripete  nel  lib.  VI,  v.  19.  Ovidio,  nel  lib.  V  delle  Metamorfosi: 

PoiM  super  flnetai  daram  indstara  remis. 

E  Silio,  copiando  Ovidio,  lib.  XII,  natumque  soluUi  pennarwn  remù^  ec. 
Bello  è  ancora  il  rtmigium pedum  di  Stazio,  nel  lib.  IX  della  Tebaide;  e 
il  remigfum  piuma  di  Apuleio,  pariando  dell'aquila.  Puoi  vederne  un 
esempio  anche  in  Lucrezio  nel  lib.  VI,  ed  un  altro  in  Avieno  nei 


gn  VOTE  AL  CAHTO   PBOfO 

Fenomeiii,  ed  an  altro  nell'autore  del  libretto  sopra  U  genio  di  So- 
crate. Finiremo  con  qnetto  di  Plauto  nell' AnBtrione  : 

Non  oejvs  ^puri,  «  me  dedaUs  tnlÙKm  icn^ns) 

e  laremo  oMerrare,  die  come  i  poeti  trasportarono  il  r^neggio  delle 
navi  agli  uccelli,  trasportarono  del  pari  le  ali  degli  aooelli  alle  navi 
Quindi  "^gìlio  disse  tfdarum  pamiimuB  ala$j  e  Propenio,  più  ardito 
ancora  di  Virgilio,  Clamt  cenUnis  remiget  alù»  Questa  sounbierole 
imprestanza  di  termini  proprii  è  assai  commendata  da  Aristotele,  come 
metafora  del  genere  più  puro  e  più  nobile,  e  chiamasi  antìstrofe. 

Pag.  58. 

48  Quella  parte  d' Oceano  che  è  tra  la  Bretagna  e  la  Biscaglia,  detta 
dai  Latini  Sinus  AquiUmicus. 

Iti. 

49  Pochi  sono  gli  antichi  storici  che  non  parlino  di  questi  Celti, e 
di  questi  Bardi  abitatori  della  Gallia  Celtica,  cosi  chiamati,  secondo 
alcuni,  da  un  certo  Bardo,  figliuolo  di  Dionisio,  che  vi  regnò;  ma  se« 
condo  altri,  dall'arte  che  professaTano,  Tolendo  Bardi  in  lingua  cel- 
tica significar  cantore.  La  loro  professione  adunque  era  la  poesia.  Seri- 
Terano  in  Tersi  le  aiioni  degli  nomini  grandi,  e  le  cantaTano  al  suono 
d'un  istmmento,  simile  molto  alla  lira.  Quindi  Lucano: 

V  M  qooqae  y  fpSi  nMrtes  mimit  beuo^pM  pemntst 
jii^^a«M  in  loDgam  ytSam  dimiuitis  amniiy 
Plurima  aeewi  fodùtù  rrnmimi ,  BardL 


E  che  le  loro  poesie  fossero  Teramenle  bellicose  e  grandiose,  poMiam 
Tederlo  da  quelle  del  bardo  Ossian^  figliuolo  di  Fingallo,  raccolte  da 
Macpherson,  e  nobilmente  tradotte  in  italiano  dal  Cesarotti.  Il  popolo 
aTCTa  costoro  in  tanta  Tenerazione,  che  se  presentayansi  a  due  armate 
anche  cominciata  la  battaglia,  deponeano,  se  s' ha  da  credere,  sul  fatto 
le  armi  per  ascoltarli.  L'epiteto  poi  di  chiomato  è  proprio  di  loro  per 
due  ragioni,  e  perché  abitavano  quella  parte  della  Gallia  che  appel- 
layasi  cornata^  e  perchè  scrive  Burmanno,  prtecipue  aUbant  comam. 

Ivi. 

So  Tanto  lentamente  sbocca  questo  fiume  nel  mare,  che  per  cagione 
del  marino  riflusso,  quotidie  bis  refluii  per  triginta  leucat.  Vedi  Bau- 
drand.  Lexicon  Geogr.  art.  Sequana, 

Ivi. 

5>  Secondo  Giulio  Cesare,  Roberto  Stefano  e  il  Ferrario,  laMosa  prende 
il  suo  cominciamento  dal  Monte  Vogeso  nella  Lorena  ;  ma  secondo  il 
nominato  Baudrand  ed  altri  più  moderni,  ella  ha  la  sua  sorgente  nelle 
montagne  del  Bassignl  nella  Sciampagna,  il  di  cui  piano  viene  irrigato 
dalla  Marna,  che  poco  sopra  Parigi  sbocca  nella  Senna. 

Pag.  39. 

S*  Vocabolo  latino,  fratello  del  bene  olenti ^  che  con  tanta  grazia 
adoperò  V  Ariosto  in  quel  verso  : 

Sparg«  per  raria  i  bene-olenti  spirti. 


DELLA  BA88YILLIANA  93 

per  aliti  odorosi  e  toayi,  ad  imitazione  del  Lacreziano 

Spritnt  wignenti  wanÌB  diflhgit  in  nms. 

Pao.  39. 

&3  £  imitile  l'ayyerttK  che  questa  caratteristica  appartiene  tatta  ai 
aordli  legialatori  della  Francia^  ai  quali  poco  male  se  mancassero  so- 
lamente i  calsonL  II  giudizioso  Sgarigliano  commentatore  ci  fa  sapere 
nelle  sue  note,  che  tutto  questo  squarcio  è  la  tUcrùUone  dei  giacobini 
di  Francia^  e  cosi  finisce  il  suo  tenebroso  commento  al  primo  canto. 
Noi  gli  dimandiamo  perdono  d'ayerlo  fin  qui  trascurato ,  ma  gli  pro« 
mettiamo  di  esseme  più  memori  nel  proseguimento  delle  nostre  di- 
chiarazioni^ onde  il  pubblico  conosca  il  pregio  delle  sue  dotte  fatiche, 
e  la  probità  del  suo  stampatore ,  i  torchi  di  cui  meglio  che  in  Àssbi 
andrebbero  situati  nella  spelonca  dell' Ayentino. 

Iti. 

H  Cosi  l'Ariosto: 

Gittato  in  tem  Grillo  in  Sacnnanto 
Per  on  tìI  tabernacolo  d' argento. 

In. 
ss  Una  simile  sentenza  a  denotare  uno  stato  di  guerra  abbiamo  in 
Lacreiio^  lib.  V. 

Inde  minutatim  prooessit  fismm  ensis, 
Venaqoe  in  opprobnum  fpedea  est  fidai  ahaiua. 


Viene  Virgilio^  ed  imita  il  pensiero  Lucreziano,  lib.  VII,  Eneide  : 

Vomerìi  hoc,  et  frlds  honoi,  hoc  omnii  antri  J 
Cenit  amor:  leco^foont  patrioi  fimadbas  enseii 

e  ayea  detto  prima  nelle  Georgiche: 

Et  doni  rigidnm  fiJcet  eonflantnr  in  eniem. 

SolPorme  di  Virgilio  e  di  Lucrezio  cammina  Oyidio  nel  primo  dei 
Fasti: 

Sarcida  oemlnBt,  wriique  in  pfla  ligonea, 
Factaqoe  de  miri  pooden  canii  «rit. 


E  il  dolcissimo  Alamanni  imitandoli  tutti,  cosi  canta  nel  fine  del  lib.  I 
della  Goltiyazione: 

n  Tornerò,  il  maiion,  k  fidoe  adunca 
Han  cangiate  le  fimne]  e  fiitte  lono 
Impe  apade  tiglientii  e  lance 


Siccome  poi  queste  idee  sono  caratteristiche  della  guerra,  cosi  le  con- 
trarie il  sono  della  pace.  Marziale  introducendo  a  parlare  la  falce  di 
un  contadino: 


Pax  nw  oeru  diidi  placidoi  cunraTit  in  unii; 
Agricobi  none  mni  nilitti  aate  fai 


94  l^Ol^  ^  CAHTO  FUMO 

E  Isaia  profetando  la  pace  mirenale  del  ipondo  ncDa  naaciU  di 
Cristo,  conflabunt  gUuUiu  suos  in  vomera^  et  ianeeoi  ma»  mfiàeei, 

Pac.  39. 
56  Epiteto  solito  darti  al  soldato.  V\r%.  Egl.  I: 


lopiot  bae  tam  colta  no«dà  nila  haibdall 
BariurmliM  agetett 

e  Locano  più  espresaamente  : 

NaUft  talBC»  i—tinwi  nm»  qui 


yiUaneUo  poi  Tiene  qui  osato  non  in  senso  diminntÌTO)  ma  in  senso 
assolato,  come  sarebbe  poyereHo^  yecchierello,  ladroncello,  invece  di 
povero,  vecchio,  ladro.  Gmì  Dante  nel  XXIV  déìVIn/emoi 


Lo  TÌDmdb  •  coi  is  nba 


e  nel  XII  del  ParadUo,  parlando  de*  santi  vecchi  Anacoreti,  li  chiamò 
tcaUi  pwertUL  Anche  l'Ariosto  disse: 

Le  iMsoh^  de'poTeidli 

HoD  tono  mai  naia  città 


Questi  esempi  (aran  tacere  la  derisione,  in  cui  qualche  canaio  «om 
chareUo  ha  preteso  di  porre  il  tnUaneiio  dai  capelli  biandiL  Non  è 
colpa  di  noi  se  ci  perdiamo  qualche  volta  in  queste  crepnnde,  alle 
quali  se  è  vergogna  il  rispondere,  che  sarà  il  produrie  ? 

Ivi- 
^7  Sentimento  tolto  dai  sacri  libri  :  Ifec  ertU  qmjrangertl  eù  panem* 

Pag.  4o. 
S6  Orneremo  questi  veni  coi  bellissimi  dell'Ariosto,  canto  XXVII, 
st.  117. 


Eco  per  la  pietà  die  gUen'  aTca. 
Dai  cari  sasà  rispondea  aorenta  s 


e  con  quegli  altri  dello  stesso  fonte: 


al  nona  di 

Riipoodaan  gli  antri ,  dia  pietà  n'avieoo. 

Al  contrario  neil'-ldilio  di  Mosco  in  morte  di  Bione,  PEco  si  ritira  den- 
tro le  rupi,  dolente  di  non  poter  più  ripetere  i  dolci  versi  dell'estinto 
cantore. 

Ivi. 
S9  Similitudine  significante  il  rossore  dell'Ombra  alla  vista  delle 
tante  scelleratezze  de'suoi  concittadini.  Piangere  il  di  che  tramonta, 
disse  anche  Dante  nell'  Vili  del  Purgatorio,  e  con  quanta  delicatezza! 

.....  Se  ode  iquiUa  di  Untano, 

Che  paia  U  giorno  pianger  die  ti  muore. 


DELLA  BÀSSVILLIANA  g5 

Pao.  io. 
^  Amplifica  quel  pensiero  Virgìliuio  : 

iMrymantein  tt  molU  Tobntem 

Dicen  damnit ..... 

Iti. 

6i  Retioenxe  che  preparano  l'animo  dell'uditore  alP orrìbile  ai^o- 
mento  del  secondo  Canto.  Si  dolgono  alcuni  non  molto  pratici  del 
modo  con  cui  si  debbono  leggere  ed  intendere  i  poeti  ^  si  dolgono  ^ 
dissi,  di  veder  qui  ed  altrove  assoggettate  le  sostanze  angeliche  alle 
alterazioni  dell'  uomo,  negando  alia  poesia,  alla  primogenita  delle  arti 
d' imitazione,  quella  libertà  che  pur  tutto  giorno  concedesi  alla  pittura, 
che  vive  tutta  a  spese  della  sorella*  Per  placar  questa  gente,  che  sono 
i  primi  a  parlare  e  gli  ultimi  a  capire,  noi  li  pregheremo  di  leggere 
il  seguente  passo  d'un  tal  pensatore  che  ragionava  meglio  di  tutti 
noi,  del  grande  Gian  Vincenzo  Gravina,  ove  degnamente  discorre  del- 
l'aureo poema  della  Gristiade  di  Girolamo  Vida: 

ji  torto  è  riffreso  U  f^ida,con  altri  a  lui  simili,  di  at^er  vestito  g^ 
angsU  di  militari  insegne  e  di  umane  passioni  ^  alla  Joggfa  che  Omero 
i  suoi  Numi  rappresenta:  poiché  ne  U  Fida  applica  agU  angeli  altre 
passioni  che  temperate  e  trapassate  in  virtù,  come  da  lodevol  fine  ecci' 
talej  ne  si  dee  negare  al  poeta,  che  dipinge  colle  parole,  quel  che  si  con^ 
cede  a  chi  dipinge  coi  colori:  dal  quale  reggiamo  gU  angeli  di  figura, 
moti  ed  affètti  umani  essere  atteggiati,  E  se  Dio,  il  quale  è  immutabile 
ed  imperturbabile,  pur  ne*  libri  d^  Profèti  e  di  Mosè,  da  pentimento  as* 
salito  e  ifira  perturbato,  a  noi  si  rappresenta^  per  consentire  tdla  imbe* 
cillità  deìV  umana  fantasia,  la  quale  non  sa  i  varii  off  etti  tf  un  infinito 
ed  etemo  provvedimento  ad  altre  cagioni  applicare,  che  a  quelle  delle 
quaU  ha  dalla  propria  natura  Pideaj  perchè  toglieremo  al  Fida  quella 
libertà  di  cui  aivea  da'  sacri  libri  t  autorità  e  P esempio?  La  quale  scusa 
non  solo  al  Fida  conviene,  ma  a  tutti  gli  altri  poeti  di  quelfeUce  se- 
colo, ec,  e  del  nostro  ancora,  se  la  logica  non  é  mutata. 


96 


NOTE  AL  CANTO  SECONDO 


Pag.  4i. 

•  Frase  Virgiliana  e  Dantesca.  Eneia  dolon,  disse  il  primo;  e  nd 
ditol  tnnta^  U  dolor  io  vin$e^  ira  lo  vinMe,  il  secondo. 

In. 

•  Un  gran  dolore  è  sempre  senza  parole.  11  silenzio  di  quest'Angelo 
che  addolorato  cammina  dinanzi  all'Ombra  senza  far  motto,  rassomi- 
glia molto  a  quello  degli  Angeli  di  Milton,  che  dopo  il  fallo  di  Adamo 
abbandonano  la  guardia  del  Paradiso  terrestre,  e  tornano  in  Cielo  ta- 
citomi  ed  afflitti  a  recarvi  la  dolorosa  nuora  del  peccato  commesso. 
Qoesta  comune  osservazione  sulla  natura  del  dolore  fé  dire  a  Seneca 
quella  nota  sentenza:  curm  la^es  loquuntur^  ingBnU$  gtupenL 

Iti. 

3  Tra  i  yarii  segni  di  vicina  tempesta  contano  gli  osserratori  la 
calma  dell'aria,  durante  la  quale  il  fiotto  del  mare  e  il  malinconico 
rumore  de*  torrenti  e  de'  fonti  rendesi  più  sensibile.  Pare  che  in  quel- 
l' universale  quiete  delle  cose  la  natura  mediti  il  suo  dolore,  che  poi 
scoppia  più  violento,  siccome  quello  dell'animo  nostro,  le  di  cui  fu- 
neste e  disperate  conseguenze  sono  sempre  precedute  da  profondo  si- 
lenzio. 

Ivr. 

4  Delibato  da  quello  delP Alighieri: 

Or  qui  k  morta  poena  risuft; 
e  da  quegli  altri  di  messer  Lodovico: 

Chi  Pali  al  reno  pmuA,  che  rdo 
Tanto,  cbs  anÌTÌ  aU'abo  mio  oonoeCto  ì 

coi  quali  modi  di  dire  i  poeti,  erìgendo  sé  stessi,  erìgono  ancora  l'at- 
tenzione del  lettore. 

Ivi. 
&  Questa  pittura  dell'  odierna  Parìgi  è  tutta  disegnata  su  quella  che 
fa  Virgilio  dei  mali  che  occupano  l'ingresso  dell'inferno.  La  rìporte- 
remo  intiera  e  per  rìcreare  alquanto  il  lettore  coi  versi  del  più  pur- 
gato artefice  di  poesia,  e  per  renderne  agli  occhi  più  visibile  l'imita- 
zione : 

VeHibolum  ante  ipian  primisqne  in  fimdbos  Orci 
Lucius  et  ultrioet  pomen  cubilia  Cura] 
PaHenteigne  babitant  Moria,  tristiiqne  Senectni, 
Et  Metus,  et  maleeaada  Famei,  ac  tupis  Egestasj 


MOTE  AL  Cìnto  secondo  della  bàssyilliàna  9^ 

Tenrilales  visa  fimuBj  Letamane,  Laboiqae; 
Tom  oonsanfoiiieiu  Leti  Sopor,  et  m^  mentis 
Gaadia ,  moctifenuiMpie  «dreno  in  limine  Bellum, 
Feireique  Eamenìdtim  thalami ,  et  Dijcordia  demens, 
Viperenm  orinem  Titti<  innexa  cruentis. 

Veggui  ancora  la  bellitsima  imitazione  che  sopra  il  fondamento  di 
pochi  versi  d'Ovidio  ne  fa  rAngniUara  nel  quarto  delle  sae  Meta- 
morfosi. 

Pao.  42* 

€  Osservisi  in  quanti  differenti  aspetti  vien  dai  poeti  considerata 
questa  peste:  Turpù  EgestaSf  da  Virgilio;  acrìs  J^gestas,  da  Lucrezio; 
infiunù,  da  Terenzio;  infeUx  humili  gressu,  da  Claudiano;  audax,  dal 
Venosino;  consttmofrìce  dell' anùno ,  da  Esiodo;  domatrice  del  galani 
Utomo,  da  Teognide  ;  e  finalmente  eccitatrice  delle  arti,  e  maestra  della 
fatica^  da  Teocrito:  sebbene  il  poeta  Siracusano  parla  forse  di  quella 
nobile  e  virtuosa  povertà  che^  secondo  il  detto  di  Cicerone,  differisce 
alquanto  dalla  mendicità.  Comunque  sia,  il  nostro  poeta  si  è  attenuto 
a  Virgilio,  e  nel  suo  caso  nulla  più  conveniente.  Anche  Seneca  nel 
Tieste  pone  il  Bisogno  fra  i  mostri  dell' inferno. 

Iti. 

'  Immagine  tolta  interamente  da  jnel  celebre  sonetto  del  signor 
abate  Onofrio  Minzoni,  ferrarese  : 

Starasi  coDe  man  sotto  le  ascelle 
Mandricardo  aDa  rira  d'Acheroole. 

Citiamo  «on  veneraaione  l' esempio  di  questo  sublime  ingegno  vivente, 

e  fiiodam  conto  di  citare  niente  meno  che  quello  d'un  classico. 

Ivi. 

*  Se  mal  non  mi  appongo^  questa  è  l' imperiosa  Jamét  di  Claudiano; 

e  veramente  la  fame  è  l'arbitra,  la  tiranna   dell'uomo,  spingendolo 

alle  rapine  e  a  tutta  sorta  di  delitti.  Perciò  Quintiliano   nelle  sue 

Declamazioni  la  chiama  maetira  di  peccati,  e  Quinto  Calabro  maestra 

dt  impruderna,  Seneca  nelle  Epistole  scrìsse  :  wenter  prmcepta  non  audit, 

pasciti  appellali  e  Oppiano,  nel  terzo  della  Pescagione,  dopo  d'aver 

detto  che  nulla  è  più  grave  della  fame,  soggiunge  questa  ragione,  che 

ella  esercita  su  gli  uomini  un  comando  crudele.  Conforme  ai  citati  è 

il  sentimento  di  Filone  nella  vita  di  Mosè ,  ove  appella  la  fame  e  la 

sete  dominat  graves  et  difficiles. 

Ivi. 
9  Dante,  Purg.t  e.  XXIII  : 

Pallida  nella  feccia,  e  tanto  scema. 
Che  dall'  ossa  la  pcUe  s' infonnara. 

E  siepe  della  bocca  appellò  i  denti  anche  Omero  frequentissimamente. 
Tfon  si  deve  omettere  quel  passo  d'Ovidio,  lib.  Vili  BIet.|  ove  de- 
scrive appunto  la  fame  : 

LaLra  ineana  sttu;  scabri  ralùgine  dentes; 

Dura  cntis,  per  quam  spectari  tiicere  possent. 

Morti.  Poemetti,  7 


98  VOTE  AI.  CAUTO  SECONDO 

Pjlo.  4^. 

■•  Nettano  epiteto  alla  DitoordU  coti  proprio  e  contoetoy  come 

quello  di  pazza  ^  datole  da  Virgilio  più  yolte  e  dall' Ariosto.  Il  poeto 

Blantovano  dopo  di  averle  nel  VI  dell^  Eneide  ornata  la  tosto  di  bende 

sanguinose  e  di  serpi,  finisce  di  vestirla  nelPVIII  con  questo  egregia 

ipotiposi  : 

. .  .  KÌtn  gindou  tradii  DiMNrdk  paDa , 
Qoam  cnm  — yi"*ff  nqnitiir  Bellona  flabello] 

e  questo  manto  stracciato  (idea  che  il  nostro  poeto  ha  trasportato  alle 
bende)  le  vien  posto  indosso  ancora  da  Petronio:  tota  laceraùun  ps- 
ctare  fetiem.  Una  yiyissima  ed  omerica  prosopopea  di  qaesto  mostro 
vedila  nel  lib,  X  dei  Paralipomeni  di  Quinto  Calabro. 

Ivi. 
•  •  ÀI  contrario  la  Paura  nel  VI  della  Tebaide  é  chiamato  audace: 

Spetqna»  andanpie  una  MetiUi  «t  Fiducia  pallimi  | 

forse  perchè  l' uomo  impaurito  e  in  perìcolo  di  vita  ti  arrischia  a  delle 
intraprese,  alle  quali  in  istoto  di  sicurezza  non  si  sarebbe  attentoto. 
Con  tutto  ciò  questa  idea  di  Stazio  ci  sembra  più  ragionato  che  na- 
turale. 

Ivi. 
I*  L'uno  e  l'altro  sentimento  verissimo;  poiché^  tranne  la  morte, 
ntuno  de'  tanti  mali  che  ci  distruggono ,  leva  dal  mondo  si  gran  nu- 
mero di  Vito,  come  la  guerra;  che  perciò  vien  qui  detto  ragionevol- 
mento  ministra  ed  emula  della  morto.  Vagliami  una  sentonza  del  di* 
vino  Ferrarese  in  bocca  della  Morto  medesima  a  proposito  d'nna 
grande  uccisione  che  si  fa  per  roano  d'  Orlando  : 

Pel  campo  errando  Ta  Morte  cmdele 
In  molti,  yarìi,  e  tatti  orribil  Tolti, 
E  fra  le  dice;  in  man  d'Orlando  Tald 
Durindana  per  cento  di  mie  frki. 

Ivi. 
■3  Essendo  questo  il  pugnale  che  l'irreligione  mette  in  mano  alla 
guerra,  era  ben  giusto  che  quest'  arme  non  altronde  uscisse  che  dalla 
fucina  del  diavolo.  La  frase  qui  adoperato  sa  molto  di  quella  d'Ariosto: 

Temprato  all'onda,  od  allo  stigio  ibco; 

e  dell'altra: 

Formò  lo  tondo  all'in&mal  fiiTiUa. 

Ivi. 
■4  Simboleggiarono  gli  antichi  sapienti,  in  questo  guerra  de' giganti 
contro  gli  Dei,  gli  sforzi  del  superbo  umano  intolletto  contro  la  reli- 
gione, e  svelarono  cosi  sotto  figure  sensibili  l'abuso  della  traviato  ra- 
gione. 


DELLA  BAS5V1LL1ANA  99 

Momì  taluni  non  da  spirìtOj  ma  da  libidine  di  crìtica ,  condannano 
qoi  ed  altrove  l'allasione  che  si  fa  qualche  volta  alla  favola,  produ- 
cendo  in  campo  il  solito  laogo  topico  dell'  ignorania,  di  non  mescolar 
le  cose  sacre  colle  profane*  Alle  quali  censure  noi  tre  risposte  daremo 
per  nessuna  che  si  dovrebbe  :  e  la  prima  sarà ,  che  il  soggetto  di 
questa  poesia  non  è  cosi  sacro  di  sua  natura ,  che  non  venga  tempe« 
rato  quasi  ad  ogni  passo  da  un  forte  ingrediente  d'eroico»  e  l'eroico 
non  si  può  esomare  colla  conveniente  poetica  dignità ,  senza  intro- 
durvi lo  spirito  e  le  grazie  della  favola,  unico  fonte,  a  cui  dee  bavere 
1>  tmraagtnasione  per  dar  corpo  e  colore  alle  umane  passioni,  e  per  la 
strada  degli  occhi  »  più  breve  e  più  spedita  che  non  é  quella  della 
meditazione  9  dipingerne  e  rivelarne  la  metafisica  lor  turpitudine. 

Ci  faremo  ad  osservare,  in  secondo  luogo,  che  tale  e  tanta  è  la  mae« 
età  e  la  santità  della  nostra  religione,  che  la  debole  umana  immagi- 
nativa se  non  vien  sostenuta,  come  quella  de'  profeti,  dall'  immediata 
ispirazione  divina,  difficilmente  si  presta  all'astrazione  d' idee  cosi  su- 
blimi, alle  quali  nulla  si  può  togliere  né  donare  senza  pericolo  d'al- 
terarne la  purità;  ond'ò  che  smarrita  e  confusa  non  ardisce  di  appros- 
simarvi lo  sguardo,  e  prenderne  domestichezza;  e  temendo  di  non 
poterne  sostenere  l' idea,  e  degnamente  parlarne,  intollerante  di  freno 
ricorre  all'aiuto  del  senso,  e  veste  di  abito  mortale  le  contemplazioni 
eccitate  dall'intelletto. 

Dovrebbe,  in  terzo  luogo,  rispondere  per  noi  l'esempio  de' sommi 
poeti,  che,  anche  illuminati  dalla  luce  dell'  evangelio,  hanno  sparse  le 
altissime  e  sacre  loro  invenzioni  di  favolose  allegorie ,  e  potremmo 
citare  l' Omero  dell'  Inghilterra ,  che  n'  ha  riempito  il  suo  Paradiso 
perduto,  collocando  (per  dime  una  di  mille)  nell'Inferno  sulla  riva 
del  fiume  Lete,  Medusa,  che  tien  lontano  colla  vista  della  Gorgone  i 
diavoli  che  vorrebbono  accostarsi  a  bevere  la  corrente  dell' Obblio,  e 
paragonando  Eva  ad  una  Driade,  poi  a  Pomona,  e  poi  a  Diana,  e 
Adamo  a  Giove,  quando  abbraccia  Giunone;  citar  l'Alighieri,  a  cui 
tanto  è  la  favola  che  la  storia  (né  dico  già  la  profana,  ma  la  divina); 
citar  il  più  casto,  il  più  verecondo  di  tutti  i  poeti,  il  Petrarca,  che 
confonde  Giove  con  Dio;  citar  l'elegantissimo  Sanazzaro,  il  di  cui 
poema  sul  Parto  della  Vergine  dolevasi  il  dotto  e  santo  cardinal  Seri- 
pando,  legato  al  Concilio  di  Trento,  che  non  si  leggesse  e  spiegasse 
neUe  scuole  alla  cattolica  gioventù,  senza  punto  scandolezzarsi  de' va* 
ticinii  di  Proteo  sulla  persona  di  Gesù  Cristo  ;  citar  finalmente  l'esem- 
pio del  gran  Michelangelo,  che  nel  suo  Giudizio  universale  non  ha 
temuto  di  mescolarvi  pure  Caronte  che  tragitta  sulla  barca  i  dannati. 
Ma  perchè  una  censura,  .siccome  questa,  generata  dall'ignoranza  e 
fortificata  dalla  presunzione,  non  si  mortifica  per  la  via  dell'autorità, 
noi  la  combatteremo  coli' arme  della  ragione;  e  penetrando  nel  se- 
greto ed  alto  consiglio  di  quei  sapienti,  dall'oscuro  labirinto  in  cui 
si  sta  chiuso,  lo  trarremo  alla  luce  per  disinganno  di  coloro  che,  non 
andando  collo  sguardo  più  oltre  della  superficie,  credono  con  sifiatte 
allusioni  violato  11  decoro  della  cristiana  teologia. 


lOO  NOTE  AL  CANTO  SECONDO 

Poniamo  in  fronte  alle  nostre  riflessioni  l'assioma  del  poeta  della 
ragione  :  ut  piciura  poesù.  Ora  la  pittura  non  parla  all'  anima  che  per 
l' organo  degli  occhia  e  gli  occhi  non  ricevono  che  la  percussione  delle 
sembianze  corporee.  Se  io  Torrò  dunque  dipingere  il  vizio  o  la  virtù, 
non  potrò  certamente  conseguire  il  mio  fine  che  col  soccorso  di  co- 
lori sensibili,  col  mezzo  de'  quali  imprimere  su  i  miei  pensieri  il  ca- 
rattere della  materia,  ed  introdurre  negli  animi,  per  la  strada  de^  sensi, 
la  cognizione  della  natura  e  di  Dio,  ed  eccitarvi  i  semi  dell'  onesto  e 
del  bello. 

Sottoposto  alle  sembianze  della  materia  il  pensiero,  ecco  generata 
la  favola,  la  quale  non  è  altro  che  la  scienza  in  abito  popolare,  e  la 
verità  travestita.  Ne  ad  altro  fine  ella  prende  quest'umile  volgar  ve- 
stimento }  che  per  allettar  maggiormente  ed  innamorare  di  sue  celesti 
bellezze  le  menti  schive  del  popolo,  nemico  della  fatica  contempla- 
tiva, e  docile  soltanto  a  quegl' insegnamenti  che  battono  alla  porta 
djsi  sensi  per  insinuarsi  nell'  intelletto.  Perlocchè  deviano  dal  retto 
sentiero,  ed  estinguono  lo  spirito  e  la  virtù  vitale  della  poesia  tutti 
coloro  che  la  poesia  travestono  in  filosofia ,  e  in  luogo  di  pingere, 
declamano  le  passioni,  di  modo  che  spogliata  di  ritmo  la  loro  parola, 
vedrai  sparir  tutta  col  numero  delle  sillabe  la  lor  poesia,  rimanervi 
non  già  disjecti  memora  poeta j  ma  i  dispersi  frammenti  d' un  convalso 
declamatore. 

Stabilito  adunque  questo  principio,  che  il  poeta  è  pittore,  e  che  il 
pittore  non  per  altra  via  può  tramandare  nelle  menti  degli  uomini  i 
suoi  sublimi  concetti,  che  vestendoli  di  colori  tolti  in  prestito  dalla 
materia;  qualunque  immagine  di  virtù  o  di  vizio  gli  si  presenti,  egli 
la  crederà  appartenere  giustamente  al  suo  soggetto;  e  nessuno  potrà 
contrastargli  il  diritto  di  giovanu>nfì  n  tutto  ano  iienno:  né  egli  punto 
si  fermerà  a  ponderare  se  vero  o  favoloso  sia  il  fonte  da  cui  scaturi- 
sce; poiché  la  storia  e  la  favola  non  altro  diventano  alla  saa  imma- 
ginazione, che  la  figura  di  quelle  passioni  che  col  suo  soggetto  cospirano. 

Per  questa  ragione  (vien  qui  in  soccorso  del  mio  pensamento  l'im- 
mortale Gravina),  per  questa  ragione,  die'  egli,  si  stimò  Danie  Ubero  di 
ogni  biasimo  in  attere  dato  luogo  a  Catone  Vticense  fuori  delPJn/imo, 
ed  in  avere  nel  Purgatorio  tra  le  sculture  delle  t^irtà  mescolati  gli  esempli 
della  Scrittura  colle  istorie  profane ^  anzi  anche  colle  Ja(*ole,  Mie  quali 
benché  siajalso  il  significante ,  uero  nondimeno  è  il  senso  significato^ 
cioè  la  dottrina  morale j  ed  il  seme  di  tòrta  dentro  lajavola  contenuto. 
Né  per  altro  è  da  credersi  che  questo  teologo  poeta  collocasse  nel  Pa- 
radiso l'anima  di  Rifeo  Troiano,  ucciso,  secondo  la  narrazione  di  Vir- 
gilio, nell'incendio  di  Troia,  se  non  perchè  essendo  egli  stato  j'ustis' 
simus  unus  in  Teucrisj  et  servantissimus  cequi^  e  trovando  in  lui  Dante 
nna  viva  immagine  della  virtù,  stimò  egli,  non  che  lecita,  lodevole 
cosa  il  trarla  fuori  del  fango  delle  Pagane  opinioni,  e  purificarla,  di- 
vinizzarla in  cielo  alla  sorgente  della  vera  giustizia,  di  cui  era  questa 
Immagine  una  peregrina  dispersa  emanazione. 

Né  questa  è  tutu  ancora  la  mente  dell'  Alighieri.  Investito  egli  dal- 


DELLA  BASSYILLUNA  lOI 

Paltiuijiia  idea  della  graxta  di?ina,  che,  giusta  il  lublime  suo  detto, 

da  si  profonda 

Fontana  stiDa,  che  mai  creatura 

Non  pinae  T  occhio  insino  alla  prim*onda; 

e  seguendo  la  dottrina  di  quei  dottori  che  insegnano  che  se  un  uomo 
non  illuminato  dalla  rìyelazione  mantenesse  nel  tenor  del  suo  vivere 
nna  perfetta  osservanza  della  religion  naturale,  e  la  piena  conformità 
ai  dettami  della  ragione  che  parla  a  tutti ,  Iddio  uon  potrebbe  non 
usargli  misericordia,  ed  inviargli  anche  per  mezzo  d' un  Angelo  il  lume 
della  fede,  perchè  giungendo  ad  acquistare  una  più  alta  idea  dell'Es- 
aere  supremo,  giungesse  ancora  a  credere  in  esso ,  e  a  salvarsi ,  sup- 
pone Dante  con  una  ipotesi,  che  nessimo  gli  può  impedire,  che  il 
fortunato  e  virtuoso  mortale  di  cui  si  parla,  fosse  appunto  questo  Rifeo; 
il  quale,  ayendo  posto  tutto  il  suo  amore  alla  giustizia,  ottenne  che 

...  di  grazia  in  graiia  Iddio  gli  aperse 
L*  occbio  alla  no&tra  Redcnùon  futura. 
Onde  credette  in  quella; 

e  soggiunge,  che  la  Fede,  la  Speranza,  la  Carità 

gli  f  UT  per  baUeuno 

Dinanti  al  Latteoar  più  d'  un  millcsmo. 


£  in  questa  guisa  quel  profondo  ingegno^  avvezzo  a  nascondere  la  sua 
dottrina 

Sotto  il  velame  ddli  rersi  strani, 

cristianamente  favoleggiando,  che  altro  mai  fece,  se  non  che  rendere 
alla  virtù  un  tributo  di  riverenza,  esaltandola  perfino  nella  persona 
d'un  Pagano,  ed  insegnando  a  noi  il  rispetto  che  in  ogni  tempo,  in 
ogni  luogo,  in  ogni  stato  debbesi  alle  sue  divine  attrattive  ? 

Che  se  la  libera  illimitata  ragion  poetica  spinge  tant' oltre,  siccome 
abbiam  veduto,  i  suoi  privilegi,  chi  ardirà,  leggendo  (se  pur  le  legge) 
le  opere  di  quei  grandi  intelletti,  stendere  le  sue  critiche  petulanze 
sulla  profonda  sapienza  che  move  e  regola  le  peregrine  loro  inven- 
zioni? Chi  sarà  si  villano  da  condannar  V  uso  che  da  ingegni  più  li- 
mitati e  più  timidi  si  fa  talvolta  discretissimo  e  moderatissimo  della 
£ivola,  nuli' altro  da  essa  prendendo  che  il  puro  senso  allegorico  ?  Igno- 
rano forse  costoro  che  altrettanto  fecero  non  pochi  tra  i  medesimi 
antichi  santi  Padri,  i  quali  volendo  distrarre  dal  culto  superstizioso  i 
Gentili,  non  solo  (  dice  il  citato  Gravina  )  adoperavano  il  wigor  della 
luce  evangelica,  ma  eccitat^ano  ancora  alcune  autorità  de'  primi  archi" 
tetti  dell'  idolatria,  e  sviluppando  i  nodi  delle  favole,  Jaceuano  apparire 
qualche  principio  della  cristiana  fide  sulla  medesima  tela  de^Jìlosofi  ed 
witichi  poeti?  Che  più  ?  Se  leggendo  noi  negli  stessi  libri  ispirati — Jk^ 
cientem  Arcturum  et  Orionem^  et  conyertentem  in  mane  tenebrasj  et  diem 


102  NOTE  AL  CANTO  SECOBTDO 

in  noctem  mutantem  :  Amos,  cap.  5.  —  Qui  extendii  cmlo*  toliu,  et  gru" 
dùur  super  fluctus  maris.  Quijhcit  jircturum  et  Oriana^  et  Bjrada»  et 
interiora  AustrL  Job,  cap.  9.  —  nessuno  ha  mai  bestemmiato  che  Vaso 
di  qaei  termini  favolosi  contamini  il  santo  loro  linguaggio;  tì  sarà  chi 
in  un  poema^  nel  quale  cospira  la  fayola  non  meno  che  la  religione, 
inorridisca  al  sentire  i  nomi  soli  d'Acheronte,  di  Circe,  di  Briareo?  e 
coli' anima  piena  di  questo  santo  raccapriccio  si  aTrà  il  coraggio  di 
pronunciare  da  certi  tripodi  che  la  Cantica  BassviUiana  altro  non  è 
che  un  mostruoso  miscuglio  di  profano  e  di  sacro  ? 

Sarebbe  questo  il  momento  di  scuotere  la  polvere  di  dosso  ad  un 
borioso  scrittore  C^)  che^  affettando  la  tirannide  delle  lettere,  scrive 
tuttodì  sentenza  di  morte  contro  le  altrui  produsioni  (salvo  quelle  che 
vilmente  si  prostrano  al  suo  tribunale)  per  vendicarsi  del  sonno  apo- 
pletico  in  cui  son  cadute  le  sue.  Ma  non  sarà  merito  nostro,  se  nep<- 
pur  questa  volta  la  castigatezza   de' romani   costumi   concede   libero 
sfogo  alla  giusta  ed  antica  indignazione    che   ci  commove.  Qualunque 
però  siasi  questo  nume  che  scherzando  crea  e  cancella  con  un  tratto 
di  penna  le  riputazioni  di  tutti  i  secoli,  questo  letterario  carnefice,  il 
quale  non  accorda  la  vita  che  alla  sprezzata  e  timida  plebe   che   gli 
casca  ai  piedi  tramortita  d' ammirazione  e  di  rìverenia,  spera  egli  forse 
d' aver  ottenuto  dall'  Italia  il  perdono  d' averla  un  giorno   innondata 
col  brodo  delle  sue  sciolte  Poetiche  ?  La  crede   egli  forse   dimentica 
de'  grossi  volumi  da  lui  stampati  a  perpetuo  monumento  della  sua  in- 
sensatezza, e  a  beneficio  solo  de' cessi  e   delle  botteghe?  Non  teme 
egli  punto  che,  mentre  da  lui  si  pescano  in  casa  d' altri  le  virgole  e 
le  parole,  venga  a  qualcuno  la  fantasia  di  pescar  le  balene  nell'oceano 
de' suoi  errori?  Dopo  di  aver  consumato  tanti  anni  nelle  villanie  con- 
tro i  vivi  ed  i  morti,  perchè  non  sacrifica  almeno  un  sol  giorno  alla 
gentilezza  ?  Che  è  questa  rabbia,  questa  bile  sempiterna  che  lo  divora 
e  gli  fa  versar  dappertutto  le  sue  delfiche  contumelie?  Che  é  questa 
pretensione  di  rovesciare,  di  calpestar  sempre  l' opinione  del  pubblico? 
questo  brutale  istinto  di  cercar  ne' libri  i  soli  difetti  quoe  umana  pa^ 
rum  cavit  natura^  e  su  questi  scagliarsi  -  affamato ,  come  i  corvi  che 
vanno  in  traccia  soltanto  delle  carogne  ?  In  somma,  questo   vile   co* 
stume  di  banchettar  sempre  alle  cene  di  Ecate  per  non  morir  di  fame 
sul  trivio?  E  poi  si  lagnano  se  si  tinge  qualche  volta  la  penna  nel- 
l'amarezza 1  e 'poi  le  savie  persone  declamano  sull'intolleranza  poetica! 
Ohi  uomini^  che,  come  il  Fariseo,  ringraziate  il  Signore  di  non  es* 
sere  né  poeti  ne  intolleranti,  e  che  provate  tanta  compassione  pe' cani 
che  mordono,  e  niuna  affatto  pe'  viandanti  che   si  difendono ,  sapete 
voi  che  le  bestie  cattive  non  si  domano  colle  carezze  ?  Sapete  voi  che 
ni  uno  è  solito  di  far  la  limosina  a  chi  gli  ha  menato  prima  il  bastone? 

(*)  Qui  l'autore  invcùee  contro  Saverio  Bettinelli,  autore  dei  PoemeUl  in  Tersi  sciolti 
sotto  il  nome  arcadico  di  Diodoro  Delfico,  delle  Lettere  Virgiliane^  ec.  Più  Urdi  si  ricon- 
ciliò con  hai ,  ìndiriBandogli  la  fonosa  Lettera  ncUa  quale  si  difende  contn  le  onisure  di 
/V/efro,  e  che  yerA  a  suo  luogo  riprodotta.  L'Editore. 


DELLA  BÀSSTlLLIÀNil  lo3 

Pao.  4>. 
iS  Uno  òt*  più  fomosi  oanpioDÌ  della  guerra  de'  giganti  contro  gli  Dei 
fu  il  Centìmano^  che  i  Numi  (dice  Omero)  chiamano  Briareoy  e  i  mor- 
tali Egeone.  Costui,  prima  della  sua  temeraria  intrapresa^  ayea  reso  a 
Giore  nn  importante  servìgio.  Ayendo  Giunone  ^  Pallade  e  Nettano 
cospirato  contro  di  GìotCj  Teti  scoperse  la  congiara,  e  chiam&  in  soc- 
corso di  esso  questo  gigante  da  cento  braccia,  il  quale 9  portatosi  in 
cielo,  si  assise  accanto  a  Giove  in  aria  cosi  terribile,  che  gli  Dei  con- 
giurati si  spaventarono,  e  rinunziarono  all'ardito  loro  disegno.  Un'al- 
tra volta,  essendo  stato  eletto  in  giudice  d'un  litigio  tra  il  Sole  e 
Nettuno  circa  il  dominio  del  territorio  di  Corinto,  egli  ne  aggiudicò 
l' istmo  a  Nettuno  e  il  promontorio  al  Sole.  Con  tutte  queste  prove 
di  virtù  e  di  saviezza  egli  si  ribellò  contro  Giove,  e  lo  combattè  nei 
campi  di  Flegra  nella  Tessaglia,  ove  fingono  i  poeti  che  seguisse  que- 
sto memorabile  conflitto,  che  prima  fu  argomento  dei  versi  d'Apollo^ 
poi  d'Orfeo,  e  poi  di  tutti  i  poeti. 

Ivi. 

*^  Fa  questo  Diagora  il  più  ardito  ateista  di  tutta  l'antichitk  Egli 
scrisse  dei  libri  per  provare  che  un  Dio  è  un  essere  impossibile;  per- 
lochè  gli  Ateniesi,  inorriditi  di  queste  massime,  lo  cercarono  a  morte, 
colla  promessa  di  due  talenti  a  chi  lo  desse  vivo,  e  di  uno  a  chi  ne 
portasse  la  testa:  e  il  decreto  che  lo  dichiarava  infame,  fu  scolpito 
sopra  una  colonna  di  bronzo. 

In  quanto  ad  Epicuro,  fra  le  molte  dispute  che  si  sono  fra  i  dotti 
eccitate  sopra  i  suoi  dogmi,  abbiasi  ognuno  l' opinione  che  più  gli  piace. 
Basta  che  in  ciò  solo  si  convenga,  che  la  dottrina  di  questo  filosofo 
è  passata  in  un  pessimo  proverbio,  e  che  risuscitata  nei  dolci  versi 
di  Lucrezio,  e  in  tanti  libri  francesi^  è  divenuta  una  delle  più  fatali 
alla  purità  della  morale  evangelica. 

Ivi. 
>7  Dio  volesse  che  questa  non  fosse  che  un'  enfatica  espressione  poe- 
tica! Ma  ella  è  pur  troppo  T  orrìbile  letterale  disfida  che  leggesi  nel 
più  empio  di  totti  i  libri,  di  cui  ayrassi  luogo   a  parlare  nelle  note 
del  terzo  Canto  (*). 

Ivi. 

18  filagnifico  detto  del  Salmbta  :  in  sole  posuit  tahemaculum  suum. 

I  sentimenti  qui  esposti  intomo  all'ateismo  francese  essendo  stati 
dal  nostro  poeta  delineati,  e  quasi  verbalmente  espressi  in  un'Ode, 
che  gira  da  molto  tempo  scorretta  per  le  mani  del  pubblico,  speriamo 
di  non  somministrar  motivo  di  sdegno  al  cortese  lettore,  se  qui  intera 
la  pubblichiamo,  non  tanto  per  l'indicata  ragione,  che  potrebbe  sti- 

(*)  Vedi  la  NoU  17  al  Terso  del  teno  Canto:  Ultimo  alJSerooneilio  eomparia.  Qui  non 
ooconre  di  rìpeCere  ^pianto  si  è  già  dello  altrove  intorno  a  queste  Note,  a  carte  72. 

L*  Editore. 


I04  VOTE  AL  CAHTO  SECONDO 

mani  un  pretesto^  quinto  per  pnrgaila,  come  Uroro  della  stessa  poma, 
dai  molti  errori  dì  cai  l'ha  riempita  la  negligenia  da'  cattirì  copisti  (*). 

UfVlTO  D'UN  SOUTAKIO  AD  UN  CITTADDIO 


To  cbe  serro  di  Corte 

giorni  meni  InTagliati  e  foedu, 
Vieni,  afiuo  mortai,  fin  qnetfi  boschi, 

Tian,  e  farai  felice. 

Qni  BOB  di  ipOK,  Bè  di  fliadri  il  ptanlo. 
Ne  di  gaDicha  trombe  odrù  lo  squillo; 
Bla  eoi  defl'anre  il  susorrar  tranquillo, 

E  degli  augelli  il  canto. 

Qui  aol  d'anor  sovrana  è  la  lagione, 
ScBia  rischio  la  Tìta,  e  scnn  affiamo. 
Ne  d'dtio  mal  si  tane,  altro  tirauBO^ 

Che  il  remo  e  l'aquilane. 

QoMdo  ìb  Toho  BÙ  soflSa»  e  odi  rigore 
De*  snoi  fiati  bù  morde,  io  rido,  e  dico: 
Non  h  certo  costai  noctro  nemico. 

Ne  Tile  adnLatoie. 

Eg^  dd  fimgo  praacUo  m'attesta 
La  oormttilal  tcmpraj  e  di  colei. 
Cui  dd  Taso  firtal  fér  dono  i  Dei, 

L'erediU  iimesU. 

Ma  dolce  è  il  fintto  di  memoria  amara; 
E  Bie^o  tra  capanne  in  nmil  sorte, 
Cha  nel  tnoonlto  di  bugiarda  Corte, 

Filosofia  s'impara. 

Qnd  fior  che  sul  mattin  ù  vago  iili  im . 
E  smorto  fl  cipo  sa  la  sera  abbassa, 
ATTÌsa,  in  suo  parlar,  che  pnsto  passa 

Ogni  mortai  »aghem. 

Quel  rio  dia  ratto  alI'Ocean  canmina. 
Quel  rio  Tnol  danni,  che  dd  par  Tdoce 
Nd  mar  d' eternità  mette  la  Iboe 

Mìa  vita  peregrina. 

Tutte  daD' dee  d  giunco  han  lor  fiiydla. 
Tutte  han  senso  le  piante:  abdie  b  rude 
Stspida  pietia  t'ammaestra,  e  diiude 

Una  TÌtd  fiammdla. 


(*)  Quest'Ode  fu  già  da  me  pubblicata  a  carte  ia8  del  primo  Tolome.  Non  «vedo  però 
di  doreria  tralasciare  a  questo  luogo,  dove  fu  dall'  autore  data  in  luce  la  prima  volta ,  attesi 
i  varii  cangiamenti  di'  egli  vi  lÌBoe  da  poi  nel  riproduria ,  e  che  a  tduno  piaceri  fórse  di 
eoufrontare  coU'  ultima  lesione  alla  quide  mi  sono  nd  primo  vdume  attenuto. 

VBBtore. 


DELLA  Màasvnxwxk  io5 

dnnqw,  infrlin,  m  qoMle  ukn^ 
Fuggi  r  empie  citt^,  iìiggi  i  restigi 
Di  niarte  sanguinoii,  e  di  Parigi 

Le  vagabonde  belve. 

(i  l'aTaio  iQol  di  colpe  inCetlo, 
Ore  crudo  iiii|»agar  li  rede  il  uno. 
Non  il  pigro  teiren,  noo  l'ofano  e  il  oanro. 

Ma  de'  firateDi  il  petto. 

Abi  di  Giapeto  iniqua  fUipei  ahi  dira 
Secol  di  Pimi  Insanguinata  e  rea 
Laidiò  la  tem  un'altra  volta  Aitiea, 

E  riaenò  l'Empirò. 

<2ttindi  l'enqpia  ragion  del  più  robosto. 
Quindi  fidso  Panar,  falsi  gU  amici» 
Compre  le  leggi»  i  tndilor  fieliei, 

E  sventurato  il  giusto. 

Quindi  vedi  caltf  tremendi  e  fieri 
De*  Dmidi  i  nepoti,  e  violenti 
Scuotere  i  regni,  e  sgomentar  le  genti 

Coli'  armi  e  oo'  penti«ri. 

Enoeladi  noveUi,  anco  del  deb 

Assalgono  le  tonrii  a  Giove  il  trono 
Tentano  rovesciar,  rspiigU  il  tnono, 

E  il  non  trattabil  telo. 

Ma  non  dorme  lassa  la  sua  vendetta; 
Gili  monta  snll'  irate  ali  del  vento» 
Gili  nella  destra  mormonr  gli  sento 

11  lampo  e  la  saetta. 

Pao.  43. 
■9  Greco  modo  di  dire,  siccome  nota  Servio  a  quel  teno  di  Virgilio: 

Insonnere  cava  gemìtumqne  dedeve  cmvena  | 
simile  a  quell'altro: 

nostro  dolnisU  scpe  dolore. 

Dicasi  altrettanto  di  quel  passo  di  Cairo  riportato  da  Qointiliano: 
JhicUun  ambùum  scitis  omnea,  et  hoc  vos  scirt  omnes  sciunt  Cosi  yiver 
Yita^  morir  morte^  ferir  ferita,  e  tant'  altri.  Niuno  però  meglio  del  mio 
messer  Lodovico  : 

Ma  tà  quella  awertensa  inavvertita 
Da  Malagigi  per  pensarvi  poco: 

e  nian  peggio  dell*  Alighieri  : 

Io  credo  eh' ei  credette  ch'io  ciedesse. 

L'Ariosto ,  la  di  cai  chimic«  traeya  l' oro  da  tatto,  ha  imitata  grazio- 


Io6  ROTE  AL  CANTO  SECONDO 

samente  questa  licenziosa  locuxioiie,  e  poco  manca  che  non  la  renda 
degna  di  lode: 

lo  cndn,  e  credo^  e  credsr  crwb  il  vero. 

Pao.  43. 

»o  Perìfrasi  del  di  ai  gennaro>  giorno  di  sempre  acerba  ricordanza 
per  la  morte  dell'infelice  e  virtuoso  Luigi  XVI.  Quattro  sono  le  cir- 
costanze che  qui  si  toccano.  La  prima  èj  che  in  quel  giorno  com- 
putasi dagli  astronomi  il  passaggio  del  Sole  dal  segno  di  Gaprìcomo 
a  quello  d'Acquario:  la  seconda  che,  stando  il  Sole  nel  Capricorno, 
i  nostri  mari  sono,  piucchè  in  altro  tempo,  agitati  dalle  tempeste;  lo 
che  illustreremo  in  fine  della  nota:  la  terza,  che  nella  costellazione 
d'Acquario  favoleggiasi  collocato  da  Giove  il  rapito  troiano  Ganimede; 
onde  troiana  stella  giustamente  vien  detta,  come  per  la  stessa  ragione 
puer  idasus  dissela  Ovidio ,  e  jw^enUis  Aquarius  Manilio.  La  quarta 
finalmente  si  è,  che,  dimorando  il  Sole  in  questo  segno,  il  clima  no- 
stro è  sì  freddo,  che  attenendoci  alle  nostre  sensazioni,  senza  le  quali 
il  criterio  poetico  sarebbe  tradito,  il  raggio  solare  è  più  scarso  e  pi- 
gro del  solito,  perchè  tale  lo  decide  il  giudizio  de'  sensi. 

Che  poi  siano  frequenti  le  tempeste  nel  segno  di  Capricorno,  mas- 
simamente quando  tramonta,  lo  impariamo  dalle  meteorologiche  os- 
servazioni, non  meno  che  dai  poeti,  de' quali  tre  soli  esempii  addur- 
remo perchè  men  cogniti  :  uno  di  Teocrito  nel  settimo  de'  suoi  Idillii  : 
quum  propter  occidentes  Hados  JYotus  humidas  urget  Itndasj  l'altro  di 
Nonno  :  imbrtfkrum  piscosi  tupra  dorsiun  Capricomij  e  l' ultimo  di  Rufo 
Pesto,  che  con  virgiliana  e  properziana  eleganza  disse: 

badi 

Sova  procellosis  knaiittiint  flabra  fliientis , 

invece  di  procellosa  flabra.  Vedi  l'Eneide,  lib.  IX,  v.  668,  e  l'intem- 
perante imitazione  di  Stazio  nell'VIII  della  Tebaide. 

Ivi. 

*|  La  sentenza  di  morte  sulla  sacra  persona  di  Luigi  XVI  fu  eseguita 
poco  dopo  le  dieci  di  Francia,  e  il  poeta  fa  che  l'Angelo  coli'  Ombra 
entri  dentro  Parigi  poco  dopo  le  nove,  per  occupare  intanto  i  suoi 
eterei  viaggiatori  nello  spettacolo  di  quei  lugubri  preparativi,  e  nel- 
l'orrore di  quella  città  forsennata.  Chiama  poi  le  ore  ancelle  del  giorno, 
come  le  chiamò  Dante  : 

vedi  che  tene 

Dal  senrigio  del  di  1*  ancella  sesta; 

e  questo  pensiero  egli  bebbe  al  fonte  d' Ovidio,  che  impiegò  espressa- 
mente le  ore  al  servigio  del  Sole: 

lungere  etjnoi  Titan  velociI>us  imperat  horis; 


DELLA  BASSTILLIANA  IO7 

le  qnaK  poscia  l'èmulo  d' Ovidio ,  il  Marini ^  iofegnoMmeiite  appellò 
dodtd  brwu  9  dodici  yermigUe^  per  distinguere  le  ore  diurne  dalle 
nottnme. 

Chi  datti  a  credere  che  anche  Omero  le  rappresenti  come  ancelle 
del  Sole^  s'inganna»  non  facendole  egli  che  oaratrìci  de'  caTalli  e  del 
cocchio  di  Giunone  e  portinaie  del  cielo.  Vedi  il  lih.  V  e  Vili  del- 
l'Ilìade,  e  la  elegantissima  imitazione  che  ne  fa  il  Sanazzaro.  Non  si 
Tuole  omettere,  che,  secondo  la  favola,  le  ore  sono  figliuole  di  Giove 
e  di  Temi,  alle  quali,  oltre  la  custodia  delle  porte  celesti,  i  poeti  af- 
fidarono ancora  l'educazione  di  Giunone,  e  la  cura  di  trastullar  Pro- 
serpina  quando  le  Parche  e  le  Grazie,  baUando,  la  riconducono  ogni 
sei  mesi  alla  madre.  In  Atene  ebbero  altari  e  sacrificii,  e  venivano 
supplicate  per  ottenere  la  temperanza  del  Sole,  e  la  maturità  de'frutti. 
Delle  quali  cose  comprenderai  subito  la  nascosta  ragione,  se  conside- 
rerai, che  la  favola  greca  sotto  il  nome  di  Ore  non  già  intende^  sic- 
come noi,  la  vigesima  quarta  parte  del  giorno,  ma  bensì  le  stagioni 
(l'ano  e  l'altro  significando  il  greco  vocabolo),  che  per  ciò  solo  furono 
dagli  antichi  appellate  le  quattro  ore  dell'anno,  sebbene  Esiodo  e 
l' antere  degl'  inni  attribuiti  ad  Orfeo  ne  riconoscano  tre  solamente. 
Anche  presso  i  Latini  ebbero  assai  volte  lo  stesso  significato.  Quindi 
quel  detto  Oraziano  :  te  flagrantù  hora  canicuìm  nètcU  tangerej  e  quel- 
r  altro  di  Plinio  :  has  ubi  geniiaUt  anni  stimùloptrà  hora» 

Pào.  43. 

«>  Cioè  stridule,  sonore,  come  arguto  bosco,  argute  spole,  arguti 
gridi;  e  precisamente  argute  seghe,  ad  esempio  di  Virgilio: 

TuDc  inTì  ffigQfv  tlqiw  tfgnte  umiiM  seins* 

Ivi. 

«3  Nessun  atto  in  natura  palesa  tanto  l'amor  materno,  siccome  qne» 
sto,  e  son  pochi  i  poeti,  che  non  siansi  occupati  di  questa  delicata 
pittura.  Sentiamo  Virgilio: 


Et  trepida  natam  pnoen  ad  pecton  ustoi. 

Lucano  copia  Virgilio,  e  muUndo  il  trepida  in  patfidm,  indebolisce 
l'eridenza  dell' ipotiposi: 

Et  pavida  natot  pMMvt  ad  paeton  matraa. 

Stazio  ancor  esso  sull'orme  del  maggior  latino:  pressitque  Palamona 
mater.  Avvi,  ne  mi  ricordo  dove,  in  Euripide  un  passo  consimile.  Fra 
gl'Italiani,  basti  nn  esempio  solo  dell'elegantissimo  Proteo  Ferrarese: 

Hodai»  e  Sonna  nfi,  Garonna  e  Reno: 
Si  itrìnaero  le  madri  i  6gli  al  mdo. 

Pào.  43. 
>4  Vedi  il   tenero  ed   appassionato   atteggiamento  di   Andromaca, 


I08  NOTE  AL  CAUTO  SECONDO 

nel  VI  dell'Iliade^  quando  dÌMnade  il  marito  dall'andare  in  battaglia; 
e  l'altro  di  Creosa,  nel  II  dell' Eneide,  quando  yuoI  trattenere  Enea 
dal  tornare  fra  i  perìcoli  delle  armi  nella  gran  notte  deUa  mina  di 
Troia  : 

Eoo»  aalem  compien  podet  in  limiiie  oanjiix 
Hnrdiat,  panmmqne  patri  tendeiiat  lolnm. 

Sebbene  le  moderne  donne  francesi  siano  assai  lontane  dalla  coniugai 
tenerezza  delle  Andromache  e  delle  Creuse,  e  sembri  cbe  la  natura 
abbia  finito  di  parlare  al  cuore  di  quelle  genti,  nondimeno  quante 
lagrime,  quanti  sospiri,  quante  palpitazioni  in  quel  giorno  del  maggiore 
de* misfatti  francesi,  in  cui  stupbco  che  non  prendessero  sentimento 
le  pietre  ! 

Pio.  44. 

a^  Prima  di  parlare  di  queste  orgie,  diremo  chi  fossero  questi  Druidi. 
Erano  costoro  i  sacerdoti,  i  maestri,  i  legislatori  degli  antichi  GallL 
Vivevano  una  vita  ipocrita,  ritirati  nel  fondo  delle  selve,  ove  dalla 
credula  nazione  venivano  consultati.  Adoravano  il  dio  Eso  e  il  dio 
Tentate,  eh'  erano  il  Marte  e  il  Mercurio  de'  Romani  ;  e  le  vittime  più 
gradite  erano  i  prigionieri  nemici,  i  cittadini,  i  fratelli,  e  qualche  volta 
le  mogli  e  i  figliuoli.  Fra  i  tanti  collegi  in  cui  erano  distribuiti  per 
tutte  quelle  provincie,  e  fin  anche  per  la  Germania,  il  più  rinomato 
era  quello  dì  Marsiglia,  ove  celebravano  in  dati  tempi  le  loro  conven* 
zioni.  Cesare  lo  distrusse;  e  la  descrizione  che  ne  fa  Lucano,  nel  lib.  Ili, 
in  versi  animati  dallo  spirito  di  Virgilio,  mette  orrore  e  raccapriccio. 
Leggi  il  libro  VI  della  guerra  gallica,  e  intenderai  com'erano  inge* 
gnosi  nell'essere  scellerati  e  crudeli.  Con  tutta  ragione  adunque  ne 
vengono  qui  introdotti  gli  spettri  a  pungere  ed  infiammare  i  non  de- 
generi lor  discendenti  al  maggior  de'  delitti  di  cui  potessero  contami- 
narsi e  insuperbirsi. 

Le  allegre  poi  ed  orribili  saltazioni  con  cui  sono  rappresentate  le 
loro  larve,  e  la  gran  faccenda  che  si  danno  per  incoraggire  al  mislatto 
gli  animi  sbigottiti  e  sospesi,  sembrano  imitate  dai  tiasi,  o  sia  dall'or- 
gie  Bacchiche,  di  cui  furono  piene  in  tutti  i  tempi  le  fantasie  de' poeti, 
che  sempre  ne  parlano  come  di  cosa  oscena,  barbara  e  nefanda.  Puor 
vederlo  nelle  favole  di  Penteo,  di  Orfeo,  di  Filomena,  e  nel  lunghis- 
simo poema  delle  Dionisiache. 

Ivi. 
*^  Cioè  torva.  Orazio: 

OUliquo  oculo  mca  commoda  limat, 

e  Stazio  : 

RespcctentTe  trticcs  oliUquo  lamioe  matres* 

Anche  Pindaro  disse  ohUquce  meniL 

Ivi. 
>7  Chiunque  sia  alcun  poco  nodrìto  nella  lettura  degli  antichi  poeti. 


DELLA   BAS8VILLIANÀ  IO9 

troTerà  facilmente  nelle  larve  de*  Druidi  il  carattere  delle  Furie,  di  che 
particolarmente  Eschilo  ed  Earìpide  fra  i  Greci,  e  Stazio  fra  i  Latini 
cantarono  tante  volte  ed  in  tante  maniere.  Senza  ingolfarci  negli 
etempii  di  questi,  ecco  un  passo  di  Virgilio  che  ci  presenta  dei  tratti 
di  molta  somiglianza  col  pensiero  del  nostro  poeta: 

Gmtinuo  iontes  ultrix  accmeta  flagdlo 
Tinphone  quatit  insulUns,  Umroiqiie  ùnistn 
iDtentam  angues,  vocat  agmina  um  torarani; 

le  quali  d' accordo  percuotono  le  anime  de'  condannati  all'  inferno 
nella  guisa  che  fanno  qui  i  Druidi  le  teste  e  le  schiene  de*  Francesi 
onde  porli  in  furore.  Alla  circostanza  delle  faci  e  delle  serpi  si  é  ag- 
giunta anche  quella  de' pugnali  e  de' veleni  per  denotare  il  carattere 
sanguinario  di  questi  barbari  sacerdoti,  e  de' più  barbari  loro  discen- 
denti. 

Pàq.  44. 
»«  Tibullo: 

Tùiphoneqtw  impexa  feroi  pio  crinibiu  anguat 
Swit,  tt  huc  iOiic  impia  tari»  fogit: 

al  qual  verso  chi  sa  che  invece  d' impera  non  vada  letto  impUxaì  È 
Virgilio  che  me  '1  fa  sospettare  : 

.  .  .  Cflrn]eofi|iw  impleTw  oiaibiu  angaai 
Eamenides. 

Ivr. 

•9  Questo  tremore  della  terra  sotto  il  calpestio  de'  piedi  non  è  che 
il  puisu  pedum  tremit  excita  tellus  di  Virgilio,  che  lo  tolse  ad  Omero, 
presso  il  quale  è  •frequentissimo  un  tal  modo  di  dire  :  né  troverai 
poeta  che,  parlando  di  concorso  e  di  moltitudine,  non  si  giovi  di  que- 
•ta  sempre  comune  e  sempre  viva  espressione. 

Ivi. 

3o  Quadra  qui  molto  quel  passo  d'Ovidio,  nel  XII  delle  Metamorfosi: 

Nec  tamen  est  clamor,  sed  pair»  murmura  vocis  ; 
Qualia  de  pclagì,  tiquis  procul  aodiat,'  undis 
Esse  solent;  qualemve  soDum,  cum  lupiter  atra* 
Increpuit  nobes,  extrema  tonitrua  reddunt. 

Due  particolari  esempi  di  rapide  ed  accumulate  similitudini  vedili 
nel  cap.  i3  di  Osea. 

Ivi. 

3i                       Quia  Ubi  tmic,  Dido,  oemeoti  talia  aensusT 
Quosqac  dabas  gemitas  ? 

Non   si  può  leggere  questo  passo  senza  commozione.  Tutto  vi  è 


I  I O  NOTE  AL  CAUTO  SECONDO 

cipreiso  eon  gnmde  «ffeito,  ed  è  più  quel  che  ti  pensa  e  ù  sente, 
die  quel  che  si  dice;  né  si  potrebbe  dir  tanto,  che  l'uditore  nonne 
tenta  e  non  ne  pensi  ancor  di  più.  Gareggia  con  Viigilio  T  Ariosto: 

Che  cor,  dna  di  Son,  die  conaiglio 
Fn  aUon  il  tno^  die  tnr  redesti  Tdino 
Fn  milk  ^ade  al  gaevoio  figlio  I 


Onesto  modo  di  dire,  che  porta  seco  nn  profondo  sentimento,  osollo 
anche  il  padre  dell'  eloquenza  romana  nelle  Filippidie  :  Quid  Ubi  tane 
mwmiì  e  Terenzio  :  Quia  iUi  tandem  crtdù  Jor%  animi  misero,  qui 
eum  aia  eonMum^f 

Pa».  45. 
3«  Sembra  legge  tra  i  poeti  riceyuta  di  non  descrìrere  mu  qualche 
grande  ed  orribile  ayyenimento  senza  il  soccorso  dei  deliquii  solari. 
Cosi  Virgilio  nella  morte  di  Giulio  Cesare  ;  cosi  Lucano  nello  scoppio 
delle  guerre  ciyiU.  Seneca,  nel  raccontare  la  nefanda  cena  di  Tieste, 
sfiora  la  delicata  idea  TÌrgiliana;  e  Lucano  la  seontraiià  per  volerla 
troppo  ingrandite. 

Iti. 

33  Capitale  della  Beozia,  fondata  da  Cadmoy  circondata  di  mura  da 
Anfione  col  noto  miracolo  della  lira,  e  celebre  pe'suoi  delitti;  onde 
anche  Dante  presela  per  tipo  di  crudeltà,  chiamando  Pisa  nwella 
Tebe,  per  ayer  fatto  erudelmente  morire  gl'innocenti  figli  del  conte 
Ugolino. 

Ivi. 

34  Una  bella  comparsa  di  ombre  condotte  dalla  pietà  a  contemplare 
qualche  gran  fatto  tragico  puoi  vederla  nell'Omero  Germanico,  lad- 
dove nella  Messiade  fa  uscire  dai  sepolcri  agitati  dal  terremoto  le  om- 
bre de'  patriardii  ad  assistere  sul  Calvario  alP  agonia  di  Gesù  Cristo  in 
mezzo  agli  Angeli,  che  vanno  e  vengono  su  e  giù,  tutti  piangendo.  A 
questo  passo  di  Klopstock  credo  die  abbia  mirato,  ma  da  lontano,  il 
nostro  poeta,  introducendo  qui  le  anime  di  quei  buoni  Francesi  che 
per  la  causa  della  religione  e  del  re  hanno  sofferto  il  martirio. 

Ivi. 

35  Non  fu  solo  Omero  ad  immaginare  queste  bilance  in  mano  di  Dio 
per  pesare  i  destini:  noi  le  troviamo  ancora  in  Daniele,  ove  una  mano 
invisibile  scrive  a  Baldassarre  sul  muro  :  Thecel,  appensus  es  in  siaUra, 
ei  inventa»  e»  minue  habens.  Vedi  l' imitazione  che  fan  Virgilio  e  Mil- 
ton del  pensiero  omerico,  e  il  tormento  che  danno  i  critici  al  poeta 
latino,  e  la  troppa,  se  non  m'inganno,  parzialità  di  Addison  veno 
l' Inglese. 

In  quanto  al  nostro,  noi  ci  asterremo,  siccome  abbiam  fatto  finora, 
da  qualunque  giudizio  invidioso,  e  proseguiremo  il  preso  istituto  di 
tacere,  o^  altri  avrebbe  più  luogo  a  parlare.  Ma  se  il  discreto  e  giu- 
sto lettore  vorrà  per  un  momento  riflettere  all'  importanza ,  alla  qua- 


DELLA  BA88TILLUKA  III 

lità>  alla  gnndeisa  de'  destini  che  qui  si  pesano ,  e  abbandonarsi  al- 
l'impeto  del  proprio  sentimento,  deciderà  subito  per  sé  stesso  dii  nel^ 
l' oso  di  queste  bilance  sia  stato  dalle  cireostanie  e  dalla  fortuna  pia 
fiiTorìto;  e  conoscerà  se  precipuamente  in  questo  luogo  abbia  il  poeta 
nostro  adempito  quel  desiderio  di  Quintiliano,  il  qual  Tuole  che  l' imi- 
tatone^ perdìè  sia  perfetto^  si  slanci  scopra  T  originale. 

Pao.  45. 

36  Questa  immagine  é  molto  conforme  a  quella  di  Stazio  bellissima, 
nel  lib.  XI  della  Tebaide,  ove  la  pietà  scende  dal  cielo  per  impedire, 
se  può,  il  duello  tra  i  due  fratelli: 

Tiz  ttdnrat  mapo»  minte  itiniiiìmoMw  psM 
AsmiiM*  ff^p^■|»«l^^^^  iMofM  i  timc  <m  msdttcnnt, 
Peclonqiw,  et  teoitns  nibnptit  fratriliiu  lioiTor  .  .  . 
Tela  cadant:  rmirtintiiT  e^ 

Iti. 

37  U  intervento  impror?iso  di  queste  larve  regicide  ad  impedire  Pef- 
fetto  della  pietà,  parmi  V  imitazione  continuate  dell'  indicato  luogo  di 
Stezio.  Ivi  pure  comparisce  Tisifone  che  colle  minacce  e  col  flagello 
di  serpi  caccia  in  fuga  la  Dea,  la  quale,  coprendosi  il  volto  col  lembo 
della  veste,  rimonte  in  cielo  a  querelarsi  con  Giove. 

Ivi. 
3<  Roberto  Francesco  Damiens  assassinò  Luigi  XV  nel  di  5  di  gen* 
naro  1757.  I  tormenti  dati  a  questo  mostro  per  strappargli  di  bocca 
vna  sola  parola  che  potesse  far  sospetterò  eh'  egli  avesse  de'  complici, 
e  F inaudite  oostania  con  cui  sofferse  la  morte,  mettono  terrore.  Il 
ano  supplizio  dorò  un'ora  e  mezzo,  e  per  lo  spazio  di  5o  minuti  fu- 
rono inutili  gli  sforzi  di  quattro  cavalli  per  lacerarlo.  Egli  era  zio  pa- 
terno del  moderno  Robespierre,  che  pid  d'ogni  altro  colla  sna  furiosa 
eloquenza  ha  contribuito  alla  morte  dell'infelice  Luigi  XVI. 

Ivi. 

39  Di  questo  assassino  del  gran  Gustavo,  re  di  Svezia,  é  superfluo  il 
far  parole;  essendo  a  tutti  manifeste  le  circostenze  e  la  qualità  del 
suo  strepitoso  misfatto. 

Ivi. 

40  Francesco  Ravaillac  uccise  Enrico  IV  il  di  i4  maggio  16 io.  Era 
nativo  d' Angouléme,  e  non  avea  più  di  trentedue  anni.  Prima  di  lui, 
altri  cinque  scellerati ^  fra'  quali  uno  scapestrato  di  soli  diciotto  anni, 
avevano  in  diversi  tempi  tenteto  lo  stesso  delitto  sulla  persona  di 
questo  buon  re,  di  cui  1  Francesi  hanno  idolatrate  la  memoria  fino 
al  1789. 

Ivi. 
4«  Ci  prestiamo  interamente  all' intenzione  del  rispettoso  poete  che 
ha  voluto  dir  tutto  con  quel  dantesco  : 

Teocàolo,  •ocioocbè  tu  per  te  ne  cerclù: 


I  1 2  NOTE   AL   CAUTO   SECONDO 

se  pare  non  ha  voluto  alludere  all'  incerteiza  in  che  vimmo  tuttora 
della  razza  e  condizioDe  di  [questo  quarto  assassino^  di  cui  Pietro 
Mattei»  istorìografo  di  Enrico  IV ,  scriye  cosi:  Jusqu'à  cette  heure  on 
n*a  9CSU  trai  qui  a  étd  le  cofueil,  ni  Pauteur  de  ìa  mori  ^Htmy  IH, 

Pag.  46. 
4*  AppellatiTO  delle  Furiej  che,  propriamente  parlando^  Dire  in  cielo^ 
Furie  in  terra  ed  Enmenidi  nell'inferno  si  chiamavano.  Nella  lingua 
de' poeti  il  significato  è  prombcuo. 

Ivi. 

43  Capeto  non  per  derisione,  come  stortamente  la  pensa  il  derìso 
commentatore  d' Assisi,  ma  perchè  discendente  da  Ugo  Capeto,  illustre 
capo  della  terza  stirpe  de'  re  dì  Francia,  il  quale,  a  testimonianza  de- 
gli storici,  per  la  sua  pietà  e  pe'  suoi  savii  regolamenti  meritò  il  titolo 
di  difensore  della  Chiesa  e  di  ristoratore  del  regno. 

Ivi. 

44  Voce  latina,  significante  corda  da  nave,  qui  presa  in  senso  gene- 
rico. Ma  ohimè!  questo  latinismo  non  ha  esempio  in  tutta  la  Crusca. 
Nondimeno  ricordiamoci  del  privilegio  aristotelico  e  del  parce  deiorta 
Oraziano,  e  confesseremo  che  il  salto  da  rudens  a  rudente  è  si  breve, 
che  può  arrischiarsi  di  farlo  anche  un  fanciullo.  E  poiché  abbiamo  in 
sensi  diversi  adottato  i  latinismi  rude,  rudero,  rudimento,  non  isde- 
gniamo  di  aggregare  anche  la  rudente:  e  muoia  la  pedanterìa. 

Pac.  47* 
4^  Eccoci  ad  un  passo  che  ha  messo  il  campo  a  romore  con  molta 
vergogna  dell'arte  critica,  nella  quale  tanto  si  ciarla  e  cosi  poco  si 
ragiona.  Si  pretende  che  amendue  i  poli  siano  perpetuamente  ed  egual- 
mente freddi,  e  che  perciò  l'appellativo  di  caldo  dato  ad  uno  di  essi 
sia  un  error  grassoìano  da  emendarsi  (  dice  una  nota  dell'  edizion  di 
Pavia)  colla  geografia  de' fanciulli  aUa  mano*  E  noi  veramente,  a  fronto 
d'una  tal  decisione,  mal  sicuri  ci  stimeremmo  sulla  sola  miserabile 
autorità  di  Lucano,  di  Dante,  di  Bernardo  Tasso,  di  Pietro  Bembo,  e 
d'altri  mille  che  infelicemente  sono  caduti  nello  stesso  errore;  se 
questa  volta  la  debole  ragione  de'  poeti  non  venisse  soccorsa  anche  da 
queUa  de'  filosofi,  fira'  quali  sa  egli  quel  cortese  annotatore  chi  sceglie- 
remo per  nostro  Achille?  Un  tale  che  lo  farà  sbalordire,  un  sommo 
professore  di  matematica  appunto  nell' Università  di  Pavia,  il  eh.  P. 
Fontana,  a  cui  rimetteremo,  se  lo  consente  la  sublimità  de'  suoi  studii, 
il  giudizio  di  questa  lite,  perché  pubblicamente  intentata  nella  città 
ch'egli  illustra  col  suo  nome,  ed  istruisce  co' suoi  utili  insegnamenti. 
£  perchè  un  ingegno  assuefatto  ad  alti  raziocini!  potrebbe  sdegnare 
l' umiltà  dei  nostri  e  dello  scolastico  nostro  dire,  si  farà  innanzi  a  ra- 
gionare per  noi  il  compagno  un  tempo  del  grande  Eulero  in  Pietro- 
burgo, ed  ora  unico  successore  del  celebre  Le  Seur  nell'  Archiginnasio 
romano,  il  sig.  ab.  Gioachino  Pessuti,  l'autorità  del  quale  lo  stesso 
Fontana,  che  ben  lo  conosce,  non  potrà  non  ammettere  con  compia- 
cenza e  rispetto.  Questo  sublime  geometra,  a  cui  giustamente  appli- 
cheremo quel  detto  che  già  da  un  altro  grand'  uomo  fu  profierito,  non 


DELLA  BÀSSYlLLLàlU  I  l3 

^ffktìcarU  a  iódarìù,  ma  scrùà  $okimenié  il  suo  nome,  non  ha  potato 
asieneniy  in  meno  al  rumor  delle  critiche  i  di  procedere  in  campo 
egli  ttetso  a  quietarne  lo  strepito  con  nna  lettera,  della  quale  egli 
Tuole  che  siano  fregiate  le  nostre  note.  Noi  dunque  la  pubblichiamo 
e  per  utile  intrattenimento  del  nostro  lettore ,  e  per  disinganno  dei 
discreti  ed  onesti  critici»  fra'  quali  non  dubitiamo  di  annoverare  V  an- 
Botator  di  Pavia  ;  non  mai  però  il  brutto  mifors  M  bello  che  s'infuria 
come  una  Menade,  quando  ode  parlare  del  caldo  polo.  Col  più  intimo 
dell'animo  nostro  noi  ringraiiamo  questo  terribile  e  corpulento  let« 
terato  dell'onore  che  ci  comparte  de' suoi  desiderati  e  cari  strapazti, 
tanto  pia  cari,  quanto  che  egli  stesso  protesta,  da  queir  uomo  d'onore 
che  tutti  sanno,  di  non  aver  mai  letta  la  miserabile  nostra  rapsodia, 
per  molte  ragioni,  ma  specialmente  per  questa,  che  non  è  scrìtta  in 
greco.  La  qual  protesta  è  sincerissima ,  perchè  realmente  egli  giudica 
aempre  sema  leggere  e  sensa  capire;  ed  è  poi  giustissima,  avendo  fin 
da  ragaaso  disimparato  l'italiano  per  ripienezza  di  troppo  greco,  di 
quel  greco  cioè,  che  Maometto  proibisce  nell'Alcorano,  e  che  si  sta- 
giona nei  barili  fHi  le  burrasche  dell'Arcipelago. 

••  GtoAcaiso  Pessuti  jl  suo  amico  Viscehzo  Monti, 

m  La  vile  e  maligna  turba  de'  pedanti  e  de'  poetastri  blatererà  sem- 
pre contro  di  voi,  in  quella  guisa  che  gl'infelici  abitanti  di  Congo  e 
di  Angola  maledicono  e  bestemmiano  quotidianamente  il  Sole  meri- 
diano che  gli  abbaglia  e  li  cuoce.  ^ 

Urit  eBÌm  fu%on  ino,  qui  pnegriTSi  arlM 
Infra  ae  potiUs 

E  che?  La  vostra  cantica  doveva  forse  andar  esente  dai  morsi  ai  quali 
soggiacque  l'Aristodemo^  e  le  altre  più  forbite  ed  origtnali  vostre  pro- 
duzioni ?  Perchè  però  sempre  più  vi  persuadiate  del  niun  conto  in  che 
dovete  tenerli,  permettete  che  vi  trattenga  alcun  poco  nell'  esame  d'un 
^roMMolano  errore,  nel  quale  pretendono  d'  avervi  colto  con  tanto  loro 
trionfo.  Voi  dite  nel  II  canto  che  nel  momento  del  barbaro  regicidio: 

Tremoone  il  mando,  e  per  la  manTiglia 
E  pel  teiTor  dal  freddo  al  caldo  polo 
Palpitando  i  Potenti  aliar  le  ciglia. 

In  quella  espressione  adunque  di  caldo  polo  trovano  gli  seiaorati  vo- 
stri detrattori  uno  sproposito  fisico  ed  astronomico,  per  cui  lo  stesso 
annotatore  dell'  edizion  di  Pavia ,  altronde  con  voi  cosi  liberale  di 
lodi,  bruscamente  vi  manda  alla  geografia  de^Jànciulli  per  impararvi 
che  i  poli  e  le  regioni  polari  sono  perpetuamente 

Conilea  giade  concrete,  atque  imliribas  ttrìs: 

Voi  rispondete,  e  rispondete  benissimo,  che  la  parola  polo  si  usurpa 
in  diversi  sensi,  vale  a  dire  non  solo  nel  senso  rigoroso  di  estremità 

MoHTi.  Poemetti,  8 


1  1  4  MOTE  AL  CANTO  SBCOHDO 

dell'asse  terrestre ^  ma  aache  di  regione  o  plaga  del  ciclo;  cosicché 
dal  freddo  al  caldo  polo  possa  significare  dalle  fredde  alle  calde,  dalle 
settentrionali  alle  meridionali  regioni;  nel  qnal  significato  appunto  dal 
medesimo  contesto  egli  è  eridente  che  toì  V  adoperate,  non  esistendo 
a  cognizion  nostra  sotto  i  poli,  presi  in  rigore  di  termine  matematico^ 
né  regnanti  che  tremino,  né  poeti  che  scriTano  dalle  cantiche ,  e,  se 
a  Dio  piace,  neppur  critici  che  le  yilipendano.  E  cosi  questa  malta 
censura  Ta  disgraziatamente  a  percuotere  i  poeti  tolti^  e  latini  e  ita* 
liani,  che  mille  volte  usurparono  questo  Tocabolo  nello  stessissuno 
senso,  e  precisamente  Dante  che  chiamò  l'Austro  la  calda  parta ^  e 
fredda  parte  il  settentrione;  e  Bembo  che  disse:  eealda  Febo  ilnoetro 
poloj  e  Bernardo  Tasso: 

■ 

Or  sotto  il  caldo,  or  lOtto  il  btàào  polo. 

E  qualora  fosse  pure  stata  Tostra  intenzione  di  parlar  realmente  delle 
due  estremità  dell'asse  terrestre,  non  avete  voi  pronto  il  veiao  54  àA 
lib.  I  della  Farsaglia,  che  consacra  la  vostra  espntsioDe? 

Nec  poliu  adversi  calidiu  qui  mergitur  anutri. 

Bla  perché  la  censura,  per  non  assolvere  il  vostro  vèrso,  non  perdona 
neppur  a  quello  di  Lucano,  nel  che  viene  aiutata  dagli  stessi  di  lui 
commentatori,  io  prenderò  a  giustificar  l'uno  e  l'altro;  ed  avrò  cosi 
meritato  bene  deir  arte  critica,  la  quale  accorta  del  proprio  torto,  fi- 
nirà di  tormentar  voi  e  l' addotto  passo  di  quel  profondo  e  sentenzioso 
poeta.  Uscendo  adunque  dalla  geografia  de* fanciulli ,  mostrerò  che  i 
poli  sono  alternativamente  caldi  e  freddi,  e  da  una  riflessione  che  fa- 
remo in  ultimo  sopra  alcuni  sensibili  e  particolari  rapporti,  desome- 
remo  una  verità,  se  non  geometrica,  certamente  poetica,  che  sommi- 
nistrerà una  semplice  e  naturale  difesa  del  passo  che  abbiam  riportato 
del  poeta  latino.  Proverò  poi  geometricamente  che  nell'epoca  in  cui 
appunto  voi  avete  parlato,  cioè  ai  ai  di  gennaio,  il  polo  antartico, 
ossia  l'invisibile,  era  veramente  caldo,  e  più  caldo  ancora  di  quanto 
lo  può  essere  nel  colmo  della  state  qualunque  paese  situato  nei  nostri 
'  climi. 

M  II  grande  Halley,  che  più  d'ogni  altro  fra' suoi  nazionali  si  accostò 
alla  gloria  dell'  immortale  Newton,  fu  il  primo  ad  accingersi  alla  sot- 
tile ricerca  della  misura  relativa  del  calore  solare  in  tutte  le  diverse 
latitudini,  ed  egli  diede  nel  ifigS  un'elegante  risoluzione  sintetica  ed 
una  geometrica  costruzione  di  questo  difficil  problema,  la  quale  ai  legge 
al  numero  ao3  delle  Transazioni  filosofiche  sotto  il  titolo:  The  prò* 
portional  beat  of  the  sun  in  aU  koitudes.  Perfezionata  l' analisi,  dopo 
di  Halley  si  avanzarono  molto  più  oltre  in  questa  ricerca  altri  celebri 
geometri,  cioè  Simpson,  Fazio  de  Duillier,  de  Mairan,  Eulero,  Rastner, 
Mallet,  ed  ultimamente  il  P.  Gregorio  Fontana,  insigne  professore  di 
matematica  sublime  nell'università  di  Pavia*,  che  il  nostro  commen- 
tatore avrebbe  pur  ben  fatto  di  consaltare,  prima  di  scrivere  qnella 
incauta  ina  nota. 


DELLA  BASSVOLUMA  I  1 5 

n  Alquanto  direni  sono  tr»  loro  i  risaltali  ai  (juali  giongono  i  men- 
torati  geometri  nelle  riaolaiiom  dei  problema,  secondo  la  diyersità 
de'prìncipii  che  da  essi  Tengono  adottati.  Pretese  infatti  Faiio  de 
DuUlter  che  l'intensità  del  calore  solare  doTcsse  Airsi  proporzionale , 
non  già  al  seno  dell'  elevazione  del  Sole,  siccome  aveva  supposto  l'Hai* 
ley,  ma  bensì  al  quadrato  del  medesimo  seno.  Il  de  Mairan,  ritornando 
alla  supposizione  Halleyana,  volle  che  il  calor  meridiano  fosse  in  ragion 
composta  di  qnattro  quantità ,  cioè  del  seno  dell'  altezza  meridiana^ 
dell'intensità  della  loce  solare  residua  dopo  di  aver  essa  attraversato 
tratti  di  diversa  lunghezza  nell'  atmosfera,  de'  quadrati  reciprocamente 
presi  delle  divelle  distanze  del  Sole  dal  centro  della  terra,  e  de'  qua- 
drati direttamente  presi  degli  archi  semidinmi.  Il  P.  Fontana  fece 
l'intensità  del  calore  solare  proporzionale  all'altezza  del  Sole  sopra 
l'orizaonte  moltiplicate  per  il  tempicctuolo  infinitesimo.  Noi  però, -senza 
molto  imbarazzarci  di  questo  verità  di  ruultati,  e  molto  meno  de'  cal- 
coli che  ad  essi  hanno  condotto,  giacché  dessi,  per  quel  che  ia  al  caso 
nostro,  sostenzialmente  consuonano ,  ci  ristringeremo  ad  estrame  cosi 
di  volo  qualcuno  che  pia  faccia  al  nostro  proposito,  dalle  tre  memorie 
ionghissime  del  sig.  de  Mairan,  che  si  leggono  negli  Atti  della  R.  Ac- 
cademia delle  Scienze  di  Parigi  per  gli  anni  1719,  17QI  e  1766;  e 
dalle  tre  Dissertezioni  del  P.  Fontena  che  tengono  il  primo ,  secondo 
ed  ultimo  luogo  tra  le  quindici  eh'  egli  pubblicò,  riunite  in  un  grosso 
volane  In  4^»  a  Pavia  nel  1780.  Morite  il  primo  di  essere  prescelto 
per  aver  fatto  per  si  lungo  tempo  oggetto  delle  sue  meditazioni  que- 
sto argomento ,  e  perchè  ci  somministrerà  in  seguito  alcune  conside- 
razioni fisiche  di  grandissimo  uso  al  nostro  intento;  ed  il  secondo  € 
per  essere  il  pia  recente,  e  per  la  singolare  acutezza  che  ha  posto 
nella  soluzione  del  problema,  e  molto  più  per  estere  un  testimonio 
domestico  che  il  commentatore  pavese  non  potrà  ripudiare. 

«  Il  de  Hatran  adunque,  facendo  uso  de*  quattro  elementi  che  abbiamo 
^pii  aopm  accennato,  istituisce  e  determina  il  rapporto  numerico  del 
calore  solare  ne'  due  solstizii  per  tutte  le  latitudini  tento  dell'  emisfero 
boreale  che  del  meridionale.  Ora  cercando  nella  tavola,  ch'ei  n'esi- 
bisce calcolate  su  questi  principii,  il  numero  esprimente  il  calore  estivo 
che  l'azione  de' raggi  solari  dee  cagionare  nella  latitudine  di  Roma  di 
oim  49  gradi,  noi  troviamo  questo  calore  espresso  dal  numero  159711, 
mentre  il  calore  del  solstizio  estivo  sotto  il' polo  trovasi  espresso  dal 
numero  26988.  Sterà  dunque  il  calore  solstiziale  estivo,  cioè  il  maggior 
caldo  de'poli,  al  calore  solstiziale  estivo,  cioè  al  maggior  caldo  di 
Roma,  prossimamente  come  27  a  i5,  ossia  come  9  a  5;  vale  a  dhre  che 
l'uno  sarà  pressoché  due  volte  maggiore  dell'altro.  Ora  questo  maggior 
caldo  de'poli,  siccome  in  Roma  e  in  tutti  gli  altri  climi,  non  dovrà 
aver  luogo  precisamente  nel  sobtizio  estivo,  ma  circa  un  mese  dopo, 
per  la  ragione  che  un  effetto  prodotto  dall' azione  eontinoate  di  una 
cansa  variabile  divien  nuutimo,  siccome  e'  insegna  la  Geometria,  non 
già  quando  l' azione  della  causa  diviene  massima,  ma  bensì  quando  il 
decremento  proveniente  dalla  diminuzione  della  causa  che  lo  produce. 


1  i6  NOTE  AL  CAUTO  SECONDO 

ai  fa  egnale  all'  incremento  competente  alla  continuazione  dell'  azione 
della  medesima  caosa.  Cosi  reggiamo  la  marea  fiuni  la  più  alta,  non  già 
quando  l' attrazione  Ioni-solare,  che  la  cagiona,  è  la  più  energica,  cioè 
quando  gli  astri  sono  nel  meridiano,  ma  circa  due  o  tre  ore  dopo  ;  .cosi 
il  maggior  caldo  della  giornata  cade  a  we  circa  dopo  mezzogiorno;- e 
cosi  ancora  il  massimo  freddo  non  corrisponde  alla  minima  azione 
de' raggi  solari  de' ai  di  dicembre,  né  il  massimo  caldo  alla  massima 
loro  azione  de' ai  di  giugno,  ma  posticipa  l'uno  e  l'altro  di  circa  un 
mese.  Cadendo  adunque  il  solstizio  estivo  del  polo  antartico  od  invi* 
sibile  ai  ai  dicembre,  il  maggior  caldo  per  esso  sarà  verso  la  fin  di 
gennaio;  e  voi  perciò  potete  a  buon  diritto,  e  secondo  la  pia  rigorosa 
verità  fisica  e  matematica,  chiamarlo  ctUch  in  quell'  epoca,  se  i  calcoli 
del  sig.  de  Mairan  dimostrano  ,  siccome  abbiam  veduto  appunto  che 
dimostrano,  che  doveva  allora  provarvisi  un  caldo  circa  due  volte  più 
intenso  di  quello  che  provasi  in  Roma  nel  colmo  della  state. 

«Né  questo  risultato  de'  raziocini!  e  de'  calcoli  del  signor  de  Mairan 
potrà  parere  inammissibile  a  chiunque ,  non  affatto  ignaro  de*  primi 
rudimenti  della  sfera,  rifletterà  che  in  quell'epoca,  cioè  ai  ai  di  gen- 
naio, eran  già  più  di  quattro  mesi  che  il  polo  australe  godea  di  un 
continuato  giorno  senza  veruna  notte,  e  eh'  eran  circa  due  mesi  che  il 
Sole  senza  veruna  interruzione  lo  saettava  da  una  costante  altezza  di 
più  di  ao  gradi  sopra  l'orizzonte.  Questa  medesima  considerazione 
potrà  ancora  servire  a  render  credibile  un  altro  risultato  della  citata 
tavola  del  sig.  de  Mairan,  che  in  maggior  conferma  del  nostro  assunto 
ci  piace  di  accennare,  vale  a  dire  che  il  calore  solstiziale  estivo  dei 
poli  sia  circa  tre  volte  maggiore  del  maggior  calore  estivo  presso  l'equa- 
tore, cioè  nel  bel  mezzo  della  zona  torrida,  d'onde  voi  ben  vedete 
quanto  maggior  diritto  acquistiate  di  chiamar  caldo  uno  de' poli  nel- 
l'epoca  a  cui  si  riferisce  la  vostra  espressione.  Che  se  i  vostri  rigidi 
censori  vi  permettessero  di  prendere  la  parola  polo  con  qualche  lati- 
tudine, e  di  scostarvi  alcuni  pochi  gradi  dal  medesimo,  voi  trovereste 
nella  citata  tavola  di  Mairan  un  parallelo  posto  al  di  là  del  cerchio 
polare  ai  74  gradi  circa  di  latitudine,  ove  il  maggior  calore  estivo  ci 
ai  esibisce  anche  più  grande  che  sotto  il  polo,  vale  a  dire  quattro 
volte  maggiore  del  maggior  calore  estivo  del  mezzo  della  zona  tor- 
rida; risultato  in  vero  alquanto  paradosso,  e  che  dee  forse  unicamente 
ascriversi  all'  indole  de'  principii  e  delle  ipotesi  che  han  servito  di 
guida  al  sig.  de  Mairan  nelle  sue  supputazioni. 

M  Alquanto  più  miti,  è  vero,  sono  i  risultati  che  ricava  da'  suoi  calcoli 
il  P.  Fontana,  benché  però  sempre  egaalmente  concludenti  pel  caso 
nostro.  L'elegante  formola  ch'egli  dimostra  nella  prima  delle  tre  so* 
▼raccennate  Dissertazioni,  gli  dà  il  modo  di  paragonare  il  calore  diurno 
solare  di  due  luoghi  qualunque  della  terra,  in  qualunque  giorno  ed 
in  qualunque  ora,  ed  egli  ne  fa  l' applicazione  col  cercare  il  rapporto 
tra  il  calore  solstiziale  estivo  e  l' iemale  di  Pavia,  ed  il  calore  solsti- 
ziale estivo  di  Pavia  e  di  Pietroburgo  ;  dando  infine  una  tavola  calco- 
lata dietro  alla  detta  formola,  in  cui  si  esibisce  per  tutte  le  declina- 


BELLA  BASSVILLIÀNÀ  I  I  ^ 

Bioni  del  Sole  di  grado  in  grado  il  calore  diamo  sotto  l'equatore  e 
sotto  i  poli.  Ora  cercando  in  questa  tayola  il  calore  estivo  de'  poli  per 
una  dedinasione  di  ao  gradii  qoal  era  allMncirca  quella  de' ai  gen- 
naio^  noi  troriamo  questo  calore  espresso  dal  numero  ii  4345,  mentre 
quello  dell'  equatore,  cioè  del  bel  mezzo  delhi  zona  torrida^  non  giunge 
mai  a  looooo.  Il  caldo  adunque  del  polo  antartico  ai  ai  di  gennaio 
starà  al  maggior  caldo  del  mezzo  della  zona  torrida  in  maggior  ra- 
gione di  II 4345  a  100000,  cioè  quello  sarà  circa  un  settimo  maggiore» 
di  questo.  In  questa  medesima  tavola  il  maggior  caldo  polare^  cioè 
quello  che  per  le  ragioni  anzidette  deve  provairisi  non  già  nel  sol* 
stizio  estivo,  ma  circa  un  mese  dopo,  trovasi  segnato  col  numero  i364i4> 
eh' è  più  di  un  terzo  maggiore  di  quello  che  nella  medesima .  tavola 
rappresenta  il  maggior  caldo  della  linea  equinoziale. 

»  A  queste  prove,  che  pienamente  e  geometricamente  la  vostra  espres* 
aiqne  di  caldo  poh  giustificano,  se  il  luogo,  lo  permettesse ,  potrei  ora 
aggiungere  molte  osservazioni  fisiche  che  dimostrassero  il  medesimo 
aasnnto  in  grazia  di  quei  che  non  sono  in  grado  di  seguire  i  raziocinii 
ed  i  calcoli  che  han  condotto  agli  accennati  risultati  i  loro  autori,  ed 
in  grazia  anche  di  quei  che  malignamente  potessero  opporre  che  non 
sempre  i  fenomeni  della  natura  vanno  d' accordo  colle  astratte  geome- 
triche speculazioni.  Mi  ristringerò  ad  un  solo  fatto  rilevato  in  prima 
dal  8ig«  de  Réaumur,  e  che  potè  esser  facilmente  avferato  dopo  che 
il  suo  termometro  fu  trasportato  in  tutte  le  quattro  parti  del  mondo 
e  in  tutti  gli  angoli  della  terra.  Le  osservazioni  termometriche  adun- 
que istituite  in  tutta   l'estensione  del  globo  per  il  corso  di  più  di 
mezzo  secolo  han  manifestato  che  mentre  il  freddo,   cioè  il  minimo 
calor  degl'inverni,  differisce  comunemente  da  un  clima  all'altro  tanto 
più  quanto  è  più  diversa  la  loro  latitudine;  il  calor  dell'estate  per  lo 
contrario  è  sensibilmente  eguale  in  tutti  i  climi,  con  una  piccola  varia- 
zione di  uno,  due  0  tre  gradi,  la  quale  d' altronde  trovandosi  egualmente 
ed  indifferentemente  sparsa  in  tutte  le  latitudini,  deesi  perciò  visibil- 
mente attribuire  al  concorso  e  all'  azione  di  circostanze  meramente  lo- 
cali ed  accidentali.  Cosi,  per  esempio,  il  maggior  freddo  de'  climi  me- 
ridionali d'Europa,  e  molto  meno  delle  altre  tre  parti  del  mondo,  di 
rado  giunge  al  zero  della  scala  Reaumuriana;   a  Pietroburgo   scende 
sotto  al  zero  sino  ai  3o  e  più  gradi,  ed  in  Siberia  sino  ai  So  e  ai  5a; 
ed  intanto  il  calor  mezzano  estivo  tanto  nel  cocente  Senegal,  quanto 
nella  ghiacciata  Lapponia  trovasi  egualmente   e   dappertutto  di  circa 
a6  gradi  sopra  il  zero  della  detta  scala. 

w  Questa  portentosa  eguaglianza  di  calore  estivo,  osservata  in  tutti  i 
paesi  conosciuti ,  forma  per  il  signor  de  Mairan  una  dimostrazione 
che  l' azione  de'  raggi  solari  non  è  l' unica  cagione  effettrice  del  calore 
che  in  essi  si  prova,  poiché  in  virtù  di  questa  sola  cagione  il  calore 
estivo  non  dovrebbe  essere  meno  diverso  da  uno  all'altro  clima  di 
cpiello  che  sia  V  iemale  ;  e  noi  abbiam  veduto  difatti  che  il  calore  sol- 
stiziale  estivo  ai  74  gradi  di  latitudine,  attesa  la  sola  azione  de'  raggi 
solari^  si  trovava   dal  signor  de  Mairan   quattro  volte   maggiore   che 


1 18  NOTE  AL  GANTO  SECONDO 

quello  dell'  equatore^  quello  de'  poli  triplo  di  quello  dell'  equatore  ^  e 
doppio  di  quello  di  Roma.  Per  prodarre  quest'osserrata  cgnagliansa 
generale  del  calore  estivo  in  tutti  i  dimi,  si  richiede  una  cagione  ge« 
nerale  in  tutta  la  terra,  la  quale  si  combini  coli' altra  parimente  ge- 
nerale cagione  dell'azione  solare;  ed  il  signor  de  Bfairan,  da  buon 
Cartesiano  qual  egli  è,  la  ritrova  in  nn  fiiociò  centraie,  che  nondimeno, 
per  iscansare  ogni  disputa ,  egli  si  contenta  di  considerare  come  nn 
^oco  intemo,  il  quale  penetra  per  tutte  le  viscere  della  terra,  e  ne 
riscalda  tutta  la  massa.  Un'  altra  pmova,  o,  com'  egli  la  chiama,  dimo- 
strazione dell'esistenza  di  questo  fuoco  intemo  o  centrale,  la  ravvisa 
il  signor  de  Mairan  nell'enorme  diversità  che  si  discopre  tra  il  rap« 
porto  del  calore  estivo  e  dell'iemale,  ricavato  dal  calcolo  dell'azione 
de'  raggi  solari ,  e  quello  che  si  deduce  dalle  termometriche  osserva* 
zioni.  Sono  da  vedersi  nella  terza  sua  memoria  del  1765  i  sagaci  ra- 
ziocinii  coi  quali  egli  si  fa  a  provare:  1.  che  l'ascensione  del  mereorìo 
nel  termometro  è  proporzionale  al  calore  che  la  produce;  a.  che  il 
%gro,  o  il  primo  infinitesimo  grado  di  calore,  debba  computarsi  looo 
gradi  sotto  il  zero  segnato  nella  scala  Reaumnriana  ;  cosicché  se  qoe» 
sta  segna  a6  gradi  sopra  il  zero,  debban  veramente  contarsi  ioa6  gradi 
di  calore;  e  se  ne  segna  6  al  di  sotto,  se  ne  debban  veramente  con- 
tare 994*  Egli  dimostra  il  primo  di  questi  due  principi!  per  mezzo  di 
alcune  sue  esperienze,  nelle  quali,  avendo  esposto  un  termometro  al- 
l'azione della  luce  riflessa  da  nn  diverso  numero  di  specchi  eguali  in 
superficie,  osservò  che  l'ascensione  del  mercurio  era  sensibilmente 
proporzionale  al  numero  degli  specchi  ch'egli  adoperava.  Stabilisce 
poi  il  secondo  principio,  cioè  che  il  primo  ed  infinitesimo  grado  di 
calore  debba  fissarsi  al  1000  sotto  il  zero  della  graduazione  di  Réaumur» 
servendosi  delle  ingegnose  ed  originali  scoperte  annunciate  dal  si- 
gnor Braun  nella  sua  Memoria  De  admirando  /rigore  arlificialù  Egli  è 
noto  che  questo  valente  fisico ,  stando  il  freddo  naturale  a  Pietroburgo, 
ov'  egli  istituiva  le  sue  esperienze ,  ai  gradi  3i  sotto  il  zero^  potè  per 
mezzo  di  un  freddo  artificialmente  prodotto  fissare  e  render  solido  il 
mercurio  ai  gradi  1 70  del  termometro  di  Reaumur,  e  quindi,  rendendo 
il  freddo  sempre  più  intenso,  farlo  discendere  sino  ai  gradi  Sga.  Di- 
mostrò poi  il  medesimo  signor  Braun  che  il  freddo  artificiale  è  pros- 
simamente proporzionale  al  freddo  naturale  che  regna  nel  luogo  del* 
l' esperimento;  cosicché  giungendo  alcune  volte  questo  freddo  natorale 
in  Siberia  sino  ai  gradi  53,  se  quivi  si  fosse  fatta  V  esperienza,  il  fineddo 
artificiale  avrebbe  fatto  abbassare  il  mercurio  sotto  il  1000.  Ora  pre- 
supposti questi  principii,  siccome  il  termometro  nel  maggior  caldo  non 
sale  comunemente  a  Parigi  oltre  ai  a6  gradi,  né  discende  nel  maggior 
freddo  sotto  ai  6,  quindi  ne  deduce  il  signor  de  lAairan  che  il  calore 
estivo  di  Parigi  stia  al  calof  iemale  come  1026  a  9^4  9  cosicché  il  primo 
superi  il  secondo  appena  di  un  trentaduesimo.  Questo  adunque  è  il 
rapporto  tra  il  calore  estivo  e  il  calore  iemale  di  Parigi  che  il  signor 
de  Mairan  deduce  dalle  osservazioni  termometriche,  mentre  qnello  che 
gli  dà  il  calcolo  dell'  azione  de'  raggi  solari  e  circa  5oo  volte  maggiore^ 


DELLA  BASSVILLIÀMA  I  I Q 

cioè  eguale  a  qaello  di  16  e  oitantadae  centesimi  ad  uno.  Or  d*oà 
piendroù^  duf  egli ,  une  si  prodigietut  d(fférencé  entra  ces  deux  rap- 
porte,  n  ee  n'eet  de  ce  feu  intérieur  quelconque  qui  agit  sane  cesse  uers 
la  eurfiiee  de  la  terre  en  èie  et  en  hiver,  et  dans  tous  les  climtOSy  ab' 
straction  /aite  dee  uariadons  que  les  circonstances  locales  et  accidentelles 
peupentx  ^q^porter? 

M  Checché  ne  sia  però  di  questo  fuoco  in  temo  ^  o  centrale  a  col  quale 
il  signor  de  Mairan  rìduoe  all' eguaglianza  il  calore  estivo  di  tutta  la 
anperficie  del  globo,  noi  non  abbiamo  bisogno  di  molto  imbarazzarcene» 
attenendoci  al  puro  fatto  deir  eguaglianza  medesima ,  dimostrata  dal 
consenso  d' infinite  osservazioni  che  dall'  equatore  si  estendono  alle 
più  inoltrate  latitudini  tanto  boreali  che  meridionali.  Che  se  ci  man- 
cano le  osservazioni  termometriche  pei  poli,  e  per  le  regioni  ad  essi 
pitt  vicine,  noi  abbiamo  invece  le  relazioni  e  i  giornali  di  quegP  intre- 
pidi navigatori  i  quali,  cercando  un  passaggio  all'Indie  orientali  pei 
mari  del  Nord,  ed  essendosi  a  quest'  oggetto  avanzati  sino  ai  75, 80,  8a 
ed  anche  83  gradi  di  latitudine,  ritrovarono  che  a  misura  che  più  si 
•ocostavano  al  polo,  il  mare  diveniva  sempre  più  aperto  e  profondo, 
€  che  in  esso,  libero  affatto  da  ghiacci,  vi  si  respirava  un'aria  piutto- 
sto dolce  e  calda  ohe  temperata.  (Vedi  Prevòt^  Recueil  des  Voya^es 
ott  Nord),  Celle  mer  ouuerte  et  libre  des  glaces,  riflette  qui  molto  a 
proposito  il  signor  de  Mairan ,  ce  tempa  plus  doux  que  tempere^  qu*  on 
treuve  autour  du  pole  arctique,  n'est  donc  qu'une  suite  de  la  Ipi  gétié' 
ralej  et  il  est  ainsi  plus  que  probable  que  les  deux  zones  polaires  jouis- 
sent  du  ménte  été  que  les  autres  zones,  abstractionjaite  des  causes  par' 
ticulières  et  locales, 

»  Epiloghiamo  dunque  le  nostre  idee ,  e  raccogliamone  il  frutto  che 
ci  siamo  proposto.  Tolto  ai  polì  il  freddo  perpetuo,  e  sostituito  il  caldo 
alternativo  per  buona  parte  dell'anno,  resta  evidentemente  provata  la 
proprietà  dell'espressione  di  Lucano,  polus  adversi  calidus  qua  mergi» 
tur  austri.  Poiché,  sebbene  questo  stato  di  caldo,  secondo  le  nostre 
dimostrazioni,  egualmente  in  dati  tempi  convenga  anche  al  polo  set- 
tentrionale; nuUadimeno  avendo  riguardo  alle  nostre  sensazioni,  le 
quali  ci  avvertono  dei  venti  infocati  che  costantemente  spirano  dalla 
regione  antartica,  e  dell'aria  ghiacciata  che  all'opposto  ci  viene  dal- 
l'artica, nasce  da  sé  medesimo  il  diritto  di  chiamar  caldo  {1  primo  e 
freddo  il  secondo  per  fissare  un  termine  di  poetica  distinzione  tra 
l'uno  e  l'altro.  Cosi  e** insegnano  a  parlare  le  impressioni  che  rice- 
viamo dair  atmosfera,  per  cui  appunto  gli  antichi,  così  dilìgenti  nella 
nomenclatura  delle  cose,  appellarono  australe  (  che  in  buon  greco  vuol 
dir  ccUdo  )  (*)  il  polo  meridionale,  e  cosi  porta  il  dover  del  poeta  che 

(*)  Che  un  critioo  ignorante  di  lingua  greca  non  ti  accorga  A*  avvilupparsi  nella  propria 
sna  oensura  condannando  \*  appellativo  di  eafdo  e  ammettendo  quello  A* australe,  che  vuol 
dire  k»  stesso,  paaienaa.  Ma  che  non  se  n'  avvegga  1*  acutissimo  ScapuUno ,  che  ha  copiata 
in  hellissimo  carattere  una  biblioteca  intera  di  greco,  questa  e  pure  la  gran  vei^(^a.  Ecco 
nn' altra  delle  seicento  prove  eh*  egli  non  conosce  altro  greco  che  quello  delle  bottiglie. 
Queste  note  non  è  nostra,  ma  di  Vossio  e  d'Enrico' Stefano. 


120  NOTE    AL    CANTO    SECONDO  DELLA   BASSVILLIANA 

segue  sempre  il  criterio  del  senso^  non  quello  della  ragione»  ed  enan* 
eia  popolarmente  le  verità  astratte  senta  risalire  alla  radice  delle  me« 
desime,  per  non  confondere  le  operazioni  dell'immaginarione  con  qadle 
dell'  intelletto,  e  trasformare  ciecamente  la  pittrice  poesia  nella  calco* 
latrice  filosofia.  Sa  questo  principio  sono  fondate  quelle  forme  di  dire: 
I  lidi/iiggono,  il  sole  si  u^ffà  nel  mare,  le  stelle  cadono,  siccome  disse 
Virgilio  parlando  de' notturni  fbochi  atmosferici,  e  mill' altre  di  tal 
natura  in  fisica  falsissime,  e  in  poesia  Terissime  e  nobilissime. 

»  Assoluto  Lucano  in  vigore  di  ragion  poetica,  a  più  buon  dritto  lo 
dovete  esser  voi  che,  oltre  la  poetica,  avete  in  difesa  vostra,  siccome 
abbiam  veduto,  la  ragion  matematica.  Della  quale  se  per  avventura 
foste  stato  non  consapevole  nel  momento  di  scrivere,  avreste  col  fatto 
verificato  F  ispirazione  fiitidica  da  cui  Platone  fa  procedere  il  sacro 
linguaggio  de'  poeti,  i  quali  non  per  altro  vien  detto  ehe  sono  pieni 
d' un  Dio  che  li  riscalda,  se  non  perchè  parlano  la  parola  della  nata- 
ra,  che  detta  e  che  mai  non  mentisce. 

99  Ma  il  piacere  di  trattenermi  con  voi  non  mi  fa  accorgere  che  io 
posso  forse  distrarvi  dal  lavoro  della  vostra  sublime  Cantica,  il  prose» 
guimento  della  quale,  incoraggito  da  dieci  edizioni  che  finora  in  ter- 
mine di  tre  mesi  ne  sono  comparse,  confonderìi  i  vostri  nemici  assai 
meglio  che  non  potrà  fare  il  mio  geometrico  fisico  cicaleccio.  Riguar» 
datelo,  vi  prego,  dalla  parte  del  motivo  che  V  ha  dettato,  vale  a  dire 
dal  desiderio  di  darvi  un  nuovo  attestato  dell'alta  stima  e  della  sin- 
cera amicizia  con  cui  mi  confermo,  ec.» 

Pag.  47* 

46  Ariosto  in  una  delle  sue  più  belle  similitudini: 

Ad  ogni  sterpo  che  passando  tocca. 
Esser  si  crede  all'enfia  fera  in  bocca. 

Ivi. 

47  Imita  qui  pure  l'Ariosto,  ove  dice  di  Ruggiero: 

Uno  il  salata,  on  altro  se  gl'indiina^ 
Altri  la  mano,  altri  gli  bacia  il  piede. 

Ivi. 

48  Voci  di  animo  perturbato,  ad  imitazione  di  quel  celebre  passo 
di  Virgilio:  Me  me  adsum  qui  feci,  in  me  convertite  ferrum,  ec,  che  La 
Gerda  pretende  preso  da  Euripide,  quando  Ecuba  vede  condotta  al 
sagrificio  Polissena  sua  figlia. 


N 


lai 


NOTE  AL  CANTO  TERZO 


Pao.  4^. 

I  QaesU  tacrt  allegoria  uscita  la  prima  Tolta*  dalla  booea  del  mo- 
nbondo  Giacobbe ,  quando  profetò  le  fatare  vicende  de'  saoi  dodici 
6glt^  applicata  poscia  a  G.  C.  e  alla  Chiesa^  non  deve  aver  bisogno  di 
apiegasiooe.  Entra  qai  il  poeta  nelle  lodi  del  sommo  Ponte6ce  consi- 
derato come  Prìncipe  e  come  Pastore,  e  adombrando  con  veli  allego- 
rici le  sue  ottime  e  coraggiose  provridenze  per  la  salate  dello  Stato 
non  meno  cbe  della  Religione  >  ricorre  opportunamente  ti  misterioso 
atile  de*  libri  bpirati.  Chionque  sia  alcun  poco  versato  nella  lettura 
de'  medesimi  potrà  '  ftcilmente  ravvisarne  qaa  e  là  sparse  le  immagini, 
e  le  arcane  forme  di  dire,  di  quel  dire;  cbe  principalmente  conviene 
a  Lai,  cbe  po$uà  Unebroi  laiibìdum  suum^  e  al  sao  sapremo  Rappre- 
•entante,  del  quale  temeremmo  di  avvilire,  parlando,  la  grandezza  e  la 
maestà.  Poniamo  perciò  questa  nota  in  luogo  di  molte,  cbe  cadereb- 
bero  in  acconcio  nel  decorso  di  questo  canto^  e  cbe  il  lettore  supplirà 
meglio  da  sé. 

Ivi. 

*  Verso  derivato  da  questi  due  di  Dante: 

Cà'ella  mi  h  tremar  U  Tene  e  i  polsi  >  ec. 
RiTeiento  mi  6  le  gambe  e  il  ciglio.  (*) 

Pào.  5o* 

3  Stando  gli  Amaleciti  ed  i  Madianiti  accampati  nella  valle  di  Jez- 
rael.  Iddio  comandò  a  Gedeone  di  scegliere  al  fonte  di  Arad  trecento 
guerrieri  d'Israele,  i  quali  di  nottetempo,  suonando  le  trombe  e  gri- 
dando :  La  spada  del  Signore  e  di  Gedeone,  sparsero  lo  scompìglio  nel 
campo  numeroso  di  que'  nemici  del  nome  Israelita,  e  li  misero  in  fuga. 
Le  circostanze  di  questo  fatto  vedile  nel  capo  VII  del  libro  de'  Giudici. 

Ivi. 

4  Si  é  già  detto  nelle  postille  al  Canto  I  cbe  l'armata  francese  era 
stata  dispersa  al  principiare  dell'anno  1793  sulle  coste  della  Sardegna 
da  fierissime  tempeste.  Ora  è  da  aggiungere  cbe  le  soldatesche,  le  quali 
la  componevano,  erano  parte  di  quelle  cbe  stanziavano  nella  Contea 
di  Nizza.  Perciò  il  poeta  cbiama  antenne  del  Varo  le  navi  mandate 
al  conquisto  della  Sardegna.  Tutti  sanno  cbe  il  Varo  scorre  nelle  vi- 
cinanze di  Nizza. 

Pao.  5i. 
s  Vedi  le  Notizie  Storiche  premesse  a  queste  Note. 

O  Qui  flniacooo  k  Note  deU*Autore.  L'EMtor^ 


1  2QL  NOTE  AL  CA5T0  TERZO 

Pag.  5i. 

6  Fq  stampato  nella  narrazione  pubblicata  in  Roma  nel  giorno  i6  gen- 
naio 1793»  cbe  Bassville  vicino  a  morte  dicbiarò,  prima  di  ricerere  i 
Mgramenti  della  cbiesa:  Di  ritrattare  i  giuramenti  da  sé  fatti,  e  di 
detestare  ogni  atto  contrario  alla  religione  cattolica  nel  quale  fosse 
caduto.  È  detto  nella  medesima,  cbe  i  sentimenti  co^ quali  esso  andò 
incontro  al  suo  fine,  furono  tutti  di  edificazione,  di  rassegnazione  e 
di  pietà ,  e  cbe  solo  fu  udito  lagnarsi  di  morire  vittima  di  un  pazzo. 
Pel  quale  intenderà  un  certo  ia  Fiotta  che,  volendo  ad  ogni  costo  far 
inxialzare  in  Roma  le  armi  della  Repubblica  francese ,  e  comparire  ia 
pubblico  colle  nuove  insegne  della  sua  Nazione,  suscitò  il  tumulto 
popolare  nel  quale  peri  Bassville. 

Pao.  Sa. 

7  Le  due  zie  di  Lnigi  XVI  erano  rifuggite  a  Roma  sino  dal  princi- 
pio dell'anno  1791. 

Pag.  53. 
*  È  nolo  per  le  sacre  carte  che  essendo  stato  Israele  assalito  dagli 
Amalectti,  Mosè  comandò  a  Giosuè  di  uscire  contro  di  essi  a  battaglia, 
e  ch'egli,  presa  la  sua  verga,  sali  sull'Oreb  accompagnato  da  Aronne 
e  da  Hur.  Quivi  tenendo  le  mani  alzate  al  cielo ,  faceva  si  che  gli 
Israeliti  vincevano,  ma  s' ei  le  abbassava,  superavanli  quei  di  Amalec- 
co  :  e  fu  d' uopo ,  poich'  egli  stancavasi ,  che  Aronne  ed  Hur  lo  faces- 
sero sedere  su  d' una  pietra ,  e ,  sostenendogli  le  braccia  fino  al  tra» 
monto  del  sole,  ottenessero  alle  armi  di  Giosuè  per  tal  modo  una 
compiuta  vittoria.  —  Esodo,  cap.  XVII.  —  Sotto  il  nome  di  imporpo» 
rati  Ararmi  e  Cafebidi  più  avanti  s' intendono  i  Cardinali,  de'  quali  sono 
immagine  Aronne  ed  Hur  figlio  di  Caleb. 

Pag.  55. 

9  Si  è  già  detto  nelle  Note  al  Canto  precedente,  che  nelle  vicinanze 
di  Marsiglia  eravi  un  bosco  entro  cui  i  Druidi  celebravano  i  loro  mi- 
steri lordi  d'umano  sangue. 

Pag.  56. 

10  Non  è  d'uopo  di  dire  che  questo  è  lo  spettro  di  Voltaire. 

Ivi. 
s>  Elvezio.  Ne' suoi  Discorsi  De  VEsprà  si  attribuiscono  alla  materia 
le  operazioni  dell'  anima,  e  si  vuol  mostrare  che  gli  uomini  non  sono 
retti  che  dalla  uoluuà  e  dall' infsresfe. 

Ivi. 
I»  Ognuno  qui  ravvisa  Giangiacomo  Rousseau.  Le  sue  lettere  di 
Giulia,  nelle  quali  l'amore  parla  veramente  un  linguaggio  di  fuoco, 
non  sono  meno  celebri  del  Contratto  sociaU^  deW Emilio,  ec.  Se  ne 
va  S0I9  anche  perchè  egli  non  entrò  propriamente  nella  lega  dei  cosi 
detti  Enciclopedisti,  con  alcuni  de' quali  ebbe  anzi  fierissima  guerra* 

Ivi. 
>3  D'Alembert,  insigne  matematico,  promotore  e  compilatore  insieme 
con  Diderot  dell* Enciclopedia   o  Dizionario  ragionato  delle  Scienze, 
delle  Arti  e  de'  Mestieri, 


DEIXA  BÀSSVIIXIÀIIÀ  Ia3 

Pao  56. 

■4  Raynalj  autore  déiVHùtoire  philoaophique  et  potiiique  de»  étahlùse^ 
meni  et  du  commerce  des  Europeens  dan$  le$  deus  Indes^  nella  quale  ad 
ogni  passo  s'incontrano  declamazioni  contro  i  principi  ed  il  sacerdozio. 

Pag.  57. 

•S  Pietro  Bayle 9  autore  del  libro  intitolato:  Pensée»  dit>erses^  icrites 
à  un  docteur  de  Sorbonne  à  foccation  de  la  Comète  qui  parvi  au  moie 
de  dècemhre  i68o>  e  del  Dictionnaire  hùtorique  et  crùique.  Il  costui 
pirronismo  é  sostenuto  da  un  immenso  corredo  di  erudizione,  ed  a 
questa  fonte  beyette  largamente  la  maggior  parte  àtìfiloaefi  del  se- 
oolo  XVIII,  che  non  erano  tutti  certamente  dotti  al  pari  di  lui. 

Ivi. 

•*  Lo  studio  delle  opere  di  Bayle  produsse  VExamen  de»  tipologùte» 
de  la  reUgion  dirétienne  e  la  Lettera  di  TViuiòuìo  a  Leucippe  attribuite 
«ir  Accademico  Niccola  Freret,  e  stampate  dopo  la  sua  morte.  Di  lui 
qui  parla  il  poeta.  Il  signor  Raoul  Rochette  nella  Biographie  MtniveraeUe 
ancienne  et  moderne  si  è  studiato  di  Tcndicare  la  memoria  di  quel 
dotto  uomo  dall'oltraggiosa  supposizione  ch'egli  abbia  dettate  si  em- 
pie scritture. 

Pào.  58. 

17  Giambattista  Mirabaud.  Fu  questi  un  modesto  letterato,  e  tradusse 
in  prosa  francese  la  Gerusalemme  liberata.  Dopo  la  sua  morte  venne 
in  luce  col  nome  di  lui  il  Sjrtiéme  de  la  Nature^  ou  de»  loix  du  monde 
physique  et  du  monde  mora!.  V  opera  da  molti  venne  attribuita  a  Di- 
derot, ma  era  propriamente  lavoro  del  barone  d'Holbach  (V.  le  Me- 
morie dell'ab.  Morellet^  sec.  ediz.  t.  I,  pag.  i38);  e  per  ispacciarla 
più  sicuramente  le  si  pose  in  fronte  il  nome  di  un  morto,  e  si  disse 
ch'ei  l'aveva  lasciata  come  il  proprio  Testamento,  L'autore  nega  aper- 
tamente l'esistenza  di  Dio;  spingendo  l'atrocità  fino  a  provocarne, 
come  qui  dice  il  poeta,  la  folgore  tuprema. 

Ivi. 

«<  Cioè  il  sale  di  Luciano,  notissimo  autore  di  molG  dialoghi  e  di 
altre  opere  scritte  in  greco ,  il  quale  nacque  in  Samosata  città  della 
Siria  sul  cominciamento  dell'impero  di  Adriano.  —  Voltaire  suole 
chiamarsi  Luciana  moderno  per  lo  stile  festivo  ed  arguto;  e  cosi  a  vi- 
cenda Luciano  vien  detto  il  f^oltaire  dell' antichità j  perche  non  meno 
di  quel  di  Ferney  fu  scrittore  leggiadro,  ed  al  pari  di  lui  burlasi  nelle 
sue  opere  della  religione  e  della  morale. 


1^4 


NOTE  AL  CANTO  QUARTO 


Pào.  59. 
■  Baynal  Tirerà  afncon  quando  scoppiò  la  Rtrolazione;  e  convinto 
che  le  massime  da  Ini  troppo  liberamente  inculcate  rinscÌTano  fatati 
alla  sua  patria,  le  ritrattò  in  uno  scritto,  che  mandò  ai  Rappresentanti 
della  Francia,  prima  delia  morte  di  Luigi  XVI.  La  sua  ritrattazione 
(n  però  ben  lungi  dal  produrre  l'effetto  che  prodotto  averano  le  sue 
opere;  anzi  Raynal  conTcrtito  fu  a  que'  tempi  riguardato  siccome  ìu\ 
vecchio  delirante. 

Pag.  60. 
»  L'Angelo  che  in  una  notte  esterminò  tutti  i  primogeniti  dell'Egitto, 
acciocché  Faraone  si  risoWesse  di    lasciar  partire   gli   Ebrei ,  a'  quali 
Iddio  aveva  ordinato  di  tingere  col  sangue  dell'agnello  le  porte  delle 
;<'>ro  case  per  distinguerie  da  quelle  degli  Egiziani. 

Pag.  61. 

3  Sennacheribbo  re  degli  Assirii  accampava  contro  Ezechia  re  di 
Giuda,  alloraquando  un  Angelo  gli  mise  a  morte  in  una  notte  cento 
ottanta  cinque  mila  nomini,  e  lo  costrinse  a  ritirarsi  in  Ninive. 

Ivi. 

4  u  Misit ....  Angelum  in  Jemsalem  ut  percuteret  eam  ....  Le- 
vansque  David  ocolos  snos,  vidit  Angelopi  Domini  stanlem  inter  oce- 
lum  et  fterram ,  et  evaginatum  gladium  in  manu  ejns  et  versum  contra 
Jerusalem  ».  —  ParaUpomenon ,  lib.  I,  cap.  XXL 

Ivi. 
s  Racconta  Ezechiele,  nel  capo  IX  della  sua  Profezia,  che  gli  oom* 
parvero  dalla  parte  dell'  Aquilone  sei  Angeli ,  ognuno  de*  quali  aveva 
nelle  mani  uno  strumento  di  morte.  In  mezzo  ad  essi  stava  un  altro 
Angelo  che  aveva  appeso  a'  fianchi  un  calamaio  da  scrivere  ;  a  questo 
disse  il  Signore  che  andasse  per  mezzo  a  Gerusalemme,  e  segnasse 
un  Tau  sulle  fronti  di  coloro  che  erano  afflitti  per  le  abbominazioni 
della  città;  comandò  poscia  agli  altri  sei  che  esterminassero  quante 
persone  vedevano  non  avere  sopra  di  sé  il  Tau^  incominciando  dal 
santuario. 

Ivi. 
<*  Vogesus  saltila  era  detta  dai  Latini  quella  catena  di  monti  che 
separano  la  Franca  Contea  e  l' Alsazia  dalla  Lorena,  e  che  ora  appel- 
lansi  f^osges.  —  Di  Gebenna  si  è  già  parlato  nelle  Note  al  Canto  I. 
—  Ai  monti  Pù'enei  il  poeta  dà  l' aggiunto  di  Bebricio^  perche  il  loro 
nome  vuoisi  derivato  da  Pirene  figlia  di  Bebricc,  la  quale  ebbe  in 
essi  la  tomba  dopo  di  essere  stata  violata  da  Ercole   e  straziata  dalle 


HOTB  AL  CANTO  QUARTO   DBLLA  BASSVILUANA  I  aS 

fiere.  Un  tal  fatto  vedilo  narrato  da  Silio  Italico  nel  libro  III  della 
Guerra  Punica.  —  Ardenna,  detta  dai  Latini  Arduenna^  è  una  selva 
che  comincia  alla  ettremità  dei  Vosges  ed  occupa  un  grande  spazio 
della  Sciampagna.  Ai  tempi  di  Cesare  (giusta  il  testimonio  di  lui)  sten- 
devast  per  cinquecento  e  più  miglia  di  terreno. 

Pao.  63. 

7  Nella  prima  di  queste  due  Donne  il  poeta  simboleggia  la  Fede  9 
nell'altra  la  Carità. 

Ivi. 

*  La  foga  di  Luigi  XVI  a  Varennes  tentata  nella  notte  del  ai  giu- 
gno 1791*  È  noto  ch'egli  e  la  sua  famiglia  furono  riconosciuti  a  Sainte- 
Menehould,  inseguiti  e  ricondotti  a  Parigi  nel  giorno  25  dello  stesso 
mese. 

Pao.  6S. 

9  Nella  giornata  del  6  di  ottobre  1789  una  torma  di  scellerati^  uo- 
mini e  donne,  venuti  a  Versailles,  entrarono  nel  castello  reale,  e. 
Decise  le  guardie,  s'introdussero  per  una  scaletta  nella  stanza  in  coi 
poc'anzi  dormiva  la  regina,  e  trovato  il  letto  ancor  tiepido,  ma  non 
lei  che^  air  udire  l'orrendo  trambusto,  erasi  occultamente  sottratta, 
quello  per  atroce  rabbia  trapassarono  con  più  colpi  di  pugnale  o  di 
lancia.  £  fu  buona  sorte  che  i  ribaldi  non  conoscessero  l'adito  alla 
stanza  del  re,  dove  la  regina  erasi  rifuggita. 

Ivi. 

•o  La  giornata  del  10  agosto  1793,  nella  quale  si  segnalarono  per 
la  loro  fedeltà,  di  cui  tutti  rimasero  vittima,  i  pochi  Svizzeri  che  erano 
a  guardia  «delle  TuiUries,  combattendo  contro  alle  migliaia  di  furibondi 
venuti  ad  3ssaltare  quella  regia  abitazione. 

Pag.  64. 

■  <  La  chiesa  del  Carmine  in  Parigi  era  stata  convertita  in  una  pri* 
gione  per  rinchiudervi  i  vescovi  ed  i  sacerdoti  che  avevano  rifiutato 
di  prestare  giuramento  alla  Costituzione.  La  maggior  parte  di  essi  fu 
trucidata  nel  giardino  annesso  alla  chiesa  dagli  emissarii  di  coloro  che 
reggevano  il  Municipio  di  Parigi,  nel  giorno  3  di  settembre  1793. 

Pao.  65. 

■»  11  poeta  in  queste  due  terzine  pose  in  versi  alcune  sentenze  del 
Testamento  di  Luigi  XVI. 

Pag.  66. 

■3  Bfarat,  membro  della  Convenzione  e  del  Comitato  di  Salute  pub» 
blica.  Maria  Carlotta  Corday  lo  uccise  con  un  colpo  di  pugnale,  men- 
tre stava  in  un  bagno,  nel  giorno  i3  giugno  1793*  Questa  donzella  si 
mosse  a  bella  posta  da  Caen,  ov'  ella  soggiornava,  venne  a  Parigi,  trovò 
il  modo  di  presentarsi  a  lui,  che  per  grave  malattia  non  poteva  uscire 
di  casa ,  e  dopo  qualche  discorso  gli  immerse  il  ferro  nel  seno.  Con- 
dannata a  morte,  incontrolla  con  molta  fermezza,  piena  del  pensiero 
di  avere  liberata  la  Francia  da  un  mostro  assetato  di  sangue. 

Ivi. 

*i  Robespierre,  dopo  aver  fatta  tremare  del  suo  nome  la  Francia, 


ia6  HOTB  AL  CASTO  QUARTO  DELLA   BASSYILLIAHA 

accusato  di  affettare  la  Dittatura,  Temie  dalla  CooTensione  dichiarato 
fuori  della  Ugge  in  uno  co'  wtoi  partigiani;  indi  fu  preso  e  mandato  a 
perdere  la  testa  sotto  quella  scure  medesima  che  per  lui  aveva  mietute 
tante  vite  delle  più  illustri  ed  incolpabili  della  nazione.  Questa  parve 
colla  sua  morte  respirare  alquanto  dagli  atroci  mali  che  avea  sofferti 
la  tirannide  di  lui. 

Pao.  68. 

>S  L'Aquila  è  l'arme  delle  tre  grandi  monarchie  del  Nord,  Anstrìis 
Russia  e  Prussia. 

Ivi. 

16  L'arme  dell'Inghilterra  è  un  Leone ,  quella  dell' Elettorato ,  ora 
regno  di  Hannover  «  è,  un  Cavallo.  Il  poeta  chiama  ./Tvismo  il  ruggfto 
del  Leone  d'Inghilterra  rispetto  al  Cavallo  di  Hannover,  perchè  am- 
bedue questi  Stati  appartengono  alla  casa  di  Brunswick. 

Ivi.  • 

>7  Nella  battaglia  che  avvenne  il  giorno  19  di  novembre  dell' an* 
no  1734  *  Guastalla,  i  Francesi,  In  quell'anno  medesimo  già  più  volte 
sconfitti  dagli  Austriaci,  sarebbero  stati  messi  nuovamente  in  rotta  se 
non  accorreva  sul  bel  principio  colla  sua  cavalleria  il  re  di  Sardegna 
Cario  Emmanuele, che  sostenne  l'asione  e  rintuzzò  l'impeto  dell'ini- 
mico. —  Nel  1747  il<  Cavaliere  di  Belle-isle,  fratello  del  maresciallo 
di  questo  nome,  volendo  segnalare  con  qualche  grande  impresa,  tentò 
di  penetrare  in  Italia  per  le  Alpi  dalla  parte  di  Susa.  Ma  giunto  al 
passo  dell' Assietta,  si  incontrò  ne' Piemontesi  che  lo  attendevano,  difesi 
da  altissime  e  ben  munite  trincee.  La  pugna  fu  micidiale  e  disperata; 
i  Piemontesi,  quantunque  minori  di  numero,  avevano  il  vantaggio  del 
luogo ,  e  per  ben  due  ore  fecero  macello  de'  Francesi  a'  quali  sopra* 
stavano.  Il  Cavaliere  di  Belle-isle  diede  non  ordinarie  prove  di  valore, 
e  finalmente  ricevette  l'ultimo  colpo,  gloriosa  magii  morte  occumòens 
(dice  negli  aurei  suoi  Commentarli  Castruocio  Bonamici),  quam  qum 
prudenttm  deceret  ducem. 

Pa6.  70. 

<8  Ninno  ignora  gli  avvenimenti  che  con  tanta  rapidità  si  succedete 
tero  gli  uni  agli  altri  negli  ultimi  anni  del  secolo  XVIII,  e  mutarono 
quasi  interamente  le  relazioni  politiche  dell'Europa.  Per  questi  il  poeta 
dovette  interrompere  il  suo  componimento,  il  quale  avrebbe  dovuto 
chiudersi  coli' ingresso  di  Bassville  nella  Gloria.  Nondimeno  i  quattro 
Canti  di  questa  altissima  poesia  hanno  già  bastante  consistenza  per 
se,  e  certamente  assai  maggiore  di  quella  delle  Stanze  del  Poliziano, 
che  cosi  imperfette  vengono  tenute  per  uno  de'  più  eleganti  poemi 
italianL 


LÀ 


MUSOGONIA 


AFFERTIMENTO 


PREMÉSSO     ALL    EDIZIONE     DEL     I797< 


(Venezia,  pel  Curii j  in  8.®) 


Pochi  versi  tt  Esiodo ,  che  ognuno  può  riscontrare  sui 
bel  principio  della  sua  Teogonia  ^  formano  tutto  il  fonda'^ 
mento  di  questo  tenue  poemetto.  Die* egli  che  Giove  trasfoT' 
moto  in  pastore  si  giacque  nove  notti  continue  con  Mnemo^ 
stncy  che  lo  fé  padre  delle  Muse^  le  quaU  appena  nate  sa* 
Urano  in  cielo ,  ed  ivi  accolte  con  festa  cantarono  t  origine 
delle  cose  y  e  le  imprese  degU  Dei  contro  i  Titani.  Nel  se^ 
guxr  questa  traccia  non  ho  voluto  dipartirmi  punto  dalla 
genesi  et  Esiodo  ,  la  quale ^  a  dir  verOy  non  è  molto  degna 
del  nostro  secolo ,  ma  che  pormi  si  presti  più  d'ogni  altra 
al  maraviglioso  poetico  ;  e  pormi  ancora  che  sarebbe  da  re- 
putarsi  soverchia  temerità  il  rovesciare  V  antica  mitologia  , 
consacrata  da  tanto  tempo  in  Parnaso  y  per  sostituirvi  le 
stravagante  moderne. 

Era  mia  mente y  allorché  intrapresi  questo  lavoro,  di  di' 
latarlo  in  due  Canti,  nel  secondo  de*  quali  mi  proponeva  di 
ricondurre  in  terra  le  Muse  a  beneficare  il  genere  umanoy 
traendo  gli  uomini  {lolla  vita  selvaggia ,  congregandoli  in 
società  j  e  insegnando  loro  la  virtù ,  la  giustixia ,  e  tutte  le 
arti  e  tutte  le  scienxe;  le  quali  cose  furono  dagli  antichi  s(u 
pienti  adombrate  nella  faivolosa  predicaxjione  d^  Orfeo ,  e  di 
quegli  altri  poeti  che  furono  i  primi  istitutori  della  morale. 
Intervenivano  esse,  secondo  il  mio  piano,  alla  celebre  scuola 
di  Chùroney  vi  educavano  gli  Argonauti,  e  tutti  quei  più  fa-- 
mesi  che  poi  passarono  alC  assedio  di  Tebe  e  di  Troia  j  an^ 
davano  a  conversar  con  Omero  nell'isola  di  Chio,  e  a  det' 
largii  f  Iliade  e  t  Odissea j  scorrevano  per  la  Grecia,  cele* 
brando  i  bravi  atleti  di  Elide,  cantando  inni  di  Ubertà  dap^ 

MoHTi.  Poemetti,  o 


i3o 

pertuUOf  e  ispirando  sulle  scene  l'amor  della  patria  e  l'o^ 
dio  contro  i  tiranni.  Dalla  Grecia  facevano  quindi  passag» 
gio  in  ItaUoy  seguendo  tarmi  del  vincitore  romano ,  ite  ad- 
dolciano i  feroci  costumi  ^  e  riprendevano  il  maestoso  loro 
àbito  per  le  mani  di  Virgilio  e  dt  Oraxjùo,  Bivestite  di  lutto 
alla  morte  di  Mecenate,  erravano  disperse  qua  e  là  per 
t Italia  f  senxa  onori  e  senxa  tetto  sicuro  j  si  nascondevano  a 
tutti  gli  occhi  mortali  alt  arrivo  dei  FandaUj  e  dopo  ir^ 
nite  vicende,  rilavandosi  fra  i  Bardi,  e  t^ffàcciandosi  fuggitive 
da  un  luogo  aW altro  nei  freddi  paesi  del  settentrione,  ri- 
comparivano finalmente  ut  Italia  a  far  vendetta  dei  sofferà' 
lor  danni  sulla  fiera  Ura  di  Dante,  e  su  quella  del  Petrarca 
e  dei  due  grand*  epici  italiani,  Finché,  dopo  mott  aUre  ora 
prospere  ed  ora  triste  avventure  ^  si  mostravano  fra  noi, 
nuovamente  accompagnate  dalla  filosofia,  per  cantare  in  Ita* 
Ha  il  risorgimento  della  libertà  e  il  trionfo  della  ragione. 

Tale  si  era  in  ristretto  la  tela  da  me  ordita  per  un  secondo 
lavoro.  Ma  non  consentendo  le  mie  circostanxe  dingo^armi 
adesso  ut  questa  vasta  materia,  o  la  serberò  a  tempo  più 
Ubero,  o  ùmterò  a  terminarla  qualche  miglior  ingegno  ita* 
liano,  a  cui  non  manchi  o^io  per  meditarla  e  perfexjonarla, 
ne  attico  gusto,  onde  allettare,  com* è  d'uopo  augurarsi,  e 
come  non  40  far  io,  la  studiosa  gioventù  nostra  alt  amore 
de' Greci  e  de' latini,  veri  e  soli  maestri  dell'ottima  poesia^ 


LA 

MUSOGONIA 


CANTO 

I 

Cor  di  ferro  ha  nel  petto,  alma  villana 
Chi  fa  de^ canni  alla  bell^arte  oltraggio, 
Arte  figlia  del  Cielo,  arte  sovrana, 
Voce  di  Giove  e  di  sua  mente  raggio. 
O  Muse,  o  sante  Dee,  la  vostra  arcana 
Orìgine  vo^  dir  con  pio  linguaggio , 
Se  mortai  fantasia  troppo  non  osa 
Prendendo  incarco  di  celeste  cosa. 

n 

Ma  come  in  pria  v^  invocherò  7  Tespiadi 
Dovrò  forse  nomarvi,  o  Aganippee? 
O  titolo  di  caste  EHiconiadi 
Più  vi  diletta,  o  di  donzelle  Ascree? 
So  che  ninfe  Castalie  e  Citerìadi 
Chiamarvi  anco  vi  piace,  e  Pegasèe^ 
E  vostro  suUe  rive  d^Ippocrene 
Di  Pieridi  è  il  nome  e  di  Camene. 

m 

Qualunque  suoni  a  voi  più  dolce  al  core 
Di  sì  care  memorie,  a  me  venite^ 
E  qvLsl  fuwi  tra^  Numi  il  genitore, 
E  <jual  la  madre  tra  le  Dee  mi  dite  \ 
Che  ben  privo  è  di  senno  e  mentitore 
Chi  di  seme  mortai  vi  stima  uscite: 
Né  Sicion  sue  figlie  or  più  vi  chiama, 
Né  d^Osiride  serve,  invida  fama'. 


l32  LA   MUSOGO^'IÀ 

IV 

Ma  il  maggior  degli  Dei ,  V  onnipossente 
Giove  di  nembi  adunator  v^è  padre, 
E  a  lui  vi  partorì  Diva  prudente 
Mnemosine*  di  forme  alme  e  leggiadre^ 
Diva  del  cor  maestra  e  della  mente, 
E  del  caro  pensier  custode  e  madre, 
Àll^ Èrebo  nipote,  e  della  bella 
Temi  e  del  biondo  Iperi'on  sorella. 

V 

Reina  della  fertile  Eleutera^, 
Sovente  errava  la  titania  Dea 
Per  la  beozia  selva,  e  di  Piera 
Visitava  le  fonti  e  di  Pimplea. 
Sotto  il  suo  pie  fiorìa  la  primavera, 
E  giacinti  e  melisse  ella  cogliea. 
Amor  d'eteree  nari,  e  quel  che  verno 
Unqpa  non  teme,  l'amaranto  eterno^. 

VI 

n  timo  e  la  viola,  onde  il  bel  suolo 
Soavemente  d'ogni  parte  oliva ^, 
Va  depredando  la  sua  mano,  e  solo 
Solo  del  loto  e  del  narciso  è  schiva  ^^ 
Che  argomento  amendue  di  sonno  e  duolo 
Grescon  di  Lete  sulla  morta  riva, 
E  l'uno  di  Morfeo  le  tempie  adombra, 
L'altro  il  crin  bianco  delle  Parche  ingombra 

vn 

Mieter  dunque  godea  l'avventurosa 
Il  vario  aprii  dell'almo  suo  terreno: 
Ella  sovente  un' infiammata  rosa 
Al  labbro  accosta  ed  un  ligustro  al  seno^ 
E  il  candor  del  ligustro  e  l'amorosa 
De'  fior  reina  al  paragon  vien  meno  ^ 
E  dir  sembra:  Golei  non  è  si  vaga, 
Ghe  vermiglia  mi  fé  colla  sua  piaga  7. 


LA   3CUS0G0NIA  l33 

vm 

Ma  la  varia  beltade,  onde  natura 

Le  rive  adoma  de^ ruscelli  e  il  prato, 

L^  antica  non  potea  superba  cura 

Acchetar,  di  che  porta  il  cor  piagato. 

Incessante  la  punge  ed  aspra  e  dura 

La  memoria  del  cielo  abbandonato, 

Alla  cara  pensando  olimpia  sede 

Venuta  in  preda  di  tiranno  erede  ^. 

IX 
Quindi  neir  alto  della  mente  infissi 

Stanle  i  firatelli  al  Tartaro  sospinti, 

Ivi  in  quei  tenebrosi  ultimi  abissi 

Dal  fiero  Giove  di  catene  avvinti. 

E  molto  è  già 9  che  in  quell^  orror  son  vissi, 
.    Né  gli  sdegni  lassù  son  anco  estinti^ 

Che  nuova  tirannia  sta  sempre  in  tema, 

E  cruda  è  sempre  tirannia  che  trema. 

X 
Arroge,  che  del  suo  minor  germano '° 

Novella  piil  non  intendea,  da  quando 

Re  Giove  usurpator  figlio  inumano 

Dal  tolto  Olimpo  lo  respinse  in  bando: 

Né  sapea  che  Saturno  iva  di  Giano 

Per  le  quete  contrade  occulto  errando, 

Ai  nepoti  d^Enotro",  al  Lazio  amico. 

Del  secol  d^oro  portator  mendico. 

XI 
In  tante  d^  odio  e  d^  ira  e  di  cordoglio 

Altissime  cagioni  ella  smarrito 

Del  gran  titanio  sangue  avea  P orgoglio, 

E  fior  parca  depresso,  abbrividito. 

Quando  soffiar  dallMperboreo  scoglio 

Si  sente  d'Orizia'"  l'aspro  marito^ 

E  tutta  carca  di  soverchia  brina 

L'odorosa  famiglia  il  capo  inchina. 


l34  ^^   MUSOGONIA 

xn 

Sol  che  il  nome  tremendo  oda  talvolta 
Del  saturnio  signor  la  sconsolata,- 
Tutta  nel  volto  turbasi,  e  per  molta 
Paura  indietro  palpitando  guata. 
Ma  che?  la  Parca  indietro  era  già  volta, 
E  decreto  correa  che  alfin  placata 
Del  patrio  ciel  ricalcheria  le  soglie 
Mnemosine  di  Giove  amante  e  moglie. 

xin 

Sotto  vergine  lauro  un  giorno  assisa 
Di  Piera  ei  la  vede  alla  sorgente. 
La  vede^  e  d^  amor  pronta  ed  improvvisa 
Per  le  vene  la  fiamma  andar  si  sente, 
E  dalle  vene  all^ossa^  in  quella  guisa 
Che  d' autunno  balen  squarcia  repente 
La  fosca  nube ,  e  con  veloec  riga 
Di  lucido  meandro  i  nembi  irriga. 

XIV 

Per  quell^almo  adempir  dolce  disfo 
Che  Venere  gli  pose  in  mezzo  al  core, 
Che  farà  il  caldo  innamorato  Iddio  ? 
Che  far  dovrà,  che  gli  consigli.  Amore? 
Amor  che  già  scendea  propizio  e  pio , 
Manifestossi  in  quella  all^ amatore, 
E  gli  sorrise  cosi  caro  un  riso. 
Che  di  dolcezza  un  sasso  avrìa  diviso. 

XV 

Ed  umile  pigliar  sembianza  e  panno  '^ 
L^  esortò  di  pastore  e  portamento. 
Villano  e  illiberal  parca  F  inganno 
Al  gran  Tonante,  e  ne  movea  lamento. 
Oh!  gli  rispose  quel  fanciul  tiranno. 
Oh  !  che  dirai ,  superbo  e  firodolento , 
Quando  giovenco  *^  gli  agenorei  liti 
Empirai  di  querele  e  di  muggiti  ? 


LA  uvaoùoffik  i35 

XVI 
Quando  di  serpe  vestirai  la  sqiiamma  ^ 
E  or  d' aquila  le  piume,  ora  di  cigno? 
Quando  pioggia  sarai ,  quando  una  fiamma^ 
E  r  erba  calcherai  con  pie  caprigno  7 
Si  dicendo  lo  tocca,  e  più  rinfiamma, 
E  il  bel  labbro  risolve  in  un  sogghigno. 
Pensoso  intanto  di  Saturno  il  figlio 
Né  mover  chioma  si  vedea,  né  ciglio  '^. 

xvn 

Stavansi  muti  al  sito  silenzio  i  venti, 
Muta  stava  la  terra  e  il  mar  profondo^ 
Langm'a  la  luce  delle  sfere  ardenti. 
Parca  sospesa  V  armoma  del  mondo. 
AUor  l4dalio  Dio  delle  roventi 
Fólgori  gli  togliea  di  mano  il  pondo, 
Arme  fatali  '^  che  trattar  sol  osa 
Giove  e  Palla  Minerva  bellicosa. 

xvm 

Ed  or  le  tratta  Amore  '7^  e  nella  mano 
Guizzar  le  sente  irate ,  e  non  le  teme  ^ 
E  appiè  d^un^elce  le  depon  sul  piano. 
Che  tocco  fuma  '*,  e  V  elee  suda  e  gemca 
Ne  pute  r  aria  intomo,  e  da  lontano 
Invita  i  nembi,  e  roco  il  vento  fireme. 
Dir  sembrando:  Mortai,  vattene  altrove^ 
Che  il  fulmine  tremendo  è  qui  di  Giove^ 

XIX 

Fatto  inerme  cosi  l' egioco  Nume  '9^ 
Tutta  deposta  la  sembianza  altera^ 
Di  pastorel  beóto  il  volto  assume, 
E    questa  di  sue  frodi  è  la  primiera  *^i 
S' avvia  lunghesso  il  solitario  fiume  ^ 
La  selva  si  rallegra  e  la  riviera^ 
E  del  Dio  che  s^appressa  accorta  V  onda , 
Più  loquace  a  baciar  corre  la  sponda^ 


l36  LA    MOSOGOinA 

XX 

Guida  al  fervido  amante  è  quell^alato 

Garzon  che  V  alme  a  suo  piacer  corregge , 
Contro  cui  poco  s^assecura  il  fato, 
Il  fato  a  cui  talor  rompe  la  legge. 
Egli  alla  Diva  Tappresenta,  e  au]*ato 
Dardo  allor  tolto  dalla  cote  elegge^ 
E  al  vergin  fianco  di  tal  forza  tira, 
Gh^  ella  tutta  ne  trema  e  ne  sospira. 

XXI 

Loda  il  volto  gentil,  le  rubiconde 

Floride  guance  e  il  ben  tornito  collo  ^ 

Loda  le  braccia  vigorose  e  tonde, 

E  Fornero  che  degno  era  d^ Apollo^ 

Bel  sorriso,  bel  guardo,  e  vereconde 

Gare  parole,  e  tutto  alfin  lodollo. 

Amor  si  dolce  le  ragiona  al  core, 

Ghe  in  lui  <{uesto  pur  loda,  esser  pastore. 

xxn 

Verrà  poscia  stagion  ch^  altre  due  Dive 
Faran  la  scusa  del  suo  basso  affetto, 
Quando  Anchise  *'  del  Xanto  in  su  le  rive 
E  cpiel  vago  d'Arabia  giovinetto  '*, 
Famoso  incesto  delle  fole  argive, 
La  Dea  più  bella  stringeransi  al  petto  \ 
E  sul  sasso  di  Latmo  Endimione  *^ 
Vendicherà  Galisto  ed  Atteone. 

xxm 

In  poter  dunque  di  due  tanti  Dei 

Congiurati  in  suo  danno.  Amore  e  Giove, 
Gess^  ella  al  frodo,  e  Gastitate  a  lei 
Porse  r  ultimo  bacio ,  e  mosse  altrove. 
Fornirò  il  letto  "^  allegri  fiori  e  bei 
Spontaneo-nati  ed  erbe  molli  e  nuove, 
E  intonar  consapevoli  gli  augelli 
n  canto  nuzì'al  fra  gli  arboscelli. 


LA   MtrSOOOHIÀ  187 

XXIV 

Facean  tenore  alle  lor  dolci  rime 

L^aure  fra  i  muti  e  ancor  non  dotti  allori, 

E  il  vicino  Parnaso  ambe  le  cime 

Scotea,  presago  de^fiitori  onori. 

Le  scotea  Pindo  ed  Elicon  sublime, 

Che  i  lor  boschi  sentian  farsi  canori^ 

E  Temide*^  di  Vesta  in  compagnia 

Dall'  antro  a  Febo  già  dovuto  uscfa. 

XXV 
Tre  volte  e  sei  V  onnipossente  padre 

Della  figlia  d' Urano  in  grembo  scese , 

Ed  altrettante  avventurosa  madre 

Di  magnanima  prole  il  Dio  la  rese  : 

Di  nove  io  dico  vergini  leggiadre 

Del  canto  amiche  e  delle  belle  imprese: 

Melpomene  che  grave  il  cor  conquide, 

E  Taha  che  Perror  flagella  e  ride^ 

XXVI 
CaUiopea  che  sol  conforti  vive, 

Ed  or  ne  canta  la  pietade,  or  Pira  **^ 

Euterpe  amante  deUe  doppie  pive, 

E  Polinnia  del  gesto  e  della  lira^ 

Tersicore  die  salta,  e  Clio  che  scrive, 

Erato  che  d'amor  dolce  sospira^ 

Ed  Urania  che  gode  le  carole 

Temprar  degli  astri,  ed  abitar  nel  sole* 

xxvn 

A  toccar  cetre,  a  tesser  canti  e  balli 
Si  dier  concordi  F inclite  donzelle, 
E  pei  larghi  del  ciel- fulgidi  calli 
Al  padre  s'awiàr  festose  e  belle  "7. 
Dalle  rupi  ascendeva  e  dalle  valli 
n  soave  concento  all'auree  stelle, 
E  Fineffabil  melodia  le  note 
Rendea  men  dolci  dell'eteree  rote. 


i38  hk   MUSOGONfA 

xxvm 

Tacquero  vinte  al  canto  pellegrino 
Le  nove  delle  sfere  alme  Sirene  ^^ 
Quelle  che  viste  da  Platon  divino 
Cingono  il  ciel  d^  armoniche  catene. 
E  già  Polenio  raggio  *9  era  vicino  ^ 
E  in  nubi  avvolta  di  tempesta  piene  ^ 
La  gran  porta  ^'  apparia,  donde  ritomo 
Fan  gP  Immortali  all' immortai  soggiorno* 

XXIX 

Alla  prole  di  Temi  ^%  alle  vermiglie 
Ore  r  ingresso  i  £aiti  ne  fidare 
Pria  che  lor  poste  in  man  fosser  le  briglie 
Del  carro  che  a  Feton  costò  si  caro. 
Per  questa  di  Mnemosine  le  figlie 
Carolando  e  cantando  oltrepassare , 
E  bisbigliar  di  giubilo  improvvise 
Fér  la  cittade  dell'eterno  riso. 


Dagli  alberghi  di  selide  adamante 
Tutta  de' Numi  la  famiglia  uscia^ 
E  dell'  Empire  fefvida  e  sonante 
Sotto  i  piedi  immortali  era  la  via. 
All'affollarsi,  al  premere  di  tante 
Eteree  salme  cupe  »  sentia 
Tremar  l'Olimpo^  e  nel  segreto  petto 
Giove  un  immenso  ne  prendea  dilette. 

XXXI 

Alle  nuove  del  cielo  cittadine 

Surse  dal  trono  ^  per  la  man  le  strìnse , 

E  le  care  baciò  firenti  «divine 

Come  patema  tenerezza-  il  vinse. 

Poi  die  lor  d'  ore  il  seggio ,  e  di  reine  ^^ 

L'adornamento,  e  il  crin  di  laure  avvinse, 

D'eterno  lauro  che  d'  accanto  all'onda 

Del  nettare  dispiega  alto  la  fironda. 


LA  MVSOGONIA  tìg 

xxxn 

Strada  è  lassù  regal  ^  sublime  e  bianca  ^ 
Cbe  dal  giunonio  latte ^  il  nome  toglie^ 
De^  più  possenti  Numi  a  destra  e  a  manca 
Vi  son  gli  alberai  con  aperte  soglie. 
Ma  dorè  più  del  ciel  la  luce  è  stanca , 
Confuso  il  volgo  degli  Dei  s^  accoglie. 
Le  Nebbie  erran  laggiù  canute  i  crini, 
E  r  ignee  Nubi  delle  Nebbie  affini  ^ 

xxxm 

E  i  Turbini  rapaci ,  e  le  Tempeste 

Co^  Zefiri  che  V  ali  han  di  farfalle , 

Tal  menando  un  rumor,  che  la  celeste 

Ne  risuona  da  lunge  ampia  convalle. 

Un  più  licpiido  lume  infiora  e  veste 

Le  sponde  intanto  di  quel  latteo  calle. 

Ivi  i  palagi  del  Tonante  sono, 

Ivi  le  rocche  tutte  d'  oro  e  il  trono. 

XXXIV 
Ed  in  questa  del  ciel  parte  migliore 

Giove  accoke  le  Muse,  e  alle  pudiche 

Liberal  concedette  il  genitore 

Splendide  case  eternamente  apriche^ 

À  cui  d'accanto  la  magion  d'Amore 

Sorge  con  quella  delle  Grazie  amiche, 

Dive  senza  il  cui  nume  opra  e  favella 

Nulla  è  che  piaccia,  e  nulla  cosa  è  bella. 

XXXV 
Fra  le  Grazie  e  Cupido  e  le  Camene 

Dolce  allor  d^  amistà  patto  si  feo. 

Poi  qual  pegno  d'amor^  più  si  conviene 

Ogni  Nume  lor  porse:  il  Tegeeo 

Le  sette  amate  disuguali  avene  ^ 

Ciprigna  il  mirto  ^  i  pampini  Lìeo^ 

E  a  Melpomene  fiera  il  forte  Alcide 

Donar  F  insegua  del  valor  si  vide. 


l4o  LA   MUSOGONIA 

XXXVI 

Venne  Mercnrio,  e  alle  fanciulle  ofierse" 
La  prima  lira  ^7  di  sua  man  costrutta^ 
Apollo  Tenne,  e  del  futuro^'  aperse 
n  chiuso  libro  e  la  scienza  tutta. 
Pito  ancor*  essa  ^9^  onde  il  bel  dire  emerse , 
Le  Muse  a  salutar  si  fa  condutta, 
E  Parte  insegnò  lor  dolce  e  soave 
Che  deir  alma  e  del  cor  volge  la  chiave. 

xxxvn 

Più  volubili  allor  V  inclite  Dive 

Mandar  dal  labbro  d^  eloquenza  i  fiumi  ^ 
Allor  con  voci  più  sonanti  e  vive 
La  densa  celebrar  stirpe  de^Numi: 
Quanti  le  selve,  e  de'ruscei  le  rive, 
E  de^  monti  frec[uentano  i  cacumi, 
Quanti  ne  nutre  il  mar,  quanti  nel  fonte 
Del  nettare  lassù  bagnan  la  fi*onte. 

XXXVffl 

Primamente  cantar  Popre  d^  Amore  ^**^ 
Non  del  figliuol  di  Venere  impudico, 
Che  tiranno  delP  alme  feritore 
La  virtù  calca  di  ragion  nimico^ 
Ma  delle  cose  Amor  generatore  ^*, 
Il  più  bello ^*  de' Numi  ed  il  più  antico, 
Che  forte  in  sua  possanza  alta  infinita, 
Pria  del  tempo  e  del  moto  ebbe  la  vita. 


Ei  del  Gaosse  sulla  faccia  oscura 
Le  dorate  spiegò  purpuree  penne, 
E  d'Amor  Paura  genitrice  e  pura 
Scaldò  P  Abisso ,  e  fecondando  il  venne. 
Del  viver  suo  la  vergine  natura 
I  fi*emiti  primieri  allor  sostenne, 
E  da  quell'ombre  già  pregnanti  e  rotte 
L'Èrebo  nacque  e  la  pensosa  Notte. 


LÀ  MVSOGONIÀ  l4l 

XL 

Poi  la  Notte  d^Àmor  Palmo  disio 

Senti  pur  essa,  e  all'Èrebo  mischiosse, 
E  dolce  un  tremor  diede  e  concepio, 
E  doppia  prole  dal  suo  grembo  scosse  : 
n  Giorno,  io  dico,  luminoso  e  dio^, 
E  r  Etere  che  lieve  intomo  mosse , 
Onde  i  semi  si  svolsero  dell' acque  ^ 
Della  terra,-  del  foco,  e  il  mondo  nacque. 

XLI 

Quindi  la  Terra  all'  Etere  si  giunse 
Mirabilmente,  e  partorinne  il  Cielo, 
n  Giel  che  d' astri  il  manto  si  trapunse 
Per  fame  al  volto  della  madre  un  velo^ 
Ed  ella  allor  più  bei  sembianti  assunse^ 
L'erbe,  i  fior  si  drizzaro  in  su  lo  stelo ^ 
Chiomosi  i  boschi,  scaturirò  i  fonti, 
Giacquer  le  valli,  e  alzar  la  testa  i  monti. 

XLH 

Forte  muggendo  aUor  le  sue  profonde 
Sacre  correnti^  l'Oceàn  diffuse, 
E  maestoso  colle  fervid'onde 
Circondò  P  Orbe^^,  e  in  grembo  lo  si  chiuse. 
Poi  con  alti  imenei  nelle  feconde 
Braccia  di  Teti  antica  dea  s' infuse  ^^, 
E  di  Proteo  fatidico  la  feo 
E  di  Doride  madre  e  di  Nereo  ^ 

XLin 

E  dei  fiumi  taurini  ^7  e  dei  torrenti, 
E  di  molte  magiianime  donzelle^*. 
Cui  del  cielo  son  noti  i  cangiamenti, 
E  del  sol  le  fatiche  e  delle  stelle. 
Predir  sann'anco  lo  spirar  de'  venti, 
E  il  destarsi  e  il  dormir  delle  procelle^ 
San  come  il  tuono  il  suo  ruggito  metta , 
E  le  prest'  ale  il  lampo  e  la  saetta. 


l42  LA   MU80GONIA 

xuv 

San  quale  occulta  fonuidabil  esca 
Pasce  i  cupi  tremuoti,  e  li  commove  ^ 
San  qual  forza  i  vapori  in  alto  adesca, 
E  dell^  arsa  gran  madre  in  sen  li  piove  ^ 
Come  il  flutto  si  gonfi,  e  poi  decresca , 
E  cento  di  natura  arcane  prove  ^ 
Che  natura  alle  vaghe  Oceanine 
Tutte  le  sue  rivela  opre  divine. 

XLV 

E  son  tremila,  di  che  il  grembo  ha  pieno, 
Del  canuto  Oceàn  Palme  figliuole, 
Che  FEtìopio  pelago  e  il  Tirreno 
Fanno  spumar  con  libere  carole. 
Ed  altre  dell'Egeo  fendono  il  seno, 
Altre  quell^  onda  in  cui  si  corca  il  sole , 
Là  dove  Atlante  lo  stridore  ascolta 
Del  gran  carro  fd>eo  che  in  mar  dà  volta. 

XLVI 

Altre  ad  aprir  conchiglie,  altre  si  danno 
Dai  vivi  scogli  a  svellere  coralli^ 
Per  le  liquide  vie  tal  altre  vanno 
Frenando  verdi  alipedi  cavalli  ^9. 
Qual  tesse  ad  un  Triton  lascivo  inganno, 
Qual  gP  invola  la  conca^  e  canti  e  balli 
E  di  palme  un  gran  battere  e  di  piedi 
Tutte  assorda  le  cave  umide  sedi. 

xLvn 

Così  cantar  dell^  Orbe  giovinetto  ^^ 
Gli  alti  esordj  le  Muse  e  P incremento; 
E  un  insolito  errava  almo  diletto 
Sul  cor  de^Numi  alP  immortai  concento. 
Poi  disser  come  dal  profondo  petto  '' 
La  Terra  suscitò  nuovo  portento , 
Col  Ciel  marito  ^*  nequitosa  e  rea , 
Che  i  suoi  figli,  crudel,  spenti  volea. 


LA   MUSOGONIA  1  43 

xLvm 

Quindi  i  Titani  di  cor  fero  ed  alto 

Con  parto  ella  creo  nefando  e  diro^', 

Congiurati  con  Oto  ed  Eftalto 

Ad  espugnar  V  intemerato  Empirò. 

La  gioventù  superba  ^^  al  grande  assalto 

Con  grande  orgoglio  e  gran  possanza  ujiciro, 

E  firagorosa  la  terra  tremava 

Sotto  i  vasti  lor  passi,  e  il  mar  mugghiava. 

XLIX 
Ma  Piracmon,  dall'  altra  parte,  e  Bronte, 

GoMor  fratelli  affumicati  e  nudi, 

Sudor  gocciando  dall'  occhiuta  fronte 

Per  la  selva  de' petti  ispidi  e  rudi, 

Cupamente  facean  V  eolio  monte  ^^ 

Gemere  al  suon  delle  vulcanie  incudi, 

I  fulmini  temprando,  onde  far  guerra 

Giove  ai  figli  dovea  dell'  empia  Terra. 

L 
Tutte  di  ferro  esercitato  e  greve 

Son  F  orrende  saette,  ed  ogni  strale  ^ 

Tre  raggi  in  sé  di  grandine  riceve , 

E  tre  d' dementar  foco  immortale, 

Tre  di  rapido  vento  e  tre  ne  beve 

D'  acquosa  nube,  e  larghe  in  mezzo  ha  V  ale. 

Poi  di  lampi  ima  livida  mistura  '? 

E  di  tuoni  vi  cola  e  di  paura  ^ 

LI 
E  di  furie  e  di  fiamme  e  di  fracasso 

Che  tutto  introna  orribilmente  il  mondo. 

Prende  il  Nume  quest'  arme  e  move  il  passo  : 

n  ciel  s'incurva,  e  par  che  manchi  al  pondo. 

Sentinne  il  re  Pluton  l' alto  conquasso , 

E  gli  occhi  alzò  smarrito  e  tremebondo  ^ 

Che  le  volte  di  bronzo  e  i  ferrei  muri 

All'  impeto  stimò  poco  securi. 


i44  'la  mvsogonià 

Ln 

Da^ fulmini  squarciata  e  tutta  infoco^ 
Strìde  la  terra  per  immensa  doglia. 
Rimbombano  le  valli,  e  caldo  e  róco 
Con  fervide  procelle  il  mar  gorgoglia. 
Vincitrice  di  Giove  in  ogni  loco* 
La  vendetta  s' aggira^  e  par  che  voglia 
Sotto  il  carco  de^Numi  il  gran  convesso 
Slegarsi  tutto  dell^  Olimpo  (^presso. 

Lin 

E  in  cielo  e  in  terra,  e  tra  la  terra  e  il  cielo 
Tutto  è  vampa  e  ruina  e  fumo  e  polve. 
Fugge  smarrita  del  signor  di  Delo 
La  luce,  e  indietro  per  terror  si  volvé. 
Fugge  avvolta  ogni  stélla  in  fosco  velo, 
Ed  urtasi  ogni  sfera  e  si  dissolve: 
E  immoto  nell'  orribile  frastuono 
Non  riman  che  del  Fato  il  ferreo  trono. 

UV 

Ma  coraggio  non  perde  la  terrestre 
Stirpe,  né  par  che  troppo  le  ne  caglia. 
Di  divelte  montagne  arman  le  destre, 
E  fan  con  rupi  e  scogli  la  battaglia. 
Odonsi  cigolar  sotto  V  alpestre 
Peso  le  membra,  e  ognun  fatica  e  scaglia. 
Tre  volte  ^  all'  arduo  ciel  diero  la  scossa, 
Sovra  Pelio  imponendo  Olimpo  ed  Ossa: 

LV   ' 

E  tre  volte  il  gran  padre  fulminando. 
Spezzò  gP imposti  monti  e  li  disperse^ 
E  dalle  stelle  mal  tentate  in  bando 
Nel  Tartaro  cacciò  le  squadre  avverse: 
Nove  giorni  ^  le  venne  in  giù  rotando , 
E  nel  decimo  al  fondo  le  sommerse: 
Orribil  fondo  d' ogni  luce  muto , 
Che  da  perpetui  venti  è  combattuto. 


LA  KU80G0NU  l45 

LVI 
E  tanto  della  terra  **  al  centro  scende, 
Quanto  lunge  dal  ciel  scende  la  terra* 
Di  pianto  in  mezzo  una  fiumana  il  fende  ^ 
Di  ferro  intomo  una  muraglia  il  serra^ 
E  di  ferro  ^*  son  pur  le  porte  orrende 
Che  Nettuno  vi  pose  in  quella  guerra. 
I  Titani  là  dentro  etema  e  nera 
Mena  in  Tolta  la  pioggia  e  la  bufera. 

Ivi  Giapeto  si  rirolTc  e  Geo, 

E  r  altra  turba  cbe  i  Celesti  assalse. 
Ivi  Gige  ^,  ivi  Goto  e  BrXareo 
Gui  la  forza  centimana  non  valse. 
Fuor  dell^  atra  prigion  restò  Tifeo  ^^j 
Gh^  altramente  punirlo  a  Giove  calse^ 
Su  rineflhbii  mostro  in  giù  travolto 
Lanciò  Sicilia  tutta  ^  e  non  fii  molto. 

Lvm 

Peloro  la  diritta,  e  gli  comprime 

Pacbin  la  manca,  e  Lilibeo  le  piante. 
Schiaccia  V  inmiensa  fronte  Etna  sublime , 
Di  fornaci  e  d^incudi  Etna  tonante. 
Quindi  come  il  dolor  dal  petto  esprime, 
E  mutar  tenta  il  fianco  il  gran  gigante, 
Fumo  e  fiamme  dal  sen  mugghiando  erutta. 
Ne  trema  il  monte  e  la  Trinacria  tutta. 

UX 

Del  sacrilego  ardir  sortì  compagna 
Encelado  a  Tifeo  la  pena  e  il  loco. 
Gli  altri  sulla  Flegrea  vasta  campagna  ^^ 
Rovesciati  esalar  di  Giove  il  foco: 
Ond^ivi  ancor  la  valle  e  la  montagna 
Mandan  fumo,  e  rumor  fimesto  e  roco. 
Della  divina  Creta  ^  alcun  satolle 
Fé  del  suo  sangue  le  feconde  zoUe. 

Moni.  Poemetti.  io 


l46  LI  KUSOGOIIIA 

LX 

E  tu  pur  desti  agU  empj  sepoltura, 
Terribile  Vesero^  che  la  piena 
Versi  rugghiando  di  tua  lara  impura 
Vicino,  ahi  troppo!  alla  regal  Sirena. 
Deh  sul  giardin  d'Italia  e  di  natura 
I  tuoi  torrenti  incenditori  affirena. 
Ti  basti,  ohimè!  Parer  di  Pompejano 
I  bei  colli  sepolto  e  d'  Ercolano. 

LXI 

Il  sacro  delle  Muse  almo  concento 
Del  ciel  rapiti  gli  ascoltanti  avea. 
Tacean  le  Dive^  e  desioso  e  attento 
Ogni  Nume  V  orecchio  ancor  porgea. 
Del  nettare  il  ruscello  i  pie  d' argento 
Fermare  anch'esso,  per  udir,  parca, 
E  lungo  r  immortai  santissim'onda 
Né  fior  r  aure  agitavano  né  fronda. 

Lxn 

Qual  dell'  alba  discende  il  queto  umore 
Sull'erbe  sitibonde  in  piaggia  aprica, 
Tal  discese  agli  Dei  dolce  sul  core 
La  rimembranza  della  gloria  antica. 
Rammentò  ciaschedun  del  suo  valore 
In  quel  duro  certame  la  fatica  ^. 
Polibote  a  Nettmio  e  gli  Aloidi 
Di  gran  vanto  fìir  campo  ai  Latonidi. 

Lxm 

Favellò  del  crudel  Porfirione, 
Alto  scotendo  la  fulminea  clava , 
L' indomato  figliuol  d' Amfitrì'one , 
E  con  superbo  incesso  il  capo  alzava^. 
Ma  delle  Muse  l' immortai  canzone 
Te,  più  ch'altri,  o  Minerva,  dilettava, 
Te  che  il  primo  recasti,  o  Dea  tremenda , 
Soccorso  al  padre  neUa  pugna  orrenda. 


LI  MUSOOONIA  l47 

LXIV 

Né  alle  sacre  cavalle  h  in  mar  tergesti 
I  polverosi  fianchi  insanguinati, 
Né  il  gradito  a  gustar  le  coi>i%U!esti 
Fresco  trifoglio  '•  ne'  Cecropi!  prati, 
S' ai  Terrigeni  in  pria  morder  non  festi 
La  sabbia  in  Flegra ,  e  non  fìir  pieni  t  fati, 
I  fati  che  ponean  Giove  in  periglio 
Senza  il  braccio  d'Alcide?'  e  il  tuo  consiglio. 

LXV 

Cosi  gV  immani  Angnipedi  ?*  pagaro 
Di  lor  nefanda  scelleranKa  il  fio^ 
Ài  superbi  così  costar  fé  caro 
Quel  famoso  ardimento  il  maggior  Dio. 
Egra  la  Terra  in  tanto  caso  amaro 
Ài  caduti  suoi  figli  il  grembo  aprio , 
E  di  cocenti  lagrime  cosparse 
Le  lor  gran  membra  folgorate  ed  arse. 

LXVI 

E  ardea  pur  ella,  e  i  folti  incenerire 
Sul  capo  si  sentia  verdi  capelli 
Dal  fulmine  combusti,  e  in  sen  bollire 
L'alte  vene  de' fiumi  e  de' ruscelli. 
In  sospiri  esalava  il  suo  soffirire. 
Gli  occhi  alzando  offuscati  e  non  più  quelli. 
Volea  pregar,  ma  vinta  dal  vapore 
La  debil  voce  ricadea  nel  core. 

Lxvn 

Le  volse  un  guardo  di  Saturno  il  figlio, 
Pietà  n'  ebbe,  e  le  folgori  depose, 
E  tornò  col  chinar  del  sopracciglio 
n  primo  volto  alle  create  cose. 
Scorse  le  sfere  col  divin  consiglio  , 
E  la  rotta  armonia  ne  ricompose. 
Alla  traccia  dell'  orbite  smarrite 
Richiamando  le  stelle  impaurite. 


i48  tul  msoGomk 

Lxvin 

Scorse  la  tetra,  ed  alle  piante  uccise 
Ricondusse  la  vita  e  ai  morti  fiori  ^ 
E  fiior  di  sue  latebre  il  capo  mise 
n  fonte,  e  sciolse  i  trepidanti  umori.. 
Tu  il  mar  scorresti  ancora,  e  il  mar  sotrise, 
Posti  in  silenzio  i  fremiti  sonori. 
Sdegnato  lo  guardasti,  ed  ei  sdegnossi: 
Lo  guardasti  placato,  ed  ei  placossi* 

LXIX 

Salve,  massimo  Giore:  o  che  vaghezza 
D'errar  ti  prenda  per  gli  eterei  campi 
Sul  carro  in  che  Giustizia  e  Robustezza  7^ 
Sublime  ti  locar  fira  tuoni  e  lampi: 
O  che  deposta  la  regal  grandezza 
Pel  nativo  Liceo  74  P  orma  tu  stampi^ 
O  le  melie  nutrici,  e  la  contrada 
Della  tua  Greta  visitando  vada; 

O  le  parlanti  querce  dodonee  7' , 
E  di  Libia  lasciando  le  cortine, 7^ 
Nel  sen  ti  piaccia  delle  selve  Idee  77 
Le  stanche  riposar  membra  divine  \ 
O  colle  Muse  su  le  rote  elee  7> 
Ir  d'olimpica  polve  asperso  il  crine. 
Mentre  il  canto  teban  79  P  aquila  moke 
Che  su  r aureo  tuo  scettro^  in  piò  si  folce: 

LXXI 

Tu  beato,  tu  saggio  e  oimipossente, 
E  degli  uomini  padre  e  degli  Dei: 
Tu  provvida  del  mondo  anima  e  mente: 
Tu  regola  de'  casi  o  fausti  o  rei: 
A  te  cade  la  pioggia  obbediente: 
A  te  son  ligi  i  di  sereni  e  bei  : 
A  te  consorte  è  Temi,  e  Palla  è  figlia, 
E  da  te  scende  il  saggio,  e  ti  somiglia. 


Là  IIUSOGOHU  l49 

Lxxn 

Sacri  sono  a  Gradivo  i  buon  gaenieri, 
Gli  artefici  a  Valcano,  a  Febo  i  Tati; 
A  Cinzia  i  cacciator  selvaggi  e  feri 
Della  sposa  fedel  dimenticati; 
De' popoli  a  te,  Giove,  i  condottieri, 
E  tu  la  mente  ne  gOTemi  e  i  fati. 
Deb!  P  anime  supreme,  in  cui  s'affida 
L'umana  compagnia,  proteggi  e  guida. 

Lxxm 

Proteggi  insieme  delle  Muse  il  canto, 
E  ciò  tomi  a  tuo  prò.  Morta  è  la  lode 
De'  Numi  e  degli  eroi  dove  del  santo 
Elicona  sonar  l'inno  non  s'ode: 
Molta  virtù  sepolta  giace  accanto 
Alla  viltà,  perchè  non  ebbe  un  prode 
Vate  amico  al  suo  fianco:  e  le  bell'opre 
Che  non  hanno  cantor,  l' obbbo  ricopre. 


VARIANTI  DELLA  MUSOGONIA 

tratte  dalla  stampa  mcomùìciaia  ùi  Rema  per  Luigi  Perego  SaWioni 

nel  1793,  i>i-8.  (*) 


>» 


w       I. 


>»    I. 


Stamsa  ni. 

V.   7.        Né  grido  han  pia  le  Sicionie  fole, 
M    8.        Né  d'Osiride  i  caDti  e  le  carole. 

V. 
M    3.        Per  la  selva  beota,  e  di  Fiera 

7.        Amor  d'eteree  nari,  e  quel  che  il  verno 

VI. 
La  tuberosa  e  il  timo,  onde  il  bel  saolo 

VII 
Fiori  adunque  mietea  l'avventurosa 
>»    a.        Ilari  e  vivi,  e  sen  dolea  il  terreno. 

X. 
"    5.        Né  sapea  la  dolente,  che  di  Giano 
'»    6.        £i  pel  regno  venia  peregrinando; 

XI. 
M    3.        Del  gran  sangue  Titanio  avea  V  orgoglio, 

XII. 
'*    5.         Ma  che?  la  Parca  in  meglio  era  già  vòlta, 

XV. 
»    3.        Vii  troppo  e  illiberal  parca  l'inganno. 

(*)  Questa  ediaione  per  le  lopravyenute  vicende  poUlidie  rimase  imperfetta ,  e  1* Autore  nel 
1797,  «Tendo  di  quoto  rÌTolto  P animo  al  suo  kToro,  ne  cambiò  Videa  eia  divisione,  corno 
potrà  Tedersi  dal  confronto  del  testo  e  delle  Tarìanti  qui  riportate ,  non  meno  che  dall'  avvcr- 
tinento  premesso  a]l*ediaioiM  veneta  del  pradetio  anno  1797 ,  die  ho  ristampato  innansi  al 
poemetto.  Per  T  intero  testo  e  per  le  note  ho  seguita  T  ultima  edizione  del  1826,  presso  la 
Soctetli  tipografica  de'  Classici  Italiani ,  riveduta  e  corretta  dalV Autore.  L'Sditore. 


I»    I. 


»     2. 


M    a. 


»     X. 

f»   a. 


l5a  VARIiSTI 

Stahu  XVI. 
y.  4'        £  l'erba  calcherai  col  pie  caprigno? 

xvn. 

Stavano  muti  al  suo  silenzio  i  Tenti, 

XX. 
8.        Ch'ella  fatta  ne  trema:  e  già  sospira. 

XXI 
Pienotte  guance,  e  il  ben  tornito  collo; 

xxn. 

4-        E  il  famoso  d'Arabia  giovinetto, 

5.  Lnngo  argomento  delle  carte  Argive, 

XXIV. 

6.  Che  sentian  come  diverrian  canori^ 

XXV. 

Di  Hnemosine  in  grembo  egli  discese^ 
M   8.        E  Talia,  che  Ferror  percote,  e  ride; 

XXVI. 
Calliopea,  che  sol  co' regi  vive, 
E  canta  degli  eroi  T affanno  e  l'ira; 

xxvn. 

M   5.  S'adian  da  lungi  armODizzar  le  valli 

M   6.  Soavemente,  e  ne  stapian  le  stelle, 

w  '7.  Vergognose  d'intendere  che  note 

M   8.  Spandean  men  dolci  le  sideree  rote. 

xxvm. 

»    a.        Le  sette  delle  sfere  alme  Sirene, 

M   6.         E  in  nubi  avvolta  sempiterne  e  piene 

XXIX. 
w  5.        Per  questo  varco  le  Mnemosie  figlie 

XXX. 
M   5.        AU'affoUarsi,  al  correre  di  tante 

XXXI. 
M   a.        Snrse,  e  all'incontro  con  decor  si  spinse: 
»    3.         Quelle  care  abbracciò  fronti  divine 
M    5.        E  lor  die  d'oro  il  seggio,  e  di  reine 

XXXII. 
M    3.        De' nobili  Immortali  a  destra  e  a  manca 
»    5.        Disperso  abita  il  vulgo  ove  già  stanca 
»»  6.        L'eterea  luce  in  basso  il  ?ol  raccoglie. 

XXXIV. 
»»  ^.        A  cai  d'appresso  il  tetto  aureo  d'Amore 


nEixà  mnooosu  i53 

Staaa  XXXV. 
V.   I.        Fra  le  Cariti  aDora  e  le  Camene 
»  a.        Saldo  legame  d'amistà  si  feo» 
«  7.       E  a  Bfelpomene  fiera  il  fiero  Alcide 

xxxvn. 

m  8.        Dell'ambrosia  lassù  bagoan  la  fironte. 

xxxix. 

»   I.        Del  Caos  infbnne  sa  la  &ccia  oscura 

XLH. 
»   I.        Roco  mn^cDdo  allor  le  sue  profonde 

XLm. 
n  6.       E  il  dormire  dell' onde ,  e  le  procelle» 

LXVIt 
»   8.        Che  i  SQoi  figli,  cmdel,  le  nasoondea. 

XLvra. 

»  5;        La  terrigena  stirpe  al  grande  assalto 

XLIX. 
«•   I.        Dall'altra  parte  Piracmone  e  Brente 

L. 
I»  6.        Di  densa  pioggia,  e  larghe  in  meao  ha  l' ale. 

Ln  e  LUI 
(Quetie  stampe  mancano  neltedù^jbne  rcnuoui) 

LIV. 
MI.        Lo  senA  da  lontan  Pambiaosa 

Antica  madre,  e  si  copri  d'nn  Telo; 
De'snoi  %Ii  il  senti  la  (Ssiticosa 
Penrersa  torba,  e  akò  la  testa  al  cielo; 
E  forendo  ciascnn  d'una  petrosa 
Rape  si  fece  incontro  a  Giove  nn  telo. 
'  Tre  volte  all'arduo  ciel  diero  la  scossa, 
Sovra  Polio  ponendo  Olimpo  ed  Ossa* 

Lvm. 

*  3.  Sa  la  fronte  gli  grava  Etna  sublime 

«  4.  E  sul  petto  infocato  e  crepitante. 

M  5.  Quindi  come  i  sospir  dal  fianco  esprime 

M  6.  E  si  contorce  e  sbufia  il  gran  gigante, 

»  7.  Fumo  e  foco  dal  sen  mugghiando  erutta. 

LIX. 

M  3.  Gli  altri  di  Flegra  alla  feral  montagna 

M  5.  Ond'ivi  il  passeggero  ancor  si  lagna 

M  6.  Del  caldo  suolo,  e  il  pie  va  incerto  e  poco. 

»  7.  Della  divina  Creta  altri  satolle 


l54  YABUVTI 

Stara  LX« 

0  Yesevo  fatai  »  ta  die  la  piena 
Versi  iracondo  di  Ina  schioma  impura 

1  tuoi  torrenti  iooencbosi  affiena; 
Non  imitar  lo  scempio  e  la  mina 
Del  Grallioo  ladron  cLe  s'avyicina'^. 

LXV. 
Ai  superbi  cosà  parer  fé  caro 
Ai  cadati  suoi  figli  il  grembo  ayaro 
Allor  la  Terra  sospirando  apHo, 
E  di  cocenti  lagrime  dirotte 
Le  lor  membra  bagnò  filmanti  e  cotte. 

LXVI. 
£  fiuBaya  ella  por;  che  abbrustolire 
I  verdi  si  sentia  fohi  capelli, 
L'ampie  vene  de'finmi  e  de'msceUi. 
In  vapori  esalava  il  sno  soffrire» 
Gli  occhi  akando  oscurati  e  non  pia  belli: 
£  dal  manto  arso  tuttavia  scotea 
Le  celesti  faville ,  e  si  dolea. 

LXVIL 
Di  Saturno  Tudlk  l'inclito  figlio, 
£  pietà  n'ebbe,  e  il  fulmine  depose, 
n  primo  aspetto  alle  create  cose. 
Al  costume  dell'orbite  smarrite. 

Lxvm 

Ricondusse  la  vita  e  a'  morti  fiori; 
Pacificando  i  fremiti  sonori. 
'*  7.        Sdegnato  lo  guardasti:  egli  sdegoossi. 

LXIX 
»  7.        O  le  meUe  nudrici,  e  la  contrada 

LXXL 
»>  8.        £  da  te  scende  il  rege,  e  ti  somiglia. 

Lxxn. 

»  5.  A  te,  Giove,  i  regnanti,  e  tu  >  pensieri 

»  6.  Ne  tempri,  0  padre,  e  ne  proteggi  i  fiiti. 

''  7.  Al  crudo  nembo  ch'or  gli  awolve  e  preme, 

^>  8.  Deh!  tu  li  togli,  e  te  difendi  insieme. 

*)  Le  sUnae  LXI,  LXII,  LXIU  •  LXIV  dell'edmcne  MikiMse,  con  pochi  caotbiamaiU, 
erano  il  principio  del  secondo  canto  dell'  ediiione  Romtna. 

VEditmrt. 


V. 

2. 

» 

3. 

J* 

6, 

M 

7- 

M 

8. 

M 

3. 

M 

5. 

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6. 

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7- 

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8. 

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1. 

M 

2. 

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4. 

9» 

5. 

99 

6. 

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7- 

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8. 

99 

I. 

99 

3. 

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4. 

99 

7- 

» 

3. 

>* 

6. 

DELLA  mSOOONIA.  l55 

Starsa  LXXIII. 
(Questa  stanca  non  è  nell*  edizione  romana j  in  essa  il  Canto 
termina  colle  Stanxe  seguenti:) 

Gasare  salva,  che  U  auguste  gote 
All'egra  Europa  rasciugando  Tiene ^ 
E  la  Franca  sul  Reno  idra  percote 
E  i  yacillanti  troni  erge  e  sostiene. 
Salvalo;  e  tante  fumeran  devote 
L'are  al  tuo  oume  sulle  vinte  arene, 
Che  men  poscia  ti  fia  dolce  e  gradilo 
D'Etiopia  l'ospizio  e  il  pio  convito. 

E  voi  9  Numi  del  Frigio  pellegrino, 
Cui  dier  le  fiamme  rispettose  il  passo. 
Dèi  Penati,  e  tu,  Marte,  e  tu,  Quirino, 
Che  immoto  del  Tarpeo  serbate  il  sasso; 
Voi  che  tutu  dell'Italo  destino 
Mai  non  volgete  la  potenza  in  basso. 
Contro  il  Gallo  fellon,  che  varca  il  monte, 
Destatevi,  e  levate  alto  la  fronte. 

Pietà  d^'Ausonia,  a  cui  di  pianto  un  rio 
Bagna  la  guancia  delicata  e  casta, 
E  nel  sen  v'addimostra  augusto  e  pio 
n  solco  ancor  della  vandalio' asta. 
Assai  pagò  la  dolorosa  il  fio 
D'antiche  colpe  che  Than  doma- e  guasta. 
Deh!  più  non  la  percota  iniqua  spada; 
Che  non  v'ha  parte  intatta  ov'ella  cada. 

Tu,  Germanico  Eroe,  che  in  biondo  pelo 
Mostri,  invitto  Francesco,  alto  consiglio, 
Tu  ricomponi  alla  piangente  il  velo, 
Ch'ella  t'è  madre,  e  madre  prega  al  figlio. 
Yien,  pugna,  e  salva  la  ragion  del  Cielo; 
Che  ben  per  Dio  sì  corre  ogni  periglio; 
Vieni,  e  al  furor  del  seme  empio  di  Brenno 
Il  petto  opponi  di  Camillo  e'I  senno. 

Fine  del  canto  /. 


i56  TÀKunTi 


Prìndpio  del  secondo  Canto  della  Musogomia 
stampato  in  Soma  presso  Luigi  Perego  Salmni. 


n  saero  deUe  Muse  alto  concento  (*) 
Del  ciel  rapito  gli  ascoltanti  avea; 
Tacean  le  Dìtc,  e  disioso  attento 
Ogni  Nome  i'  orecchio  ancor  porgea. 
Il  rivo  dell'ambrosia  i  pie  d'argento 
Fermare  anch'esso  per  udir  parea, 
E  Inngo  r  immortai  santissim'  onda 
Né  fior  Taorette  perootean,  ne  fronda. 

n 

Qnal  yiensene  rìdendo  il  primo  albore 
Le  amanti  a  rìsyegliar  rose  pudiche, 
Tal  discese  agli  Dei  dolce  sul  core 
La  rimembranza  delle  glorie  antiche. 
Rammentò  ciaschedon  l'ira  e  il  terrore 
Di  quell'alto  certame,  e  le  fatiche: 
Polibote  a  Nettuno,  e  gli  Aloidi 
Alla  mente  tomAr  de'Latonidi 

m 

Ragionò  del  crudel  Porfirione 
Li  man  scotendo  l'onorata  dava 
n  figliuolo  fatai  d'Anfitrione, 
E  magnanimo  e  grande  passeggiava. 
Ha  delle  Muse  l' immortai  canzone 
Te  più  ch'altri,  o  Minerva,  dilettava, 
Te,  che  il  primo  recasti,  o  Dea  tremenda. 
Soccorso  al  padre  nella  pugna  orrenda; 


(*)  Non  credo  di  dover  dùginogen  dal  oonioito  deOe  tnisegnenti  qvesU  ptime  qnittro 
otUTCf  qnutuoqne»  conio  ho  di  già  avrartito»  siano  dall'antoro  ttale  trasportale  ndl'  unio» 
canto,  a  coi  gli  pièeqoe  di  ridurre  il  poenu.  X'JSA'Awv. 


DBXJJL  KV80GONU  ìSj 

TV 

Né  alle  sacre  cavalle  in  mar  tergesti 
I  polverosi  fianchi  insanguinati, 
Né  1  gradito  a  gustar  le  conducesti 
Fresco  trifoglio  ne'  cecropj  prati  j 
S'ai  terrigeni  in  pria  morder  non  festi 
La  sabbia  in  Flegra,  e  non  fur  pieni  i  £iti 
I  fati  che  ponean  Giove  in  periglio 
Senza  il  braccio  d'Alcide,  e'I  tuo  consiglio. 


In  cielo  adonque  nata,  in  cielo  udire 
Fé  poesia  sue  prime  alte  parole, 
E  la  sublime  verità  vestire 
Del  vel  le  piaccpie  di  profonde  fole. 
Come  poi  scese  in  terra,  e  gli  odj  e  l'ire 
Qui  temprò  di  Giapéto  all'empia  prole. 
Ditelo,  o  caste  Dee;  che  vostra  è  l'opra: 
Né  dritto  parmi  che  d'oblio  si  copra. 

VI 

Quel  saggio  delle  cose  Autor  primiero, 
Che  del  mondo  miglior  fu  l'architetto, 
Imprimendo  con  raro  magistero 
Nel  limo  inerte  il  suo  celeste  aspetto, 
Già  l'uom  formato  avea,  ch'alto  il  pensiero 
Al  cielo  ergesse,  e  l'ardua  fronte  e  il  petto, 
L'uomo,  animai  bellissimo  e  divino. 
Delle  steUe  compagno  e  cittadino. 

vn 

Ei  norma  de' creati  enti  e  misura. 
Pieno  dell'aura  dell'eterno  Spiro, 
Strappar  dovea  (piel  velo  alla  natura. 
Che  a  spron  fu  posto  dell'uman  desiro, 
E  la  cagion  s velame,  e  con  secura 
Mente  il  vasto  abbracciar  sidereo  giro; 
E  nell'opre  del  Nume  i  pensier  sui 
Immerger  tutti,  ed  inchinarsi  a  lui. 


i58  TAUAim 

vin 

Lui  rayyitar  fra'!  tuono  ed  il  baleno 
Passeggiarne  sol  dorso  alle  procelle; 
Lui  nel  riso  de' fiori,  e  nel  sereno 
Tremolare  ddl'onde  e  delle  stelle; 
Nel  Tennicciaol  che  striscia  in  sul  terrenOy 
Nel  leon  che  sonar  fa  le  mascelle , 
£  tutte  brame  sottopor  felice 
Alla  ragion  dell'alme  imperatrice. 

IX 

Ha  di  bujo  e  d'error  cinte  le  genù 
Vivean  ne' boschi  orrenda  yita  in  tatto. 
Feroci  al  par  de' setolosi  annenti 
Pasceansi  l'epa  del  caonio  fratto; 
E  contro  i  nembi  e  il  flagellar  de'yenti 
Yestìan  di  frondi  il  corpo  fero  e  bratto. 
Disputando  sovente  nelle  selve 
U  cibo  e  l'onda  alle  medesme  belve. 


Libera  errar  la  colpa  si  vedea 
Di  Cerro  armata,  e  il  fianco  nuda  e  il  basto; 
Che  a  noi  non  era  ancor  discesa  Astrea 
Del  giusto  a  por  le  mete  e  dell' ingiusto  ; 
Bla  sola  il  capo  fra' mortali  ergea 
L'abborrita  ragion  del  pivi  robosto. 
Ahil  ch'ella  troppo  allor  gigante  nacque, 
E  tiranna  divenne,  e  più  non  giacque. 

XI 

Nel  vigor  dunque  delle  forti  braccia 
Tatto  quei  crudi  riponean  lor  dritto. 
Ognun  di  sé  pensoso,  ognuno  in  traccia 
Del  proprio,  e  nullo  del  comun  profitto. 
Prostrata  la  Pietà  tenea  la  faccia, 
L'uman  piangendo  universal  delitto, 
Ed  Innocenza  al  prato  ed  al  ruscello 
Iva  errando  col  cervo  e  coli' agnello. 


.  DELLA  msoeosik  159 

XU 

Quindi  uè  d"alma  né  di  cor  TÌitute, 
Non  infiammati  d'amiciiia  i  petti, 
Non  di  nome  timor,  non  conosciate 
Del  talamo  le  leggi  e  degli  afietti. 
Le  Todi  tutte  dell'onesto  mate, 
Turpi  e  roxù  di  Venere  ì  diletti; 
Che  d'or  gli  strali  allor  non  ebbe  Amore, 
Nò  compagne  le  Grazie  ed  il  Pudore; 

xin 

Afa  violenta,  ma  lascÌTO  istinto. 
Né  da  ragion,  né  da  rimorsi  domo, 
Sì  che  parre  comune  e  non  distinto 
Del  quadrupede  il  rito  e  quel  dell'uomo. 
Questo  sol  loderò,  che  di  non  finto 
Amor  fii  presto  un  fior  soyente,  un  pomo. 
Or  costume  sì  santo  Amor  rifugge, 
E  per  auro  si  compra,  e  si  distrugge. 

XIV 

Cosperse  un'altra  naturai  dolcezza 
Lor  vita,  e  tenne  di  yirlude  il  loco  : 
Grande  nel  poco  possedean  ricchezza, 
Né  penuria  giammai  vi  fu  del  poco. 
Era  il  resto  ferocia,  era  stoltezza, 
L'uom  dell'uomo  avversario  e  di  sé  gioco  ; 
E  sull'orrido  volto  la  bell'orma 
Tutta  perduta  dell'eterea  forma. 

XV 

Di  là,  donde  col  guardo  il  mondo  scote, 
Mirò  Giove  la  terra,  e  ratto  avvisto 
Che  di  Pandora  la  funesta  dote 
L'orbe  allagava  desolato  e  tristo. 
Pietà  di  padre  il  vinse,  e  delle  gote 
Il  bel  sereno  annuvolar  fu  visto; 
E  poiché  darne  aita  in  cor  concluse, 
Voi  mandò  sulla  terra,  o  sante  Muse; 


l6o  TARUIITI 

XVI 

Voi  delToomo  conforto,  e  àtf^  Dei 
Eterna  Tolottà,  Toi  che  reine. 
Sole  reine  degli  affetti  miei. 
D'onesto  allòr  nu  proteggete  il  crine, 
E  il  timor  di  destini  ingiusti  e  rei 
Bli  soggetute  al  pie,  Ninfe  divine  ; 
Ond'io,  se  nembo  mi  minaccia  infido. 
Con  Toi  tocco  la  cetra,  e  canto  e  rido. 

xvn 

Del  bnon  Hercorio  adunque  e  del  figliuolo 
Di  Latona  movendo  in  compagnia, 
Al)bandontr  le  Muse  il  patrio  polo , 
£  yeioci  quaggiù  preser  la  via. 
Al  partir  delle  Dee  tristena  e  duolo 
In  ciel  si  sparse,  e  un  firemere  s'udia, 
E  tale  un  lamentar,  che  d'improvviso 
Morto  il  gaudio  vi  parve,  e  spento  il  riso. 

xvni 

Due  son  d'oro  lassi  porte  stupende. 
Che  d'Itaca  nell'antro  altri  già  pose: 
Degli  Dei  l' una,  al  ciel  nel  segno  ascende 
Che  vi  fan  d'Amaltea  le  stelle  acquose; 
E  degli  uomini  l'altra,  in  già  discende 
Per  le  branche  del  Cancro  luminose. 
Quella  le  Muse  in  ciel  condotte  avea, 
E  questa  in  terra  le  riconducea. 

XIX 

Fin  sulle  soglie  contristati  e  spessi 
Le  accompagnaro  i  Numi,  e  qui  segufo 
Un  suon  di  baci,  un  gareggiar  d'amplessi, 
E  di  tenere  voci  un  mormorio. 
Uscir  d'Olimpo  alfine,  e  i  suoi  convessi 
Sonar  d'un  lungo  doloroso  addio; 
Poi  la  porta  si  chiuse,  e  Urania  bella 
Rimase  in  ciel,  di  nove  una  sol' dia. 


DELLA  MVSOGONIA  l6l 

XX 

Ella  scruna  in  ciel  rimase  al  freno 
Delle  saperne  rote,  e  di  là,  come 
Casto  amor  pioTe  de' mortali  in  seno, 
Di  Yener  ebbe  e  di  Celeste  il  nome. 
Scettro  ancor  le  fa  dato,  e  di  sereno 
Nimbo  le  Parche  le  fregiar  le  chiome  ^ 
Le  Parche  un  di  vedute  in  bianche  stole 
Cantar  sugli  astri ,  e  far  suo  trono  il  sole. 

XXI 

E  danzando  frattanto  ed  esultando. 
Dalle  curve  scendean  liquide  sfere 
L'alto  del  padre  ad  eseguir  comando 
Le  divine  sorelle  messaggere  ; 
Come  stelle  che  rapide  strisciando 
Soglion  di  notte  per  lo  ciel  cadere, 
E  trar  di  luce  a  tergo  un  lungo  solco. 
Argomento  di  nembi  al  pio  bifolco. 

XXII 

Il  venir  delle  figlie  alme  di  Giove 
Sentì  tosto  la  terra,  e  ne  sorrise, 
E  di  fior  care  temperanze  nuove 
Con  allegro  e  gentil  parto  sommise: 
E  dove  l'elee  stillò  mele,  e  dove 
Vesti  la  vite  porpore  improvvise: 
Si  celaro  i  colubri,  ed  appassito 
Sullo  stelo  chinossi  l'aconito. 

xxra 

Deposero  le  belve  immansuete 
I  feroci  costumi,  e  serbar  fede. 
Benigne  tutte  seguitando  e  quete 
La  melodia,  che  dolce  al  cor  le  fiede. 
Anche  il  platano  s'ebbe,  anche  T abete 
Ad  ascoltare  orecchio,  a  seguir  piede; 
E  l'onda  stupefatta  e  taciturna 
Fennaro  i  fiumi  colla  man  suU'  urna.  (*) 

(*)  L'auton  non  andò  più  ckre  colla  stampa  romana.  L'Editore. 

MoMTi.  Poemetti,  ii 


NOTE 


ALLA   MUSOGONIA 


Pio.  i3l. 

A  Varia  nelle  fiivole  è  rorìgine»  come  il  nomerò  delle  Biase.  I  Sicio- 
neti  ne  adorayano  da  principio  tre  solamente,  e  s.  Agostino^  lib,  I,  a, 
De  doeir,  dbrùt,  Ulastrando  un  passo  oscuro  di  Ausonio^  raccoota,  sul- 
l'aatorìtà  di  Varronej  che  ayendo  nna  città  delia  Grecia  (creduta 
Sicione)  ordinato  a  tre  valenti  artefici  di  scolpire  ciascuno  separata- 
mente le  tre  statue  delle  Muse,  con  promettere  un  premio  a  chi  le 
avesse  meglio  eseguite^  accadde  che  tutti  riuscirono  cosi  bene  nell'o* 
pera,  che  il  pubblico  stimò  buona  e  giusta  cosa  non  rigettarne  veruna^ 
e  eoUocarie  tutte  nel  tempio  d'Apollo.  Cosi  fu  fatto,  e  le  Muse  di  tre 
divennero  nove. 

Diodoro  racconta  diversamente  l'origine  di  queste  Dee,  dicendo 
ch'esse  furono  nove  donaelle  esperte  nel  canto  e  nel  ballo,  le  quali, 
•otto  la  diresione  d'un  generale  nominato  Apollo,  accompagnavano 
Osiride  nelle  sue  spedixioni  militari.  Altri  autori  altre  sentenze. 

Pio.  i3a. 

•  Questa  fra'  Mitologi  è  V  opinione  più  ricevuta.  Mnemosine ,  dea 
della  memoria,  come  il  suo  nome  stesso  significa,  era,  secondo  Esiodo, 
dell'infelice  famiglia  de' Titani,  e  perciò  sorella  di  Temide,  d'Iperio* 
ne,  e  di  molti  altri  personaggi  assai  celebri  nella  Teogonia  di  quel 
poeta. 

Ivi. 

3  Luogo  della  Beozia.  Esiodo  nella  Teogonia,  v.  53,  ne  assegna  il 
comando  aUa  madre  delle  Muse, 

Le  quai  feconda  nj  pTerio  giogo, 
A  Giove  padre  partorì  Mnemoiioe , 
D'Eleotifra  ubertoai  impeFatrìce^ 

E  Fedro,  copiando  Esiodo,  nel  prologo  del  lib.  III.' 

Pieriiiin  jugom  ìq  <pio  taaaiiti  cancta  MneiuutyiM 
J«TÌ  foBConda  noviei  artiam  pepeiit  dumun. 

Ivi. 

4  Chiamano  i  poeti  immortale  V  amaranto ,  perchè  conserva  lunga- 
mente il  suo  colore,  et  madtftKtm  aqua  rmiruciL  Plin.,  lib.  XXI,  e.  8. 


l66  HOTE 

Pag.  i33. 
S^Impe^fetto  del  verbo  olire,  che  invece  di  oUsàare  adoprasi  elegan- 
temente da  caitigati  scrittori.  Dante  nel  canto  XXVIII ,  y.  5,  6  del 

Purgatorio  : 

PvBDdfeado  la  camptgiui  lento  knto 
Stt  per  lo  suol  die  d' ogni  parta  oliva. 

E  Boccaccio:  la  quaU  di  rote,  dijiori  d'aranci,  e  tt aiiri  adori  tutta 
oliva,  NoT.  i5. 

Ivi. 

<»  Ninna  coaa  offende  tanto  Mnemosine,  cioè  la  memoria,  quanto  il 
torpore  simboleggiato  nel  loto  e  nel  narciso,  fiorì  consecrati  al  Sonno 
e  alla  Morte.  Il  citato  Plinio,  parlando  del  secondo,  dice  che  gratHe 
efiu  odor  torporem  affert,  e  Pindica  abbastanza  la  stessa  parola.  Quanto 
al  loto,  parlasi  dell'egiziaco,  pianta  simile  a  quella  del  papavero.  Il 
Sonno  rappresentasi  ordinariamente  con  questo  fiore  sopra  la  testa. 

Ivi. 

7  Favoleggiarono  i  poeti  che  la  rosa  a  Venere  sacra  fosse  prima  di 
color  bianco,  e  diventasse  poscia  vermiglia  col  sangue  di  questa  Dea 
che  ne  restò  ferita  nel  piede,  passeggiando  pe'suoi  giardini.  Altri  nar- 
rano che  una  tale  disgrazia  le  accadesse  in  un  dito  nel  battere  il  suo 
figlio  Amore  con  un  flagello  di  rose.  Nonno  poi  vuole  che  la  rosa  sia 
nata  dal  sangue  di  Adone,  come  l'anemone  dalle  lagrime  di  Venere. 

Pàg.  i33. 

'  Per  diritto  di  nascita  V  impero  del  Cielo  apparteneva  ai  Titani. 
Ma  Giove,  rimasto  lor  vincitore,  gli  escluse  dal  regno  paterno,  e  parte 
ne  cacciò  nel  Tartaro,  parte  ne  lasciò  andar  dispersa  sopra  la  terra. 

Ivi. 

9  La  condanna  dei  Titani  nel  Tartaro,  secondo  la  cronologia  de'Mi- 
tologi,  si  perde  in  età  remotissime.  Si  può  questo  inferire  dalla  sola 
favola  di  Prometeo,  il  quale,  secondo  Eschilo,  dopo  essere  stato  le* 
gato  trecento  secoli  alla  rupe  scitica,  fu  poi  precipitato  a  colpi  di 
fulmine  nel  Tartaro,  ove  rimase  molte  altre  migliaia  d'anni. 

Ivi. 

*o  Saturno  era  l' ultimo  dei  Titani.  Divenuto  padrone  del  Cielo  per 
la  transazione  fatta  con  Titano  suo  maggior  fratello,  fu  avvertito  dal- 
l'oracolo  che  i  propri  figli  l'avrebbono  privato  un  giorno  del  regno: 
per  Io  che  prese  il  partito  di  divorare  tutti  i  maschi  che  Rea  gli 
partoriva.  È  noto  come  Giove  venisse  sottratto  dalla  madre  alla  patema 
voracità.  Sopra  di  esso,  già  cresciuto  negli  anni  e  nell'audacia  dell'a- 
nimo, caddero  principalmente  i  sospetti  di  Saturno,  il  quale  perciò 
studiava  il  modo  onde  disfarsi  di  questo  figlio  intraprendente  e  peri- 
coloso. Ma  Giove,  accortosi  delP  insidia,  prevenne  il  padre,  lo  mise  in 
carcere^  e  dopo  qualche  tempo  lo  esigilo  da  tutto  il  regno  celeste. 
L'esule  Saturno  si  ricovrò  in  Italia,  ove  fu  accolto  da  Giano  con  molta 
ospitalità.  Vedi  il  di  più  nel  primo  dei  Fasti  Ovidianì  e  nclF  ottavo 
delP  Eneide,  v.  Ssq^  ove  intendesi  la  ragione  per  cui  fa  detto  aver 


AZXi  MVSOGONIÀ  167 

egli  porUU  l'età  deU'oro  in  Italia»  che  dal  tio  boom  lii  chiamata 
SatumÙL 

Pag.  i33. 

■  ■  Figlio  di  Peìasgo.  Fa  il  primo  a  passare  in  Italia  con  uni  colo* 
nia  di  Greci,  dal  che  gì' Italiani  si  appellarono  snoi  nepoti. 

Iyl 

>*  Piglia  d'Eretteo  re  di  Atene  9  rapita  dal  vento  Borea  re  della 
Tracia.  Non  é  oziosa  V  espressione  iptròorw^  tcoglio ,  perchè  allude 
alla  spelonca  di  Borea  di  cai  parla  Callimaco;  insegnandoci  che  da 
quella  si  scatenavano  le  sue  procelle  {^Bjrmn,  in  Diaru),  e  che  stava 
in  essa  la  mangiatoia  dei  cavalli  di  Marte  {^Hjrmn.  in  DeL) 

Pào.  i34« 

>3E  fu  realmente  in  questa  sembianza  che  Giove  deluse  Blnemo- 
sine:  circostanza  taciuta  da  Esiodo,  ma  toccata  da  Ovidio  nel  sesto 
delle  Metamorfosi.  Sidonio  ,  carm.  iS,  v.  175,  dice  in  figura  non  di 
pastore^  ma  di  serpente^  e  confonde  la  favola  di  Mnemosine  con  quella 
di  Proserpina. 

Ivi. 

>4  Amore  4  beffandosi  delle  delicatezze  di  Giove  ^  non  accostumato 
ancora  alle  frodi  amorose ^  gli  predice  le  future  sue  metamorfosi;  e 
come  sarebbesi  trasformato  in  toro  per  Europa,  in  serpente  per  Pro- 
serpina, in  aquila  per  Asteria,  in  cigno  per  Leda,  in  pioggia  per  Da* 
nae,  in  fuoco  per  Egina,  e  in  satiro  per  Antiope.  Vedi  il  citalo  Ovi- 
dio, Metamorfosi  lib.  VI,  ove  tutte  queste  favole  sono  rapidamente 
accennate  nella  tela  d'Aracne* 

Pag.  i35. 

>S  II  moto  delle  chiome  e  de'sopraccigli  era  l'atto  più  maestoso  di 
questo  Dio.  È  mirabile  il  passo  d^Omero,  nel  primo  dell'  Iliade^  allor- 
die  Giore  promette  a  Tetide  la  vendetta  d'Achille: 

Dine)  e  Q  gnu  6glio  di  Saturno  i  neri 
Sofmedgfi  ìiicIimi&.  Su  P  immartele 
Capo  del  Sire  le  dirine  cUone 
Oadaggieio,  •  tnoMBiie  il  vello  OnflB|Ki. 

Dalla  qual  soblime  immagine  tolse  Fidia  il  pensiero  del  suo  Giove 
Olimpico  e  Orazio  il  concia  $up€rcilio  mot^entis,  tanto  lodato. 

Ivi. 

>6  Nessuno  degli  Dei,  tranne  Pallade ,  aveva  forza  bastante  per  ma- 
neggiare i  fulmini  di  Giove.  Illustreremo  questo  passo  di  favola  con 
molti  esempi  di  bella  poesia.  Sia  primo  Virgilio,  En.  I,  t.  i6,  ore 
parla  della  vendetta  di  Pallade  contro  Ajace  d'Oileo. 

Ipn,  Joirii  rqncliiDi  iecnkte  e  nobibttt  ignem, 
Disjediqoe  ratei,  erertitqiae  lequon  ventili 
Hliun  ci^inntem  tnnifixo  pectore  flammei 
Tnriiine  eerripuit,  |oopiiloq[iae  infbdt  acato. 

Dopo  Virgilio  daremo  luogo  a  Quinto  Calabro,  lib.  I  de' suoi  Para* 
lipomeni,  aUorehè  GioTt  consegna  a  Minerya  il  suo  falmine  per  Vìtt- 


i68  iroTB 

dicaU  yendetta.  Mi  proverà  di  indurne  i  reni,  cb«  mi  semluruio  non 
indegni  d'Omero: 

Dioe;  e  il  npàdo  Impo^  é  b  hnttUM 
F(9gare,  e  il  tuono  ttum-tolof  di  tana 
A  pik  àéP  mtpn  intrepida  «hnauBa 
Depose;  e  tatto  per  la  gto)a  il  core 
Fianmeggiò  deBa  Diva.  Inoontanenu 
L'egida  pnae  poderosi  e  Mlda, 
D' ogni  lato  oonuca^  e  tal  die  il  guardo 
Lo  itesao  sgnaido  diigottia  de'  Nomi  ; 
Ch^  fculto  v'era  di  Medusa  il  ca^ 
Terribile  nel  meno,  e  aoTn  il  capo 
Molta  e  gran  fona  d'inestinto  fòco 
SoflSavano  le  serpi.  Alto  sol  petto 
Della  reina  risonar  s' udia 
Tatto  quanto  Io  scado,  in  qudla  guisa 
Cbe  di  fulmini  pieno  fl  del  rimbomba. 
Indi  1*  arme  impugnò  del  genitore  , 
Cui  de'  nomi  trattar  altri  non  osaj 
Lo  aoosse,  e  ne  tremò  l'immenso  Olimpo. 

Euripide  nelle  Troadi  introduce  Pallade  che  si  gloria  della  promessa 
fattale  da  Giove  di  darle  il  suo  fulmine  per  vendicarsi  dei  Greci;  ed 
Eschilo  fa  che  questa  Dea  si  vanti  di  saper  ella  sola /ha  gli  Dei  ove 
stanno  riposte  le  chiatti  dell'armeria  in  cui  si  custodiscono  ijidmini  di 
Giove* 

Seneca  nelP  Agamennone  tocca  questo  medesimo  privilegio,  dicendo: 
Juhnine  Jouis  armata  Pallasj  e  vi  allude  anche  Valerio  Fiacco  nel  IV 
deU'Argonautica  ^  v.  670: 

Prima  cornicanti  aignum  dodit  «gide  virgo 
Fulmineam  jaculata  &cem. 

Non  debbesi  tacere  un  passo  d'Aristide  che  nell'  Orazione  seconda 
lasciò  detto  che  la  sola  Minerva  si  adoma  delle  armi  paterne.  Anche 
in  alcune  medaglie  di  Domiziano  vedesi  nel  rovescio  Pallade  che  im- 
pugna il  fulmine. 

Pag.  i35. 

s?  Fra  i  pensieri  dell'immortale  Pikler  uno  ne  fu  trovato^  quando 
egli  venne  a  morire,  disegnato  in  matita  rossa,  rappresentante  Amore 
col  fulmine  in  pugno  in  atto  di  scherzo;  pensiero  che  quel  sommo 
artefice  aveva  forse  in  animo  di  eseguire  in  cammeo  per  accompa- 
gnarlo ad  un  altro  ^  cui  potè  terminare  negli  ultimi  giorni  della  sua 
vita,  rappresentante  lo  stesso  Amore,  che  tiene  sospesa  per  le  ali  una 
farfalla,  e  ridendo  l'abbrucia.  Ho  cercato  di  colorire  in  verso  il  primo 
di  detti  pensieri,  ed  ora  il  restituisco  con  trasporto  alla  memoria  di 
quel  grand'  uomo ,  solla  cui  tomba  la  tenerezza  di  figlio  mi  fa  spar- 
gere questo  fiore  di  gratitudine. 

Ivi. 
.  *BHo  avuta  qui  di  mira  una  bella  immagine  del  non  sempre  sb»* 


ALLA  MUSOGONIX  169 

▼agante  Nomio  nelle  Dionisiache,  lib.  I,  t.  i5o,  ove  parla  dei  fulmini 
che  Giove  naaconde  in  una  apelonea  per  giacersi  liberamente  con 
Plotide^  che  fti  poi  madre  di  Tantalo.  Ne  tradurrò,  come  meglio  m- 
prò ,  i  versi  che  mi  paiono  del  carattere  omerico  più  sablime  : 

Eruttavano  al  del  globi  di  forno 
Le  Icflgorì  naaooM,  onde  dintorno 
Di  bianca  dÌTenìa  n^^ra  la  rupe. 
1>egli  strali,  che  punta  banno  di  loco, 
Facea  P  occulta  ed  immortai  icintiUa 
BoDir  l' urne  de*  fonti ,  e  la  eoounofsa 
Del  Migdonio  tomnte  alta  vorago 
MTettea  vapori  gorgogliando  e  ^nma. 

Pag.  i35. 

*9  Cognome  derivato  a  Giove  dalla  capra  che  lo  allattò,  non  dall'e- 
gida, come  altri  pretendono.  Che  anzi  l'egida  non  desunse  altronde 
il  suo  nome  che  dalla  pelle  di  quella  capra,  perchè  di  essa  ricoperse 
Giove  il  suo  scudo  quando  andò  a  combattere  coi  giganti.  Divenne  poi 
sinonimo  dello  scudo  ancora  di  Pallade  :  lo  che  sia  detto  per  togliere 
V  errore  di  alcuni  che  confondono  P  egida  di  Giove  colPegida  di  Minerva. 

Ivi. 

•^  Non  apparisce  infatti  nella  Mitologia  veron' altra  frode  amorosa 
di  Giove  prima  di  questa.  Egli  aveva  però  avute  fin  d'allora  due  altre 
mogli,  Meti  figlia  dell'Oceano,  e  Temide  madre  delle  Ore. 

Pào.  i36. 

•■  Fu  Anchise  un  pastore  Trojano  amato  da  Venere,  che  l'alzò  al- 
l'onore  de' suoi  amplessi  a  patto  di  non  rivelare  ad  alcuno  la  sua  for- 
tuna. Non  l'avendo  egli  saputa  celare,  ed  essendosene  incautamente 
vantato  fra'  suoi  amici ,  Venere  ne  fece  lagnanza  con  Giove ,  che  su- 
bito lo  fulminò.  Mossa  allora  la  Dea  a  compassione  dell'infelice,  deviò 
il  fulmine,  ma  non  tanto  che  la  vampa  e  l'aria  dal  fulmine  agitata 
non  lo  colpisse,  e  infermo  e  debole  lo  rendesse  per  tutto  il  tempo 
della  sua  vita.  Odasi  come  ricorda  egli  stesso  la  sua  disgrazia  nel 
secondo  dell'Eneide,  v.  647: 


Jampridet  inritw  Ditii,  et  iontilis  annoe 
Demoior}  ex  qoo  me  divijbn  pater  alqne  hominum  rei 
Fohninit  aflarit  ▼entis,  et  contigift  igni. 

Ivi. 
**  k  chi  non  noto  l'incesto  di  Mirra?  Cacciata  dal  padre  andò  ella 
vagando  in  Arabia  col  frutto  del  suo  delitto  nel  seno  5  finché  gli 
Dei  la  convertirono  per  compassione  nella  pianta  di  questo  nome. 
Venuto  il  tempo  del  parto,  si  apri  la  corteccia,  e  coli' aiuto  delle 
Najadi  che  fecero  la  vece  di  levatrici,  ne  nacque  Adone,  amato  tanto 
da  Venere,  e  cagione  fra  i  posteri  di  tante  superstizioni.  Si  avverta 
per  cagione  di  questa  nota  che  Adone  fu  pastore  ancor  esso.  Et/ov' 
moiUi  ov€$  adflumina  payit  Adonù.  Virg.,  £g.  X,  18. 

Moiri.  Poemeth,  1 1 '^ 


1^0  NOTE 

Pag.  i36. 

a3  Ecco  un  altro   pastore  drudo   d'ana    Dea.  Stava  egli  dormendo 

nella  spelonca  di  Latmo,  monte   della  Caria,  quando  Diana,  lodata 

tanto  per  pregio  di  castità,  lo  vide,  e  ne  fu  presa  d'amore.  Cosi  En- 

dimione  fece  la  vendetta  della   Ninfa  Callisto,  maltrattata  da  quella 

Dea  per   non  aver   saputo   custodire  la  sua   virginità  ;  e  la  fece  pur 

d'Atteone ,   trasformato   da  lei  in  cervo ,  e  lacerato  dai  propri  cani , 

perché  ebbe  la  temerità  di  mirarla  nuda  mentre  si  bagnava  nel  fonte 

di  Gargafia. 

*  Ivi. 

H  Non  è  diverso  in  Omero  il  talamo  di  erbe  e  di  fiori  che  la  terra 

somministra  a  Giove ,  quando  si  addormenta  in  braccio  a  Giunone  sul 

monte  Ida. 

Pag.  137. 

»&  Era  alle  falde  del  Parnaso  una  spelonca  che  al  riferire  di  Pan- 
sania  fu  sacra  primieramente  alla  Dea  Tellure  (la  stessa  che  Vesta), 
la  quale  mandava  di  là  i  suoi  oracolL  Vesta  cedette  poscia  il  suo  tri- 
pode a  Temide,  e  Temide  ad  Apollo  quando  divenne  preside  delle  Muse. 

Ivi. 

•6  Si  accennano  i  due  più  celebrati  poemi  :  la  Pietà  di  Enea,  e  V  Ira 

d'Achille. 

Ivi. 

>7  Esiodo  non  descrìve  altrimenti  il  loro  viaggio  all'Olimpo: 

Esultando  le  Dive,  e  la  genlile 

Voce  foggiando  in  immortai  concento  , 

AttESltsì  all'Olimpo.  ADa  divina 

D<^1*  inni  melodia  tutta  dintorno 

Echeggiava  la  terra;  e  le  domells 

Verso  il  padre  affiettando  il  passo  allegro. 

Destavano  per  via  grato  ad  udirsi 

Un  tripudio  di  piedi. 

Teog.  V.  68. 

Pag.  i38. 

^  Platone,  che  era  tutto  armonia,  si  avvisò  nei  sublimi  suoi  sogni 
di  porre  in  cielo  nove  Sirene  che  incessantemente  cantavano,  e  rego- 
lavano le  sfere  a  forza  di  melodia.  Queste  non  erano  in  sostanza  che 
le  nove  Muse  sott' altro  nome,  alle  quali  attribuiva  quel  filosofo  il 
governo  dell'universo  si  morale  che  fisico.  E  s'egli  avvenne  che 
bandisse  poi  i  poeti  dalla  chimerica  sua  repubblica,  ciò  fu  solamente 
per  la  paura  che  i  poeti,  arbitri  del  cuore  umano 5  non  turbassero  la 
tranquilla  apatia  de' suoi  cittadini,  ch'egli  voleva  esenti  affatto  dalle 
passioni.  Dal  che  si  conclude  che  l'ostracismo  platonico,  lungi  dall'essere 
un'ignominia  per  i  poeti,  è  anzi  il  massimo  degli  encomj.  Mi  si  per- 
doni questa  digressione  in  grazia  di  un'arte  di  cui  sembra  che  pochi 
conoscano  l'importanza  e  la  dignità. 

Ivi. 

^9  Questa  è  la  costellazione  di  Capricorno,  o  sia  della  capra  Amal- 
tea ,  detta  olenia  perchè  nutrita  nei  prati  di  Oleno,  città  dell' Acaja. 
Olenium  astrum  l'appella  anche  Stazio,  Teb.  lib.  IIJ,  y.  25  e  altrove. 


ALLA  MVSOGOmX  IJl 

PàO.   i38. 

3o  II  segno  di  Capricorno  é  sempre  pioyoso:  Naacitur  oUma  tidus 
pluviale  capella.  Or.  Fast.  lib.V^  ii3.  Quantus^  ab  occtuu  uenieru^  pluvia" 
libua  HtHUs,  ferberai  imber  hwnum,  Virg.  En.  9  lib.  IX,  y.  668,  G6gMfec 
OUniis  manani  tot  cornibut  imbres.  Stazio,  Teb.  lib.  VI,  v.  4^3* 

Ivi. 

3>  Dae  sono,  secondo  i  Mitologi,  le  porte  del  cielo,  situate  ana  nel 
tropico  del  Capricorno,  l'altra  in  quello  del  Cancro.  Per  la  prima  le 
anime  ascendono  in  cielo,  per  la  seconda  discendono  in  terra.  Perciò 
quella  chiamasi  degli  Dei ,  questa  degli  uomini.  Ne  parla  Macrobio 
nei  Saturnali ,  e  pia  eruditamente  Dupuis ,  Origine  de  tou»  le$  cuUes. 

Ivi. 

3a  Tre  erano  dapprima  le  Ore ,  Eunomia ,  Dice ,  Irene.  La  più  an* 
Uca  Mitologia  le  fa  portinaje  del  cielo,  in  cui  introducono  a  lor  pia- 
cimento la  nebbia  e  la  serenità;  Omero,  II.  lib.  V.  Posteriormente 
divennero  ancelle  del  Sole,  a  cui  apparecchiavano  il  carro  e  i  cavalli. 
Jungere  equos  Titan  uelocibus  impetra  Horis,  Or,  Met  lib.  II,  11 8« 
Altri  ne  contavano  nove,  altri  dieci,  come  tornano  a  far  adesso  i  Fran- 
cesi. Sette  ne  ha  poste  Guido  intorno  al  carro  del  Sole  ncll'  Aurora  di 
Rospigliosi 4  e  fino  a  ventiquattro  le  ha  portate  il  Marini: 

Dodici  bruM  e  dodici  Termiglie. 

Ivi. 

33  II  titolo  di  reine  è  comune  presso  i  poeti  a  tutte  le  Dee  di  pri- 
mo ordine.  Beine  son  chiamate  espressamente  le  Muse  negl'Inni  orfici; 
e  regina  Calliope  disse  Orazio  e  come  Musa  e  come  la  prima. 

Pag.  iSg. 

34  De' primi  sei  versi  di  quest'ottava  renderà  ragione  Ovidio,  Met. 
lib.  ìf  168: 

Eit  Tia  suUimis  colo  manifesta  senno  : 
Lattea  nomen  habet,  candore  notabilis  ipoo. 

dextra  laevaque  deorum 

Atria  noKilinm  Talvis  celebrantor  aperti*. 
Plebe  habitat  diverta  locU. 

Dei  quattro  seguenti  renderà  ragione  Stazio,  Teb.  lib.  I,  descrivendo 
ì  Ntimi  che  vanno  in  folla  a  consiglio: 

mox  turba  ▼agonim 

Semideùm,  et  summis  cognati  Nubibns  Amnes, 
Et  compressa  meta  tervantes  mormura  Venti. 

£  rendere  io  ragione  adesso  perchè  Stazio  ed  Ovidio  abbiano  intro- 
dotte in  cielo  queste  deità  vagabonde  e  plebee;  e  commentando  i  due 
poeti  latini,  avr^  difeso  me  stesso.  Erano  varie  presso  gli  antichi  le 
specie  degli  Dei.  Perocché  altri  possedevano  la  pienezza  della  divi- 
nità ^  e  chiamavansi  Dei  massimi;  altri  la  possedevano  imperfetta,  e 
questa  appellavasi  la  plebe  degli  Dei ,  come  i  Venti ,  le  Nebbie ,  i 
Piami,  ec.  Quanto  alla  divinità  delle  Nuvole  e  delle  Nebbie,  può  ve- 


] ya  MOTE 

deni  la  derisione  con  coi  le  tratU  Aristofane;  sebbene  negl'Inni  or^ 
fici  siano  invocate  con  tutta  la  serietà  come  Dee.  Quanto  a  quella 
dei  Turbini  e  delle  Tempeste,  odasi  Cicerone  (lib.  Ili  Ih  Noè,  Deor.)i 
Quod  si  nubes  retuleris  in  Deoi,  refòrendof  certe  erunt  tempeetateSs 
qum  populi  romani  rkìbui  consecrajut  sunt.  Ergo  imbres,  procellm,  ficr- 
bines  sunt  dU  puuutdL  Qie  per  tali  si  avessero  realmente ,  lo  racco- 
gliamo in  primo  luogo  dallo  stesso  Ovidio  tiel  VI  dei  Fasti ,  v.  198: 

Te  quoque,  tempeitas,  mmUim  delubra  firtemm, 
Cnm  pene  eit  Conif  obruU  dasiis  aqoii. 

Lo  raccogliamo  da  Virgilio,  quando  Enea  nel  lib.  Ili  sagrìfica  n^rtmi 
Hyemi  pecudem,  e  nel  V  nuovamente  Tempestaiibus  agnam.  Lo  racco- 
gliamo da  Orario  neiP  ode  X  Epod.  libidinosus  immolabitur  caper  ^  Et 
agna  Tempestatibus,  E  finalmente  lo  raccogliamo  da  una  buffonerìa  del 
citato  Aristofane  nelle  Mane,  facendo  dire  a  Bacco:  Un' agnellai  presto 
un*  ugnella  nera^  o  ragazzi,  perchè  un  turbine  di  parole  minaccia  di 
scoppiare.  Mi  sono  diffuso  alquanto  su  questo,  passo  per  quietare  i 
timori  d'  un  critico  a  cui  pareva  che  mi  fossi  abbandonato  troppo  al 
capriccio* 

Pào.  139. 

35  Giove  per  dare  ad  Ercole  ancor  bambino  l'immortalità,  lo  ap- 
pressò un  giorno  alla  poppa  di  Giunone  mentre  dormiva.  Svegliatasi 
la  Dea,  e  respinto  da  sé  il  fanciullo,  venne  a  spargersi  il  divino  latte 
parte  pel  cielo,  e  fece  la  via  che  adesso  si  chiama  lattea  ;  parte  sopra 
la  terra,  e  diede  la  bianchezza  ai  gìgli  che  prima  erano  di  color  cro- 
ceo. Vogliono  alcuni  che  non  Giove,  ma  Pallade  facesse  quell'  inganno 
a  Giunone,  e  Natale  Conti  cita  un  verso  di  Licofrone  in  soccorso  di 
questo  parere.  Del  resto  a  tutti  è  noto  presentemente  che  la  via  lat- 
tea altro  non  è  che  un  aggregato  di  Soli  cosi  numerosi,  che  Herschel 
nelle  ultime  sue  osservazioni  asserisce  averne  distintamente  notati 
oltre  cinquanta  mila  nel  solo  arco  di  i5  gradi;  non  computandone  un 
numero  molto  maggiore  che  il  suo  gran  telescopio  debolmente  rac- 
colse, e  l'occhio  non  potè  fissare. 

IVL 

36  Era  frequente  fra  gli  Dei  il  costume  dei  doni  in  contrassegno  di 
particolare  benevolenza.  L'osserviamo  nelle  nozze  di  Tetide  con  Pe* 
leo ,  in  quelle  d' Ermìone  con  Cadmo ,  e  nella  prima  comparsa  che 
fece  in  cielo  Pandora.  Rende  poi  convenienti  i  doni  che  qui  si  fanno 
alle  Muse,  la  consuetudine  de'  poeti,  che  danno  lor  per  compagni  non 
solamente  le  Grazie,  Cupido  e  Venere,  ma  Bacco  ancora,  e  Mercurio, 
e  i  Satiri,  e  lo  stesso  Ercole,  la  clava  di  cui,  simbolo  di  fortezza,  di- 
venne particolar  distintivo  di  Melpomene,  per  significare  che  questa 
Musa  non  prende  ad  argomento  del  suo  canto  che  le  vicende  degli 
Eroi.  Intese  assai  bene  questo  costume  il  Raffaello  de' nostri  giorni, 
Mengs,  quando  nel  Parnaso  di  Villa  Albani  rappresentò  Melpomene 
colla  maschera  tragica  gettata  a  guisa  di  cappello  sopra  la  testa ,  e 
colla  destra  gravemente  appoggiata  sopra  la  clava. 


ALLi  IfOSOGONlA  ir3 


é 


Pao.  i4o. 
3?  Mereurìo»  nato  e  cresciuto  e  diTCDOto  ladro  tutto  in  mi  giorno^ 
•Tendo  troTata  il  giorno  medesimo  della  sua  nascita  una  testuggine 
per  caso 5  l'accise,  la  rotò  ben  bene,  e  tanto  vi  si  adoprò  intomo , 
che  tì  congegnò  sette  corde ,  e  cominciò  a  suonarle  con  maestria  ; 
questa  fu  l'inTenàone  della  lira.  Altri  la  narrano  diversamente;  ma 
tutti  ne  concedono  l' onore  a  Mercurio  »  il  quale  la  cedette  poscia  ad 
ApoUo  in  cambio  del  caduceo. 

Ivi. 
3B  La  sciensa  dell'  avvenire  era  singolarmente  propria  d'Apollo,  i  cui 
oracoli  superarono  tutti  gli  altri. 

Ivi. 

39  Pilo  i  Greci,  SuatUla  e  Suada  ì  Latini  appellarono  la  Dea  del- 
l'eloqnenaa.  Plutarco  ci  fa  noto  che  presiedeva  alle  none,  e  lo  con- 
ferma Fumuto,  avvisando  che  Venere,  oltre  le  Grazie  e  Mercurio , 
veniva  accompagnata  anche  da  Suada,  perchè  questa  Dea  persuadeva 
gli  amanti  coli' incanto  dell'eloquenza.  Né  stimo  che  la  pensi  diversa- 
mente Orazio  quando  ironicamente  enumera  i  privilegi  deUa  rìochesia 
(Lib.  I,  £p.  VI,  V.  36.): 

£t  glMM  et  lOnMBI  NigìllB  p6I.HUÌa  OQMt, 

Et  boM  rnimmatmn  deooni  Snadéla,  Yaaiii^. 

Ivi. 

40  In  tutta  la  seguente  poetica  dottrina  sulla  generazione  delle 
cooe  non  mi  sono  dipartito  punto  dalle  traode  d'  Esiodo  nella  Teo» 
gonia. 

4>  Allude  a  questo  pensiero  anche  l'inno  d'Onomacrito  ad  AmorCj 
attribuendogli  le  chiavi  dell'aria  ,  del  mare  e  della  terra. 

Ivi. 
4«  Platone  nel  Convito ,  ragionando  sulla  sentenza  d' Esiodo,  con- 
clude che  Amore  é  il  più  antico,  il  più  onorato,  il  più  degno  di  tutti 
gli  Dei*  Ebbe  in  vista  l'Amore  del  poeta  , greco  anche   Virgilio   in 
quel  verso  (Geoi^.  IV,  347  ): 

Alfigne  Cbso  daoM*  Diviim  niunonbat  amom. 

E  vi  alluse  più  chiaramente  Aristofane  negli  Uccelli  ^  quando  disse 
che  non  ebbe  esistenza  alcun  Dio  atfantì  che  Amore  ordinasse  e  fecon* 
dasse  tutte  le  cose. 

Pàg.  i4i* 

43  Luce  più  dia,  spera  più  dia,  region  più  dia  usò  Dante,  C.  x4, 
a5,  a6  del  Paradiso.  E  dias  luminis  auras  disse  Lucrezio,  lib.  I,  v.  aa, 
e  altrove  dia  pabuìa,  dia  otia. 

Ivi. 

44  Omero  parla  sempre  del  mare  come  d'un  fiume,  e  assolutamente 
fiume  lo  chiama  nel  penultimo  verso  dell' XI  dell' Odbsea.  Adottò 
questa  espressione  anche  il  principe  della  poesia  latina  quando  disse 
Oceani  spretos  pede  rtpulit  amnes  nei  quarto  delle  Georgiche.  E  Serse 
in  Erodoto ,  lib  VII ,  lagnandosi  del  mare ,  non  lo  chiama  con  altro 
titolo  che  di  Jiunw  amaro  e  fallace. 


174  ''o™ 

Pag.  i4y. 

45  NessiuMi  idea  più  vera  e  più  ripetata  di  quatta  nei  poeti  greci  e 
latini.  Qaindi  l' opinione  che  V  Oceano  fosse  generatore  di  tutte  le 
cose:  la  qoal  sentenza  Omerica  riscaldando  la  testa  di  Talete,  par- 
tori  il  sistema  di  quel  Glosofo,  riprodotto  poi  in  iscena  a*  di  nostri. 
Oli  pon  mente  alle  idee  degli  antichi  intelletti»  le  trova  spesso  rinate 
e  syUnppate  sott'  altro  aspetto  nei  cervelli  moderni  ;  e  neiramictzia  e 
inimicizia  dei  corpi  d'Empedocle  è  facile  ravvisare  il  sistema  delPat* 
trazione. 

Ivi. 

46  Bisogna  non  confondere  (  come  firn  molti  )  Teti  moglie  dell'Ocea* 
no  colla  Teti  Nereide  moglie  di  Peleo  e  nipote  della  prima. 

Ivi. 
4?  La  ragione  di  attribuir  le  coma  di  toro  ai  fiumi  si  ha  nello  Scoliaste 
di  Sofocle.»  il  quale  dice  che  rappresentansi  i  fiumi  col  capo  taurino 
per  significare  il  muggito  con  cui  sboccano  nel  mare.  Perciò  Virgilio 
nel  IV  della  Georgica»  v.  371:  Et  gemina  auìxmu  taurino  comua 
vuku  EridanMj  e  taurifbmùt  vob^itur  Atfidus^  Oraz.,  lib.  IV,  od.  f4- 
Ghe  anzi  Omero  paragona  il  muggito  dello  stesso  mare  a  quello  del 
toro»  qd  Euripide  nell'Oreste  gliene  attribuisce  immediatamente  la 
testa  chiamandolo  Taitrocrano, 

Ivi. 

48  Altre  sono  le  Nereidi,  altre  le  Oceanidi.  Qui  parlasi  delle  se* 
conde  »  che  erano  tre  mila  »  secondo  Esiodo  »  laddove  le  prime  non 
erano  che  cinquanta.  Si  attribubce  loro  la  cognizione  dei  fenomeni 
della  natura»  perchè  ordinariamente  lo  stesso  lor  nome  esprime  una 
qualità  fisica.  Dicast  altrettanto  delle  Nereidi. 

Pào.  143. 

49  Verdi»  perchè  algosi»  o  perchè  imitanti  il  colore  dell'acqua  ma- 
rina che  si  risolve  in  un  verde  cupo.  Perciò  Ovidio  nel  secondo  della 
sua  Arte»  v.  93  :  Clauserunt  uirides  óra  loquenUs  aqua;  e  precisamente 
nello  slesso  mio  caso  Glaudiano  {DeteruCons,  Honorii,  v.  197)  :  Fobis  Ionia 
virides  Neptunus  in  alga  Nutrii  eguos.  Né  in  altro  significato  debbeai 
intendere  il  uirideM  Nereidum  cornai  di  Orazio»  e  il  viride»  capillos  di 
Aretusa  in  Ovidio»  il  quale  nella  seconda  elegia  del  primo  dei  Malin- 
conici chiamò  espressamente  verdi  gli  Dei  marini  :  vùridesque  Dei^  qui'- 
bus  aquora  cura. 

Alipedi  poi  o  vogliasi  prendere  per  positivo»  ovvero  per  metaforico 
a  indicare  velocità»  l'epiteto  è  conveniente  nell'uno  e  nell'altro  senso; 
perocché  realmente»  quanto  al  primo»  i  cavalli  marini  si  rappresen- 
tano colle  zampe  che  terminano  in  cartilagini  alate»  come  quelle  degli 
uccelli  acquatici  \  e  quanto  al  secondo  »  abbiamo  l' autorità  di  Virgi- 
lio» En.»  lib.  XII»  484'*  AUpedumque  fugant  cursu  Untava  equorum  ^ 
abbiam  quella  di  Catullo»  ObtuUt  Arsinoes  Chloridos  alea  equus ,  e 
quella  finalmente  di  Lucrezio  che»  nel  lib.  VI»v.  766»  dà  Pepitelo  di 
alipedi  ai  cervi.  Che  anzi  Valerio  Fiacco  non  ha  dubitato  di  darlo  fino 
ad  un  carro  (Arg.  V»  61  a):  alipedi  pulsantem  corpora  curriu 


AXXA  miSOGONIA  ìjS 

Pag.  i4a« 
S»  Filone^  ditpnUndose  il  mondo  sia  eterno  o  no,  lo  chiama  barn» 
Amo,  e  Apnlejo  pubere.  Meglio  di  tutti  Virgilio: 

ut  bis  exordia  priinti 

Oumia,  ai  ^ise  tener  mondi  eoaaewrìl  Orint, 

Ed.  VI»  33. 

Ivi. 
Si  Anche  negl'Inni  orfici  il  seno  della  Terra  è  detto  prolòiido;  e 
largo  in  Esiodo  :  V  ano  e  1'  altro  per  indicare  la  pienena  della  ana 
lèconditk.  « 

Iti. 
S*  La  ragione  dello  sdegno  della  Terra  contro  Urano  ano  marito,  e 
le  disoneste  sue  conseguense  si  possono  Tcdere  in  Esiodo,  v.  i84  • 

aegnenti. 

Pàg.  143. 

53  tnm  putn  Tena  nefimdo 

CvBBHjne^  Jipetmn^oe  OMSty  mitubm|M  Ty|iBafty 
Et  eoiijuniM  toBun  raondera  iratw» 

Virff,  G9org.f  ÌA,  A  278. 

Iti. 

54  Espressione  d'Orazio  applicata  appunto  ai  Titani^  lib.  Ili,  ode  ii 

Magnnm  Ola  temnem  Intnletit  loti 
FidMu  iaventot  honrida  Imcliliii 

e  Telluris  juvenes  appellò  pure  in  altro  luogo  i  giganti.  Titanùt  puhu 
11  chiama  Virgilio,  e  corrisponde  al  modo  Oraziano  perfettamente. 

Ivi. 

55  Discordano  i  poeti  nelL'  assegnare  a  Vulcano  la  sua  fucina;  pe- 
rocché altri  la  pongono  nelle  ìsole  denominate  Eolie,  la  maggior  delle 
quali  è  Lipari;  altri  sotto  l'Etna,  altri  in  Lenno,  altri  nelPEubea.  O- 
mero  la  pone  in  cielo;  per  la  qual  cosa  si  tira  addosso  le  contumelie 
dello  Scaligero.  Io  mi  sono  attenuto  a  Virgilio,  di  cui  non  so  saziar» 
mi  di  riportare  i  Tersi  sempre  divini: 

Insula  Sicaniom  juxta  latos  JEoliamqno 
Erigitnr  Liparen  fumantibui  ardua  Muds; 
Quam  subter  ^mscus,  et  Cydopum  ezesa  caminìs 
AnUa  BUiea  tonanti  valldiqoe  incndlbnj  ictus 
Auditi  referunt  gemitum ,  stri««untque  cavrmis 
Strictuns  chaljbnm,  et  fbniadbtts  ignis  anhelat  ; 
TulcaDÌ  domos,  et  Vukania  nomine  tellns. 

jBk.  nn,  416. 

Iti. 

56  Ho  presa  tutta  dal  maestro  Virgilio  la  formatone  di  questi  fui* 
mini.  Eccone  i  Tersi,  Eneide  lib.  Vili,  4^9: 

Tres  imbris  torti  radios,  tres  nulns  aqnoMB 
Addidonnt;  rutili  tra  ignis,  et  alitis  austri. 

La  precisione  di  questi  due  Tersi  è  ammirabile,  se  non  che  pare  che 
manchi  il  quarto  tres  innanzi  vXV alitis  austri.  La  copia  ch'io  n'ho 
tratta,  è  ben  lontana  dalla  bellezza  dell'originale:  tuttaTolta  credo  non 


I 76  NOTE 

averla  pregiadicata  coli' aggian^rvi  le  ali  nel  mezzo:  il  che  ho  fatto 
sulla  £ede  di  aottco  moDumento  rìporUto  nei  commenti  dell'  eruditis- 
simo La  Gerda. 

Pàg.  143. 

s?  Segue  sempre  Virgilio^  En.  VIII^  iZi: 

Fulgores  nn^  texrifioof ,  ■oniUnnqne  meiamque 
AlUoefauit  operi,  flammisqne  sequacibas  iras. 

Quale  ardimento  di  poesia  assoggettare  alla  potenza  £di>brile  il  lampo, 
lo  strepito,  la  paura,  lo  sdegno,  e  impastarli,  fonderli,  fabbricarli  oo« 
me  materia!  E  se  questVopera  può  parere  alle  timide  menti  esagerata 
pur  nelle  mani  di  artefici  divini,  siccome  appunto  i  Ciclopi,  che  sarà 
nelle  mani  di  Lisippo,  di  cui  dicesi  in  antico  epigramma,  che  incar- 
nava nel  bronzo  e  nel  marmo  il  dolore,  la  rabbia,  la  compassione? 
Alla  fucina  poetica,  in  cui  la  splendida  immaginazione  di  Virgilio 
ha  saputo  con  chimica  maravigliosa  stemprare,  dirò  cosi ,  nei  fulmini 
il  fracasso ,  V  ira ,  il  terrore ,  alla  stessa  fucina  aveva  Omero  già  fab- 
bricato con  ingredienti  molto  diversi  il  famoso  Cinto  di  Venere,  com- 
ponendolo tutto  di  lusinghe,  di  desideri,  di  care  parole  e  di  quanto 
v'ha  di  pia  dolce  in  amore.  Venne  in  seguito  il  Tasso  (Ger.  Liber. , 
e.  XVI ,  st  25  )  eh'  ebbe  bisogno  di  fame  uno  consimile  per  Armida, 
e  sai  disegno  Omerico  raffinò  il  suo  layoro  nella  seguente  maniera  : 

Teneri  sdegni,  e  placide  e  traoMjnille 
Repulse,  cari  vessi  ,  e  liele  paci , 
Sorrisi,  pardette,  e  dolci  stille 
Di  pianto,  e  sospir  tronchi,  e  molli  baci  : 
Fuse  lai  cose  tulle ,  e  poscia  unìDe, 
Ed  al  foco  temprò  di  lente  uà  % 
E  ne  formò  quel  d  mirabil  cinto. 
Di  eh'  eDa  avera  il  bel  fianco  snccinto. 

Non  voglio  partire  da  questa  nota  senza  avvisare  i  dilettanti  di 
questi  Cinti  amatorii,  che  un  altro  ne  sta  in  mostra  nelle  Dionisiache, 
in  occasione  di  nn  congresso  maritale  tra  Giove  e  Giunone ,  copiato 
interamente  da  Omero,  ma  col  solito  lusso  Panopolitano. 

Pàg.  i44* 

58  Leggasi  la  descrizione  che  ci  dk  Esiodo  di  questa  battaglia  nella 
Teogonia,  dal  verso  678  fino  al  verso  810.  Si  ravviserà  in  quello  squar- 
cio divino  di  poesia  che  V  immaginazione  del  poeta  di  Ascra  sapeva 
riscaldarsi  e  sublimarsi  quanto  quella  d' Omero.  Chi  poi  bramasse  ve- 
dere fin  dove  in  soggetto  fertile  può  arrivare  l' intemperanza  d*  ana 
fantasia  non  castigata,  legga  Claudiano  nella  Gigantomachia. 

Ivk 

59  Ter  Bunt  conati  impooere  Pelio  Osom, 

Scilicèt,  atque  0$am  frondoram  involvere  Olympum^ 
Ter  pater  exstractos  disjadt  folmine  montes. 

Viao.  Geor.  A,  aSl. 

Quanto  siano  licenziosi  i  poeti  nel  trattare  le  stesse  materie,  si  può 
conoscere  dalla  sustruzione  di  questi  tre  monti  famosi,  di  cui  Greci 
e  Latini  parlarono  perpetuamente.  Omero  nell'  undccimo  dell'Odissea 


ALLA  MUSOGONIA  I77 

si  «llonUDa  affatto  dalP  ordine  Virgiliano^  ponendo  Ossa  sopra  Olimpo, 
e  Pelio  sopra  Ossa.  Oridio  nel  primo  dei  Fasti 9  Orazio  nell'ode 
quarta  del  tenoj  Seneca  nel  Furente  e  nell'Agamennone  li  sovvertono 
anch'essi  a  capriccio.  In  mezzo  a  tanta  licenza  io  ho  tenuto  l'ordine 
che  la  rima  ha  yolnto. 

Pàc.  i44* 

€0  Esiodo  dice  che  il  gigante  Aoraone  impiegò  nove  giorni  nel  ca- 
dere dal  cielo  in  terra,  ed  altrettanti  dalla  terra  nel  Tartaro.  Ho 
imitata  la  disci«zione  di  Milton ,  il  quale  non  fa  perdere  ai  diavoli 
più  di  nove  giorni  nel  precipitare  dal  Paradiso  all'Inferno,  ed  ho 
sfuggita  la  troppa  fretta  d'  Omero ,  che  nello  spazio  d' un  giorno  solo 
fa  cader  Vulcano  dall' Olimpo  nell' isola  di  Lenno,  allorché  Giove  in 
un  certo  momento  di  stizza  lo  arrandeilo  per  un  piede  fuori  del 
cielo.  Fu  allora  che  il  dbgraziato  rimase  zoppo. 

Pao.  145. 

61  Tale  è  il  sentimento  d'Esiodo,  Teog.  v.  730}  tale  ancorTqncUo 
di  Omero  nell'ottavo  dell'Iliade;  ma  non  tale  quello  di  Virgilio ,  se- 
condo cui  il  Tartaro 

Bis  patet  ÌD  pnMflps  tantum,  tenditqoe  lub  umlms 
Qnuittts  ad  «thereom  cali  suspectoi  Olympam. 

Si.  fi,  578. 

Ivi. 

€«  Mi  fa  scorta  Esiodo,  il  quale  vuole  che  Nettuno  abbia  messe 
queste  porte  di  ferro  all'ingresso  del  Tartaro  non  per  altro^  cred'io, 
che  per  dinotare  la  profondità  delle  acque  che  investono  il  centro 
della  terra. 

Ivi. 

^  Esiodo  racconta  tutta  al  contrario  l'avventura  di  questi  tre  Ccn« 
timani.  Egli  li  fa  partigiani  di  Giove  contro  i  Titani,  e  li  pone  nel 
Tartaro  a  custodia  soltanto  dei  condannati.  Anche  Omero  nel  primo 
dell'Iliade  ci  descrive  Briareo  come  difensore  dello  stesso  Giove  in 
occasione  di  certa  congiura  contro  il  re  degli  Dei.  Io  ho  aderito  al 
volgo  degli  altri  poeti  per  non  confondere  maggiormente  la  testa  de' 
miei  lettori. 

Ivi. 

^4  È  incredibile  la  dissonanza  delle  favole  sul  conto  di  Encelado  e 
di  Tifeo.  I  poeti  tanto  greci  che  latini  cacciano  ora  l' uno  ora  l'altro 
sotto  l'Etna.  Per  Tifeo  sta  Eschilo ^  Pindaro,  Esiodo,  Nonnio,  Ovi- 
dio e  Valerio  Fiacco;  per  Encelado  sta  Callimaco,  Orfeo,  Oppiano, 
Q.  Calabro^  Virgilio,  Lucano  e  Sidonio.  L'Ariosto  seppellisce  il  primo 
sotto  l'isola  d'Ischia,  appellandola 

lo  scoglio  che  a  Tifeo  à  stende 

Sulle  Imocìa ,  sul  petto  e  sulla  panda. 

Seppellisce  il  secondo  sotto  il  Mongibello, 

Là  dove  calca  la  montagna  Etnea 
Al  fulminato  Encelado  le  spalle. 


178  VOTE 

In  tanta  diMffepanta  di  opinioni  io  mi  tono  pietà  la  libertà  di  dare 
ad  ambcdae  un  solo  aepolcro  «  un  solo  oaatigo^  rorcaeiando  sopra  di 
oasi  €oU'a|ato  di  Ovidio  tutta  l'isola  di  Sicilia.  Eooo  i  suoi  Tersi  nel 
V  delle  Metamorfosi,  y.  345«  di  cui  mi  sono  gìorato,  temperandoli  con 
quelli  di  Virgilio: 

Vuls  giganteis  iiqecte  «t  iaaàà  menfccM 
Trinaoii,  K  m^M  MèiteUiiD  «Uoi  wgrt 

Nitìtiir  (Da  qoàden,  pngutqiie  Rnaigen  a«pe> 
Deitn  aed  Antonio  nunns  est  «ulijecui  Pdoco  i 
Itmn,  Packjiie,  ULi;  Lflybao  cnuni  pwamnlnr; 
Degrarat  JEdu  opat  |  sub  qua  resupiuns  arenas 
Ejectat,  flammamque  (èro  vomit  ore  Thyjhaau. 

Non  posso  contenermi  dal  riportare  anche  il  pasto  di  Virgilio,  per- 
chè il  lettore  giadichi  della  lor  differenxa,  che  mi  sembra  molto  sen- 
sibile e  per  l'economia  dei  pen«ieri,  e  per  la  scelta  delle  parole,  e 
per  l'ammirabile  meccanismo  dei  Tersi: 

Fama  eit,  Enodadfi  ■wiìinttiini  fuluùaa  empuf 
tJigan  noia  liae»  ingontarnijiia  imi^par  nteauk 
Inpotitai  n^cif  6aminam  «npiran  cmiaia} 
Et,  ftnom  quotiea  mutat  lalna,  iatmiMn  onmera 
Murmure  Trinacriam,  et  cobIubi  fubteiere  fumo. 

JBt.  I/I,  578. 
Pac.  145. 
65  Fa  questo  il  campo  di  battaglia  che  diede  fine  alla  gaerra  tra 
Giove  e  i  Titani,  la  quale  era  durata  dieci  anni.  È  situato  nella  Ma- 
cedonia, e  si  serre  alla  poesia  dicendo  che  ivi  la  campagna  e  l'aria 
sono  ancora  calde  e  fumanti,  perchè  Flegra  significa  foco. 

Ivi. 
60  Anche  in  Creta  fu  balzato  non  so  qual  gigante   dall'impeto  dei 
fulmini;  e  appellasi  dùnna  quest'isola  per  l'educazione  che  T'ebbe 
GioTC  dai  Goribanti:  per  lo  che  fu  detta  sua  cuna. 

Pao.  i46. 

67  Si  denominarono  campi  Flegrei  anche  i  Campani,  ov'era  il  Foro 
di  Vulcano  Ticino  a  Pozzuoli  e  alla  palude  detta  Achenuia.  Ne  fanno 
testimonianza  Plinio,  Silio  e  Strabone,  di  cui  traduco  qui  le  parole: 
ai  quali  luo^  attribuiscono  parimente  i  poeti  la  pugna  dei  giganti  con 
gli  Deij  peróhè  abbondano  di  zolfo  e  di  foco.  Quindi  Properzio  par-  • 
landò  della  spiaggia  Campana  (Lib.  I,  El.  XX,  v.  9): 

Sire  gigantea  ^atiabeie  litorU  ora. 

E  precisamente  in  Silio  phlegrmus  vertex  è  la  fiamma  che  sbocca  dal 

Vesuvio. 

Ivi. 

68  E  veramente  tutti  gli  Dei  ebbero  una  gran  faccenda  in  quella 
giornata,  ed  ognuno  segnalò  il  suo  valore.  Nettuno  mise  a  morte  Po- 
libote,  lanciandogli  addosso  un' isolar  dell'Egeo  mentre  fuggiva;  Diana 
ed  Apollo  disfecero  Oto  ed  Efialto,  figli  di  Alceo;  Ercole,  Porfirionc 
mentre  violava  Giunone.  Io  non  ho  accennati  che  questi.  Quanto  alle 


ALLA  MUSOGONIÀ  I79 

prodezze  degli  altri  Numi,  Merenrio  accise  Ippolito;  Marte,  Mimantej 
le  Parche,  Agno  e  Teone;  Ecate,  Gliiio;  Minenra,  Eneelado^  Fallante 
e  Alcioneo  ;  e  Gìoto  il  resto.  Anche  le  Ore  ebbero  parte  nella  gloria 
comone  ;  perocché  furono  eB$e  che  corsero  a  svegliare  gli  Dei  per 
tutto  l'Olimpo,  acciò  si  armassero  e  non  perdessero  tempo  ^  perchè  i 
Giganti  erano  già  alle  porte  del  delo. 

Pao.  i47« 
H  Che  Pallade  andasse  anch' ella  con  cavalli  a  battaglia,  P  accenna 
Pindaro  nell'Olimpica  XIII,  Sofocle  nell'Edipo  Coloneo^  y.  iiaft  «  ce 
ne  assicura  Pausania,  asserendo  che  esisteva  un'  ara  in  Atene  dedicata 
a  Pallade  equestre.  Ma  ninno  lo  dice  più  espressamente  di  Callimaco 
nel  Lavacro  di  Pallade.  Ne  riporterò  V  intero  passo  da  me  imitato , 
servendomi  della  traduzione  del  Ghecozzi,  che  parmi  superiore  a  quella 
del  Poliziano: 

Foctit  non  PsUm  peifiindet  moulm  prinaqoam 

Coeno  loidsBtfls  tenerit  «Upedoi. 
Tnm  quoque  cnm  bello  «ìecedent  nCalit  amui 

Tinjne  dinrom  onguine  Tenrigenain, 
Famsntei  prìnunn  soItìI  tiimifntt  ìngalftì, 

AUnil  et  msgm  fiMtibnt  OoaMii 
PulTereiun  snaomn* 

Ivi. 
70  Non  altrimenti  veggiamo  nel  citato  Callimaco  le  ninfe  Amnisiadi 
sciogliere  dal  carro  di  Diana  le  cerve,  e  dar  loro  mangiare  in  abbon- 
danza il  trifoglio  mietuto  nei  ptnti  di  Giunone j  erba  (soggiunge  il 
poeta  )  di  cui  si  pascono  anche  i  cavalU  di  Giove,  Aggiungerò,  che  il 
trifoglio  non  è  celebre  soltanto  nelle  stalle  dei  numi,  ma  nei  libri 
ancora  di  Plinio,  il  quale  dopo  il  citiso  gli  accorda  il  principato  fra 
le  erbe  pratensi;  e  in  Columella,  che  gli  attribuisce  molta  virtù  me* 
dica,  e  una  si  facile  produzione,  che  quattro  e  talora  sei  volte  Tanno 

si  miete. 

Ivi.- 

7*  Correva  lama  incielo  che  niuno  de' Giganti  sarebbe  rimasto  per- 
dente, se  Giove  non  prendeva  in  aiuto  il  braccio  di  qualche  mortale. 
Giove  allora  per  consiglio  di  Pallade  chiamò  in  soccorso  Ercole,  che 
fa  il  primo  a  menar  le  mani  e  a  fissar  la  vittoria. 

Ivi. 

7*  Il  piede  de' Giganti  finiva  in  serpente.  Vaglia  fra  mille  la  testi- 
monianza d'Ovidio  nel  quinto  dei  Fasti,  v.  S5: 

T«m  feroi  peitui,  manmia  monitn,  gìguitai 

Edidit,  aiunros  in  Jovù  ire  domum. 
MìHs  manm  iHis  dedii,  et  pro  cruiibas  angue*. 

óve  notisi  il  milU  manus,  nnmero  indeterminato  di  moltitudine,  che 
panni  non  potere  star  in  luogo  di  eentum,  nomerò  detenninato  dalla  favola. 

Pào.  i48. 
73  Callimaco  dà  per  assistente  al  soglio  di  Giove  la  I\obustezza; 
Orfeo  la  Giustizia,  per  testimonianza  di  Demostene  nell'orazione  se- 
conda contro  Arìstogitone;  ed  Eschilo  l'una  e  l'altra  nelle  Coefore. 


l8o  NOTB  ALLi  MUSOGONIi. 

Pio.  i48. 
74  Monte  d'Arcadia,  sulla  cima  del  quale  Rea  partorì  Giove  dentro 
una  spelonca,  donde  poi  il  mandò  segretamente  in  Creta  raccoman- 
dato alla  cura  de'Coribanti  e  delle  Ninfe  Melie.  Pansania  negli  Ar- 
cadi parla  di  questa  spelonca,  e  ci  significa  ch'ella  era  a  tutti  inac- 
cessa, fuorché  alle  sacerdotesse  di  quella  Dea.  Sul  contrasto  de'Mito- 
logifse  Giove  sia  nato  in  Creta  piuttosto  che  in  Arcadia,  Callimaco 
decide  la  lite  sul  principio  dell'inno  a  quel  Dio.  I  saoi  versi,  non  so 
se  bene  o  male  tradotti,  sono  i  seguenti: 

Ma  qual  chiamarlo  ne' miei  carmi  or  deggio  T 

Ditteo  forse ,  o  Liceo  T  Dohliio  e  il  pensiero  ; 

Chfc  la  tua  patria^  o  Giove,  e  di  gran  lite 

Fra  noi  niUàetto.  Peroodiè  te  nato 

Firtiman  altri  anll'Uea  monti^na, 

Abn  in  Arcadia.  Or  dà  mentiioe,  o  padre  T 

Certo  il  Cretenae,  ognor  bugiardo.  Egli  alto 

Un  sepolcro  t*  eresse,  e  tn  sei  vivo , 

E  immortalmente  ttvo.  Adunque  Rea 

Te  sol  Panatio  partorì  ft  dova 

Sorge  più  denso  d'ariiosodli  il  monta. 

Si  badi  di  non  confondere  Ida  di  Creta  con  Ida  di  Troja. 

Ivi. 

7^  Vicino  a  Dodona,  città  dell'Epiro,  sorgeva  una  gran  selva  di 
querce  dedicate  a  Giove,  di  cui  rendevano  in  voce  umana  gli  oracoli. 
L'albero  della  nave  Argo  fu  costruito  con  una  di  queste  querce;  per 
la  qaal  cosa  la  nave  divenne  anch'essa  fatidica.  Ciò  fece  dire  a  Lieo- 
frone  che  gli  Argonauti  erano  stati  portati  per  mare  da  una  garrula 
pica.  Chi  più  ne  vuol  sull'oracolo  dodoneo,  legga  la  nota  delio  Span- 
hemio  al  verso  a84  dell'inno  di  Callimaco  a  Delo. 

Ivi. 

76  Era  celebre  nei  deserti  della  Libia  l'oracolo  di  Giove  Ammone, 
le  cui  risposte  erano  sempre  di  doppio  senso.  L'orìgine  di  questo 
culto  si  ha  nel  comento  di  Servio  Gramatico  al  v.  198  del  IV  del- 
l' Eneide. 

Ivi. 

77  Ad  ogni  passo  dell'  Iliade  si  fa  menzione  del  monte  Ida  immi- 
nente a  Troja,  sulla  cima  del  quale,  denominata  Gewgaro,  Giove  era 
solito  di  ritirarsi  a  rìposo,  circondato  di  nebbie  e  di  tenebre. 

Ivi. 
7^  Elide  città  del  Peloponneso,  celebre  pe'snol  certami  in  onore  di 
Giove  Olimpico.  Vi  si  segnalavano  con  gli  atleti  anche  i  poeti. 

Ivi. 
79  Cioè  il  canto  di  Pindaro  nativo  di  Tebe  e  prìncipe   dei  Lirìd 
greci,  di  cui  abbiamo  quattordici  Ode  sopra  i  detti  certami. 

Ivi. 
^  Rappresentasi   Giove  frequentemente  coli'  aquila  sulla  sommità 
dello  scettro;  e  un  bastone  d'avorìo  parìmente  coli' aquila  sulla  cima 
portavano  i  Romani  quando  entravano  trìonfanti. 


IL 


PROMETEO 


BloHTi.  Poemetti,  l'k 


t 


At    CITTADINO 

NAPOLEONE  BONAPARTE 

COMANDANTS  SUPAKMO 

DELL'ARMATA  D'ITALIA 


Al  più  maraYlgIio90  Guerriero  della  storia  moderna 
presentasi  il  più  Celebre  personaggio  del?  antica  Mito« 
logia.  Piacciavi,  Cittadino  Generale,  di  accoglierlo  cor- 
tesemente, e  scorgerete   che  le  virtù    delP  infelice  Pro« 
meteo    appartengono  a  quelle  del  fortunato  Bonàpàktb 
per  molti  riguardi.  Zelatore  ardentissimo  delPindipen* 
denza  del  Cielo,  da  cui  traeva  l'origine,  egli  combattè 
lungamente,  e  con  valore  e  con  senno,  contro  il  despo- 
ti$mo  di  Giove,  e  divenne  co'  liberi  suoi  sentimenti  il 
flagello  perpetuo  dei  congiurati  aristocrati  dell'Olimpo. 
Voi  avete  fatto  altrettanto  co'  Despoti  della  terra;  e  in 
ciò  solo  vi  siete  mostrato  dissimile  da  Prometeo ,  eh'  egli 
fii  perdente,  e  Voi  vincitore.  Per  consiglio  di  Temide, 
e  coli' aiuto  di  Pallade   infuse  egli  nell'uomo  il  foco  del 
Cielo;  e  Voi  infondete  nelle  Nazioni  il  foco  della  liberti, 
adempiendo  gli  alti  e  generosi   disegni  del  primo  Go- 
verno dell'Universo.  Beneficò  egli  il  genere   umano  se- 
polto  da   Giove   nelle   miserie  per  la  funesta  dote  di 
Pandora;  e  Voi  beneficate  i  popoli  sommersi  nel  fango 
della  schiavitù,  restituendoli  ai  naturali  loro  diritti,  e 


i84 

obbligando  col  bràccio  delle  vostre  legioni  invincibili  gli 
ostinati  vostri  nemici  a  lasciar  in  pace  la  terra  abba- 
stanza coperta  di  sangue,  di  lagi;juAe  e  di  delitti.  Conciti- 
segnatnento  delle  arti,  della  sapienza  e  della  giustizia 
egli  fu  il  rigeneratore  degli  uomini^  ^  Voi  lo  siete  della 
più  bella  parte  d^ Europa,  con  dettarle  delle  provvide 
leggi,  ed  infiammarla  dei  sublimi  sentimenti  di  libertà 
colla  grande  emanazione  del  vostro  genio  e  dei  profondi 
vostri  pensieri.  Per  lui  insomma  rinacque  la  natura  a  nuova 
vita^  e  per  Voi  rinasciamo  noi  pure  ad  una  nuova  morale, 
ricuperando  la  perduta  nostra  ragione.  Sia  dunque  Pro- 
meteo il  vostro  amico,  come  Voi  siete  il  suo  emoloj  e  non 
vi  stupite  se  egli,  che  fìx  il  primo  e  il  più  veggente  di  tutti 
i  profeti ,  ha  contemplato  fira  le  tenebre  dell'  avvenire  le 
ammirabili  vostre  imprese,  e  ne  ha  parlato  sovente  con 
compiacenza  trecento  secoli  prima  che  succedessero. 
Cesserà  di  parervi  strano  un  tal  vaticinio,  quando  sa- 
prete (e  potete  saperlo  subito  da  Callimaco)  che  Apollo 
medesimo,  rinchiuso  ancora  nell^utero  di  L&tona,  predisse 
la  futura  grandezza  di  quel  Tolomeo  che  per  V  eccel- 
lenza delle  sue  virtù  potè  meritare  fra  gli  uomini  il  bel 
cognome  di  Filadelfo,  cognome  che  più  giustamente  a 
Voi  si  darebbe. 

Tacciasi  dunque  dinanzi  a  Voi  per  istupore  la  Tetra, 
come  tacque  una  volta  dinanzi  al  Macedone^  ma  non  si 
tolga  alle  Muse  P  antichissimo  privilegio  di  parlare  a 
lor  senno  de' vostri  pari.  Ricordatevi  che  queste  Dee 
sono  state  sempre  le  amiche  de' bravi  soldati;  che  esse 
godono  di  confondere  i  loro  cantici  collo  strepito  del- 
le armi;  e  che  gli  Eroi  non  sono  mai  comparsi  sì  glo- 
riosi, che  allor  quando  gli  hanno  celebrati  i  poeti. 


PREFAZIONE 


NON  INUTILE 


La  Mitologìa  ci  offre  in  Prometeo  il  pia  interessante 
personaggio  che  mai  esercitasse,  pe'suoi  rapporti  morali 
e  politici,  FinteUetto  de^ filosofi  e  l'immaginazione  de' 
poeti.  Ma  tante  sono  e  sì  diverse  e  sconnesse  le  maraviglie 
che  di  lui  si  raccontano,  che  volendo  noi  trattarne  TargO'* 
mento  in  poema ,  sarà  pregio  dell'  opera  il  riunire  a  mag- 
gior comodo  di  chi  legge  le  molte  e  disperse  fila  di  questa 
tela. 

Giapeto  figlio  del  Tartaro  e  della  Terra,  e  capo  della  ri- 
voluzione dei  Titani  contro  Giove  usurpatore  del  cielo, 
fa  padre  di  trenta  figli,  quattro  dei  quali  acquistarono  sopra 
gli  altri  celebrità ,  Prometeo,  Epimeteo,  Atlante  e  Menezio. 
Essendo  rimasti  in  quella  impresa  infelice  soggiogati  i  Ti- 
tani, furono  essi  dal  vincitore  parte  condannati  nel  tartaro, 
e  parte  dispersi  sopra  la  terra.  Prometeo,  che  fu  di  questi 
ultimi,  si  rifugiò  sopra  il  Caucaso,  ove,  essendo  sapientis- 
simo, si  applicò  tutto  alla  contemplazione  della  natura,  per 
consolarsi  colla  dolcezza  di  questi  studi  delle  triste  vicende 
di  sua  famiglia.  Lo  stupido  ed  insensato  Epimeteo  suo  fra- 
ìdìo  era  in  sua  compagnia. 

Yiveano  gli  uomini  in  quel  tempo  una  vita  aSisitto  sel- 
vaggia, perchè  privi  ancora  della  ragione.  Giove  divenuto 
col  terrore  de' suoi  fulmini  assoluto  padrone  del  cielo  e 
dell'  universo ,  mal  sopportando  di  non  essere  conosciuto 


i86 

ancora  e  adorato  fra  gli  nomini,  risolvette ,  per  soddisfare 
alb  sua  ambizione,  di  rivelarsi  al  genere  umano,  e  di  mi- 
gliorarne nel  tempo  stesso  la  condizione  unitamente  a  quella 
de'  bruti.  Spedì  dunque  sulla  terra  Mercurio  con  una  abbon- 
dante dovizia  di  spirituali  e  corporali  prerogative,  e  colFor- 
dine  a  Prometeo  di  ripartirle  con  senuo  fra  gli  uomini  e  i 
bruti.  Scaltro,  com'  era,  ricusò  egli  fermamente  questa  diffi- 
cile incombenza;  ma  ne  prese  in  sua  vece  l'incarico  lo  stolto 
Epimeteo.  Diede  egli  dunque  principio  alla  sua  incanta  di- 
stribuzione; e  cominaando  dai  bruti,  fu  si  prodigo  coi  me- 
desimi, che  in  ultimo  presentatosi  l'uomo  per  ricevere 
anch'esso  la  sua  porzione,  trovò  che  tutto  era  stato  già  dato. 
Accortosi  allora  Epimeteo  del  suo  errore ,  che  lasciava  la 
condizione  dell'  uomo  inferiore  d'assai  a  quella  del  bruto, 
ebbe  ricorso  al  fratello,  perchè  emendasse  col  suo  sapere  una 
tanta  mancanza.  Promise  egli  di  farlo,  e  si  recò  nella  Gre- 
cia per  eseguire  il  suo  alto  disegno.  Arrivato  nella  Focide, 
si  consigliò  primieramente  con  Temide,  da  cui  era  stato 
erudito,  anche  prima  delle  guerre  celesti,  nella  scienza  de'va- 
ticinj,  e  che  stabilita  aveva  fin  d' allora  in  una  spelonca  del 
Parnaso  la  sede  de' suoi  oracoli,  de' quali  si  mantenne  grande 
la  fama  fino  ai  tempi  di  Deucalione.  Istruito  da  questa  Dea 
pose  mano  al  lavoro;  e  presa  la  creta  del  Parnaso  (essen- 
do questa  la  più  sacra,  e  la  sola  che  fosse  degna  di  essere 
impiegata  in  quella  grand'  opera  ),  formò  con  mirabile  ma- 
gistero un  novello  umano  sistema,  scegliendo  da  ciascun 
animale  una  particella  del  loro  temperamento  e  carattere  ;  e 
fattane  una  ben  purgata  mistura ,  Y  infuse  tutta  nella  sua 
macchina;  con  che  venne  a  riunire  in  un  solo  individuo 
tutte  le  perfezioni  della  natura.  Restavagli  di  dare  al  suo 
uomo  un'  anima  immortale:  e  Minerva  venne  opportuna  al 
bisogno.  Rapita  ella  di  maraviglia  alla  vista  di  si  bell'opera, 
profferse  a  Prometeo  la  sua  assistenza  in  tutto  che  potesse 
contribuire  a  renderla  più  perfetta;  ed  egli  allora,  per  farsi 
ancor  piò  benevola  quella  Dea,  le  rivelò  una  sua  antica 


i87 

benemerenta,  la  quale  acquistavagU  tutto  il  diritto  alia  rico- 
noscenza della  medesima.  Perocché  quando  Giove ,  avendo 
il  cervello  gravido  di  Minerva,  implorava  Y  aiuto  degli  Dei 
perchè  pure  Io  liberassero  da  quel  peso,  non  fu  Vulcano, 
siccome  venne  poi  divulgato,  ma  Prometeo  che  gli  aprì  il 
capo  con  un  colpo  di  saire,  e  ne  fece  saltar  fuori  la  Dea 
con  lutte  le  armi  sulla  persona.  Riconoscendo  dunque  Mi- 
nerva in  Prometeo  il  principale  autore  del  suo  nascimento, 
ed  aggiugnendo  alla  benevolenza  la  gratitudine,  lo  portò 
segretamente  a  di  lui  inchiesta  nel  cielo.  Accostatosi  egli  al 
carro  del  Sole,  ne  toccò  di  furto  le  rote  con  una  ferula  che 
subito  infiammossi;  ed  agitandola  con  proiftezza  perchè  non 
venisse  ad  estinguersi,  calò  in  terra  ed  animò  la  sua  statua: 
in  memoria  della  quale  agitazione  fu  istituito  poscia  in 
Atene  il  certame  dei  Lampadiferì.  Fu  allora  ch'ebbe  luogo 
la  curiosa  avventura  di  quel  semplice  Satiro,  che,  veduta  in 
mano  di  Prometeo  la  fiammella  del  foco  celeste,  invaghito 
della  medesima,  accostò  il  labbro  e  la  mano  per  toccarla  e 
baciarla:  al  qual  atto  gridò,  ridendo.  Prometeo:  Guarda, 
Satiro,  che  t'abbruci. 

Ricevuta  ch'ebbe  l'uomo  col  tocco  di  quella  fiamma  Firn- 
mortai  particella ,  tanto  si  sollevò  collo  spirito  al  disopra 
del  bruto,  quanto  n'era  stato  prima  inferiore.  Né  contento 
Prometeo  d' aver  redenti  gli  uomini  con  questo  dono ,  ag- 
giunse al  primo  moltissimi  altri  beneficii,  insegnando  loro 
la  fisica,  la  divinazione,  l'astronomia,  T agricoltura ,  e  tutte 
quante  le  arti. 

Sdegnatosi  intanto  Giove  che  senza. sua  saputa  fosse 
slato  rapito  e  portato  in  terra  il  fuoco  celeste,  proclamò  un 
premio  a  chi  avesse  scoperto  l'autore  di  questo  furto;  e  gli 
uomini,  gli  stessi  uomini  da  Prometeo  tanto  beneficati,  furono 
quelli  che  l'accusarono:  in  mercede  del  qual  tradimento  Giove 
concesse  loro  la  gioventù  perpetua.  Ma  ne  fu  ben  corto  il  pos- 
sesso. Perciocché  avendo  essi  caricato  sopra  un  giumento  un 
siffatto  tesoro,  e  tornandosene  a  casa  lietissimi,  accadde  che 


i88 

il  giumento,  stimobto  dalbsete,  p^ssd  vicino  ad  un  fonte, 
in  guardia  del  quale  vegliava  un  drago.  Accostatosi  il  qua- 
drupede per  bere,  il  serpe  glielo  vieti  minacciandolo;  ma 
condiscese  finalmente  alle  preghiere  dell'altro  a.  questo  patto, 
che  il  giumento  gli  cedesse  tutto  il  carico  che  portava.  Cosi 
gli  uomini  perdettero  prestamente  il  fratto  della  loro  ingra- 
titudine, voglio  dire  la  gioventù,  della  quale  poi  si  rive- 
stono ogni  anno  i  serpenti. 

G)Dtuttocid  vedendo  Giove  che  gli  nomini  per  la  subli- 
mità del  nuovo  loro  intelletto  si  approssimavano  molto  alla 
natura  divina,  e  temendo  che  questi,  ad  esempio  dei  Ti- 
tapi  e  dei  Giganti,  non  gli  movessero  contro  una  terza  guerra 
più  delle  altre  ancora  pericolosa,  conobbe  necessario,  suUo 
stile  di  tutti  i  tiranni,  di  degradare  la  condizione  degli  uo- 
mini, e  punire  a  un  tempo  stesso  Fautore  della  loro  esal- 
tazione. A  conseguire  il  primo  di  questi  fini  ordinò  a 
Vulcano  di  formare  col  fango  una  donna,  a  cui  Minerva 
die  l'anima,  e  ogni  Dio  si  affrettò  di  fare  il  regalo  d'una 
qualche  prerogativa;  per  lo  che  fu  chiamata  Pandora.  Que- 
sta dunque  abbigliata  dalle  Grazie  e  condotta  da  Mercurio, 
fu  presentata  a  Prometeo,  perchè  la  facesse  sua  moglie,  ri- 
cevendone in  dote  un  vaso  d'oro,  dentro  cui  Giove  avea 
rinchiusi  tutti  i  mali  nascostamente.  Rifiutò  Prometeo  quel 
dono,  diffidando  della  mano  sospetta  da  cui  veniva.  Ma  lo 
sciocco  Epimeteo  che  aveva  rovinato  la  prima  volta  il  ge- 
nere umano  colla  pessima  distribuzione  di  cui  si  è  già  fatta 
parola,  lo  rovinò  ancor  la  seconda,  sposando  Pandora,  e 
levando  al  vaso  il  coperchio.  Ne  uscirono  tosto  tutti  i  mali 
con  impeto ,  i  più  orrìbili  de'  quali  furono  la  superstizione 
e  la  guerra,  e  non  rimase  in  fondo  del  vaso  che  la  speranza. 
Oppressa  l'umana  natura  dal  torrente  dei  disordini  fisici  e 
morali,  si  ridussero  ben  presto  gli  uomini  a  tale  di  non 
poter  più  cagionare  a  Giove  verun  timore.  E  soddisfatta 
per  questo  modo  la  sua  gelosia,  non  rimaneva  a  quel  de- 
spota sospettoso  e  crudele,  che  contentare  la  sua  vendetta. 


i89 

Die  donque  comando  a  Vulcano  di  legare  Prometeo  ad 
ima  rape  della  Scizia,  stringendogli  le  mani  e  i  piedi  con 
catene  di  ferro,  e  conficcandogli  il  petto  con  un  chiodo 
grossissìmo  di  diamante.  Stando  V  infelice  Titano  in  qnel 
supplizio,  chiamava  l'Etere,  e  i  Venti,  e  i  Fiumi,  e  il  Mare, 
e  la  Terra,  e  il  Sole,  e  tutta  la  natura  in  testimonio  del- 
l'inginslizia  di  Giove;  e  venivano  a  visitarlo  le  Nereidi, 
l'Oceano,  ed  altri  Numi,  consolandolo  delle  sue  disawen* 
tare,  e  compiacendosi  molto  della  sapienza  ed  eloquenza 
de' suoi  profondi  ragionamenti.  Vi  capitò  fra  gli  altri  an- 
che la  niufa  Io,  che,  trasformata  in  giovenca  e  stimolata 
dal  tafano  mandatole  da  Giunone,  andava  traversando  con 
quel  tormento  al  fianco  tutti  i  mari  d' Europa ,  e  vagando 
senza  requie  sopra  la  terra.  Mosso  Prometeo  a  compassione 
di  quella  misera,  prese  a  confortarla  colla  predizione  delle 
foture  di  lei  vicende;  rivelandole  che  le  sue  disgrazie  avreb- 
bono  avuto  fine  quando  dopo  molti  altri  errori  sarebbe 
arrivata  in  Egitto,  ove,  ricuperate  le  prime  sembianze,  sa- 
rebbe stata  da  quei  popoli  adorata  sotto  il  nome  d'Iside. 

Benché  tormentato  ed  oppresso,  non  depose  Prometeo  la 
fierezza  de' suoi  nobili  sentimenti;  e,-  lungi  dal  blandire  la 
prepotenza  del  suo  persecutore,  non  fece  anzi  che  inasprirlo 
vieppiù,  inveendo  liberamente  contro  quella  somma  ingiu- 
stizia; poiché  il  suo  delitto  in  altro  alfine  non  consisteva 
che  nell'aver  illuminata  l' umana  ragione. 

Giove  adunque  infuriato  di  quelle  ardite  declamazioni , 
infranse  a  colpi  di  fulmine  lo  scoglio ,  a  cui  stava  affisso 
Prometeo,  e  precipitò  lui  nel  Tartaro,  giurando  di  non  trar- 
lo di  là ,  se  non  quando  si  fosse  trovato  un  Immortale 
che  si  fosse  contentato  di  divenire  mortale.  Ora  essendo 
dopo  molti  secoli  accaduto  che  Chirone,  per  un  eccesso  di 
dolore  cagionatogli  da  una  freccia  di  Ercole,  desiderava  la 
morte,  discese  questi  nel  Tartaro,  e  rinunziò  a  Prometeo 
la  sua  immortalità:  per.  lo  che  1'  uno  e  V  allro  fu  liberato 
dal  suo  supplizio.  •      -  ^ 


Restituito  Prometeo  alla  luce  del  Sole ,  non  cessarono 
tra  esso  e  Giove  i  privati  rancori,  e  gli  accrebbe  fortemente 
il  fatto  che  ora  diremo.  Solevano  ^  nomini  con  gran  ce- 
rimonia e  dispendio  amministrare  i  sacrificj  divini,  e  con- 
sumare nel  foco  tutte  le  vìttime.  Inveiva  Prometeo  contro 
quella  troppa  avidità  degli  Dei,  che  rendeva  impotenti  i 
poveri  a  placarli  co' sacrificj,  e  propose  a  Giove  di  prescri- 
vere, che  parte  della  vittima  si  gettasse  nel  foco,  e  parte  si 
ritenesse  dal  sacrificante  per  proprio  vitto:  lo  che  venne 
accordato.  Ma  volendo  inoltre  Prometeo  far  conoscere  quanto 
fosse  immeritevole  Giove  di  que'  sacrificj,  scannò  egli  stesso 
dne  tori,  e  nascose  acconciamente  tutte  le  caroi  in  una 
delle  pelli ,  e  tutte  le  ossa  nell'  altra:  il  che  fatto,  invitò 
Giove  a  prendersi  la  parte  che  più  voleva.. Ingannato  Giove 
dell'apparenza,  scelse  le  ossa  per  sua  porzione.  Ma  accortosi 
della  beffa,  involò  per  dispetto  agli  uomini  il  foco,  e  lo  na- 
scose dentro  le  pietre,  acciocché  non  potendo  più  essi 
cuocere  le  carni,  rimanessero  privi  di  quel  modo  di  sus- 
sistenza, e  di  tutti  gli  altri  vantaggi  che  sì  ritraggono  da 
questo  benefico  elemento.  Non  resse  la  pazienza  di  Pro- 
meteo a  questa  nuova  ingiustizia,  e  lasciò  tutta  la  briglia 
alle  sue  parole:  finche  Giove  montato  piucchè  mai  in  fu- 
rore perchè  Prometeo  osasse  di  rinfacciargli  il  suo  torto, 
e  patrocinare . la  causa  degl'infelici,  lo  fece  di  nuovo  affig- 
gere non  più  alla  rupe  Scitica,  ma  al  Caucaso  ;  e  mandò 
un'aquila  generata  dal  concubito  di  Tifone  e  d'Echidna 
a  rodergli  il  fegato  rinascente;  giurando  di  non  mai  più 
srìoglierlo  da  quello  scoglio.  Ma  ben  ebbe  a  pentirsi  poscia 
del  suo  giuramento.  Imperdocchè  Prometeo,  che  mai  non 
dormiva,  avendo  una  notte  udito  le  Parche  profferir  un 
decreto,  il  quale  minacciava  Giove  del  pericolo  di  restar 
privato  del  trono  da  un  suo  proprio  figlio ,  cominciò  egli 
a  spaventarlo  con  questo  vaticinio,  senza  volerlo  mai  rive- 
lare. Temendo  Giove  che  altri  non.  facesse  a  lui  ciò  ch'egli 
aveva  fatto  a  suo  padre,  si  abbassò  con  Prometeo  alle  pre- 


'9» 
ghiere:  ma  inatilmente;  persistendo  l'altro  nel  sao  sdensio, 
e  giurando  anch'  esso  di  non  voler  parlare ,  se  non  veniva 
prima  rimesso  nella  saa  libertà.  Non  trovavasi  mezzo  di 
conciliare  le  pretensioni  dell'  uno  e  deli'  altro ,  perchè  am* 
bedne  avevano  giurato  per  la  palude  stigia.  Ma  Giove  fi- 
nalmente pensò  una  furberia,  che  mise  in  salvo  i  reciproci 
giuramenti,  e  fu  quella  di  liberar  Prometeo,  a  patto  che  si 
obbligasse  di  portar  sempre  nel  dito  un  anello  di  fefro, 
nel  quale  fosse  inserita  una  scheggia  del  Caucaso.  Fu  ac- 
cetlata  la  condizione  :  e  di  là  venne  fra  gli  uomini  la  con- 
saetudine  degli  anelli.  Allora  fu  spedito  a  quella  volta  Er- 
cole, il  quale  avendo  terminata  l' impresa  di  separare  Abi- 
ta e  Calpe  (  che  poi  furono  denominate  le  colonne  di  Er- 
cole )  per  aprire  a  beneficio  de'  commercianti  la  comunica- 
zione tra  r  Oceano  e  il  Mediterraneo  y  si  pose  in  mare 
dentro  una  grande  tazza  regalatagli  dal  Sole;  e  così  navi« 
gando  giunse  al  Caucaso,  ove  sciolse  immantinente  il  no- 
stro filosofo  da  quel  patibolo,  non  prima  però  d' aver  nc- 
cifla  con  un  colpo  di  freccia  \  aquila ,  che  il  divorava.  Della 
qiial  freccia  raccontasi  che  fosse  stata  prima  scavata  da 
Apollo  nei  monti  iperborei;  che  con  questa  egli  trafiggesse 
i  Ciclopi ,  per  aver  fabbricalo  il  fulmine  con  che  Giove 
tolse  la  vita  a  Esculapio  di  lui  figlio  ;  che  la  medesima 
essendosi  smarrita,  fu  dal  vento  riportata  ad  Apollo,  dalle  cui 
mani  passò  in  quelle  di  Ercole  e  da  Ercole  finalmente  nel  Cielo, 
ove  fu  collocata  fra  le  costellazioni.  Adempiè  intanto  Pro- 
meteo la  sua  parola ,  e  rivelò  l' oracolo  delle  Parche ,  le 
quali  decretavano  che  la  Nereide  Tetide  partorir  dovesse 
un  figlio  più  potente  del  padre:  perlochè  Giove,  che  erasi 
di  lei  invaghito  e  stava  sul  punto  di  divenirne  marito,  si 
astenne  da' suoi  amplessi;  e,  fatto  il  salto  di  Leucade  per 
togliersi  dal  capo  quell'amoroso  pensiero,  la  diede  in  isposa 
a  Peleo,  da  cui  nacque  Achille  tanto  più  forte  del  genitore. 
Benché  mal  corrisposto,  non  desìstette  Prometeo  dal  con- 
tinuare agli  uomini  le  sue  beneficenze,  scoprendo  ai  mede- 


192 

simi  il  foco  nascosto  da  Giove  dentro  le  selci,  riduamandoli 
alle  dolcezze  della  società,  ammaestrandoli  piucchè  prima 
nelle  arti,  nella  morale,  nella  politica,  e  diminuendo,  per 
quanto  in  lai  era,  il  peso  delle  tante  loro  calamità.  Quindi 
fu  che  gli  nomini  dalle  miserie  loro  meglio  eruditi,  e  fi« 
nalmente  tocchi  di  gratitudine ,  gF  innalzarono  simulacri  ed 
altari ,  e  istituirono  in  onor  suo  delle  feste  solenni ,  e  gli 
assegnarono  comune  il  culto  con  Vulcano  e  con  Pallade, 
adorandolo  come  dio,  e  introducendo  nei  sagrifiq  la  consue- 
tudine di  ardere  le  viscere  delle  vittime  per  .saziare  con 
esse  gli  Dei,  in  luogo  delle  viscere  di  Prometeo. 

Molte  m(^li  e  molti  figli  si  danno  a  lui  da'  poeti.  Fra 
le  prime  la  ninfa  Asia  figlia  dell'Oceano  lo  fece  padre  di 
Deucalione,  a  cui  egli  stesso  insegnò  l' arte  di  fabbricare  le 
navi,  e  di  essa  si  parla  principalmente,  in  questo  poema, 
di  cui  non  ho  fatto  che  .  delineare  la  traccia.  Tutto  il  resto 
dell'invenzione  si  concatena  talmente  colla  mitologia,  che 
questa  non  solo  non  ne  riceva  veruna  alteratone  ed  oflesa, 
ma  serve  anzi  di  guida  e  base  costante  alla  ragione  poe- 
tica, anche  quando  sotto  il  velo  degli  avvenimenti  passati 
si  dipingono  le  cose  presenti. 


DEL 

PROMETEO 


CANTO  PRIMO 


L^ accorto  Prometèo,  T inclito  figliq 
A  cantar  eli  Giapeto  il  cor  tai  sprona, 
E  quanti  sopportò  travagli  e  pene 
Per  amor  de^  mortali^  e  qoal  raccolse 
Di  largo  beneficio  empia  mercede, 
Se  la  Diva,  cui  tutta  a  parte  a  parte 
La  peregrina  istoria  è  manifesta, 
Del  suo  favor  m^aita,  e  non  ricusa 
Sovra  italico  labbro  alcuna  stilla    - 
D^  antica  derivar  greca  dolcezza. 

Ma  de^guoi  duri  memorandi  affanni 
Qual  dapprima  diro?  Forse  la  pena 
Del  celeste  suo  furto,  e  di  Pandora 
n  fatai  vaso  e  la  fatai  sembianza, 
Cfhe  di  poca  favilla  al  Sol  rapita 
Fé  sopra  il  rapitor  Falta  vendetta? 
O  primamente  del  regal  suo  padre 
Canterem  la  magnanima  caduta, 
E  con  lui  tutta  del  Titanio  seme 
Sterminata  la  gloria  e  la  speranza. 
Quando  il  forte  Giapeto  incontro  a  Giove 
Stette,  e  gran  pezza  del  poter  di  sue 
Folgori  in  cielo  dubitar  lo  fece? 
Certo  il  grande  conflitto,  onde  prostrata 
Giacque  d^Uran  la  generosa  prole, 
Cbe  di  sorte  minor,  ma  non  d^ ardire. 


1^4  ^  PROMETEO  •*•  ^ 

• 

Del  ciel  paterno  la  ragion  perdéo, 
Di  gran  suono  potrebbe  empierla  cetra, 
E  dar  moka  al  mio  crin  delfica  fronda. 
Ma  lunge  troppo  il  canto  andria,  né  penne 
Per  si  gran  volo  alle  mie  terga  or  sento. 
E  già  sull^  erto.  Caucaso  mi  chiama 
De' liberi  miei  carmi  disì'oso 
n  solitario  Prometèo,  che  seco 
Le  rie  vicende  nel  pensier  volgendo 
Di  sua  stirpe  infelice,  e  Pire  ancora 
Del  superbo  oppressor  temendo  accese, 
(Che  nel  cor  de' potenti  a  lunga  prova 
Ratto  nasce  lo  sdegno  e  tardo  muore), 
Su  quefl' orride  balze  sconosciuti 
Tragge  misero  eroe  giorni  dolenti: 
Se  non  che  quando  sotto  il  sacro  velo 
Delle  tranquille  tenebre  notturne 
Tace  del  biondo  Iperìon  la  luce , 
Ei  sovra  il  sommo  della  rupe  assiso, 
Delle  stelle,  che  son  lingua  del  fato. 
Alle  armoniche  danze  il  guardo  intende^ 
E,  con  lor  ragionando,  i  vaghi  errori 
Co'  numeri  ne  frena  e  le  fatiche , 
Prillo  degli  astri  assalitor  felice: 
Felice,  se  voler  d'empio  destino 
Alla  sciagura  del  suo  lungo  esiglio 
Non  aggiungea  compagno  Epimetéo, 
L' incauto  Epimetéo  stolto  fratello. 
Pel  cui  folle  consiglio  su  la  terra 
Versò  l'uomo  ingannato  il  primo  pianto, 
E  de' morbi  ^enti  la  ptmta  acuta. 
Come  volgesse  un  s\  gran  danno  il  fato, 
Ditelo,  o  sante  Muse,  e  far  vi  paccia 
Al  ver,  che  teme  di  mostrai*  la  fronte, 
De' vostri  accenti  un  verecondo  velo. 
Vita  vivendo  incolta,  orrenda  e  dura 


*'^^  CANTO  PRIMO  ig5 

L' umana  gente,  di  pudore  in  tutto, 
D^  accorgimento  e  di  ragion  spogliata , 
E  mal  soffrendo  del  saturnio  Giove 
n  superbo  pensier ,  che  alla  tremenda 
Sua  deità  né  tempio  ancor  sorgesse, 
Né  aitar  fumasse ,  né  suonar  s' udisse 
Su  le  labbra  terrene  il  suo  gran  nome. 
Di  sé  mandar  quaggiù  prese  consiglio 
La  conoscenaa  alfine  e  la  paura  ^ 
E  dell^  alma  del  par  che  delle  membra 
Le  consonanti  qualità  diverse, 
Ond^ abito  novello  e  'più  gentile 
DeW  uom  vestisse  la  mortai  natura. 
Vols^anco  il  guardo  agli  animanti,  e  manche 
Le  facoltà  veggendone,  e  d'emenda  * 
Necessitose  sa,  che  nulla  ornai 
Differenta  avvisar  sapea  tra  loro,  • 
Che  di  membra  e  di  pelo  e  di  figura, 
Pietà  n'  ebbe  il  gran  padre,  e  di.lor  pure 
Fatto  pensoso,  noverarli  a  parte 
Del  nuovo  beneficio  in  cor  concluse. 
AgP  imperi  di  Giove  obbediente 

Scese  adimque  Mercurio,  in  aureo  vase 
U  celeste  tesor  seco  recando, 
E  di  partirlo  fra' mortali  e  bruti 
Al  saggio  Prometèo  die  norma  e  cura. 
Ed  allo  stolto  Epimetiéo;  che  tale 
Era  il  senno  di  Giove  ed  il  consiglio. 
Meravigliò,  turbossi  a  quel  comando 
Il  maggior  Giapetide^  e  perché  tutti 
E  di  prudenza  e  di  saper  vincea. 
Arretrarsi  modesto,  ed  escusarsi, 
E  non  atto  chiamarsi  a  tanta  impresa, 
Del  cui  solo  pensiero  il  cor  tremava. 
Ma  r  altro,  che  di  senno  e  d'intelletto 
Avea  povero  il  capo,  e  nondimeno 


Presuntaosi,  indocili  e. superbi 
I  pensieri  nudria  (che  d'ignoranza 
Ostinato  figliuol  seippre  é  roi^glio)^ 
Si  trasse  innanzi  baldanzoso,  e  nullo 
Timor  prendendo  del  fetale  incarco, 
Sopra  Fornero  suo  F assunse,  e  disse: 
Onorato  di  Maja  egregio  figlio, 
AlF  Olimpo  ti  rendi,  e  questa  reca 
Non  ingrata  novella  al  tuo  Signore, 
Che  del  provvido  suo  supremo  cenno 
Esecutor  lasciasti  Epimetéo. 

Disse:  e  Mercurio  i  bei  talari  aperse. 
Caro  dono  d'Apollo,  onde  volsmdo 
Le  preste  superava  ale  de'  venti  ^ 
]S  deUa  verga  da  Pluton  temuta 
Agitando  le  serpi,  in  un  baleno 
Fra  le  nubi  si  spinse,  e  sparve  agli  occhi. 

Ma  del  firaitemo  temerario  ardire 
Dolente  Prometèo,  con  amendue 
Le  man  coprissi,  vergognando,  il  volto; 
E  poiché  tanta  ad  impedir  follia 
Opra  invan  fé  di  preghi  e  di  consigli, 
S'involò  sospirando,  e  al  Ciel  converso: 
O  Sole,  ei  disse,  o  tu  che  tutte  osservi 
Maestoso  e  tranquillo  in  tua  carriera 
De' mortali  le  cure  e  de' celesti. 
Se  nell'ampio  tuo  corso  unqua  t'  awegna 
Fuggitivo  e  ramingo  in  su  la  terra 
Mirar  qualcuno  di  mia  stirpe  oppressa, 
Fammi  fede  con  esso,  o  Sole  amico. 
Che  ninna  colpa  nella  colpa  io  m'ebbi 
Dell'incauto  fratello.  O  aure,  o  venti, 
Che  dell'etra  non  pur  scorrete  i  campi, 
Ma  battete  le  penne  anco  sotterra, 
E  le  bufere  generate  in  grembo 
Del  morto  regno,  se  di  voi  taluno 


•'•'^  CàHTO  PRIMO  197 

Là  pcaietrar  può  dove  il  mio  gran  padre 

Nel  procelloso  Tartaro  profondo 

Di  non  giuste  catene  avvinto  giace, 

À  lui  portate  le  mie  voci,  e  conto 

Gli  fate,  o  venti,  il  mio  destin  cmdele^ 

Ma  non  gli  dite  del  minor  sno  figlio 

La  demenza  fiettal^  che  acerba  al  core 

Sarfa  del  prode  genitor  ferita 

Più  che  il  Cielo  perduto,  e  sempiterno 

Di  tristezza  argomento  e  di  vergogna. 
Cosi  dicendo  dilegnossi,  e  mesta 

Apparve  al  suo  dolor  Paria  e  la  luce. 
Lieto  frattanto  dell^  assunta  impresa, 

E  dell'  alto  suo  senno  persiiaso , 

Lnpose  mano  alP  opra  Epimetéo. 

E  primamente  congregati  i  bruti. 

Senza  misura  liberal  fu  loro 

Dei  tesori  di  Giove,  e  cosi  larga 

Quella  sua  stolta  cortesia,  che  tutto 

Scoperse  il  vaso  in  un  momento  H  fondo. 

Dell'uomo  allor  si  risowenne,  e  gli  occhi 

Dentro  Puma  ficcando,  e  sotto  e  sopra 

Sootendola  veloce,  onde  un  avanzo, 

Una  reliquia  ritrovarvi  ancora 

Ddla  celeste  dote^  esser  del  tutto 

Già  consumata  la  conobbe  alfine. 

A  quella  vista  stupefatto  e  muto. 

Le  pupille  abbassò,  tremògli  il  core. 

Gli  tremar  le  ginocchia,  e  di  man  cadde 

n  vasello  fatai ,  che  cupamente 

Risonò  rotolando  in  sul  terreno. 

Indi  qual  meglio  seppesi,  e  dell'uomo 

Iniquamente  del  suo  aver  firodato 

Le  rampogne  temendo  e  le  querele, 

Senza  far  motto,  senza  levar  ciglio, 

Pauroso  e  confuso  allontanossi. 
Mosti.  PoemeUL  i3 


ig8  a.  PROMETEO  «'•  >70 

Come  fanciul  che,  quando  manco  il  teme, 
Cólto  repente  dalla  madre  in  fallo, 
DI  vergogna  s'imporpora,  e  la  mano 
Paventando  severa  che  più  volte 
Gli  fé  le  orecchie  dolorose  e  rosse, 
Queto  qneto  s'arretra,  e  con  obbliqao 
Occhio  guatando,  al  rischio  suo  s'invola: 
D'  Epimetéo  tal  era  in  quel  momento 
n  (aggir^  V  arrossire  e  la  paura. 

Or  che  £ark  V  insano  7  A  qual  de'Numi 
O  de' mortali  chiederà  consiglio, 
E  con  qual  fronte?  perocché  del  pari 
Al  Cielo  ei  fece  ed  alla  Terra  oltraggio. 
Misero!  non  gli  avanza  in  quello  stato 
Altro  più  scampo  che  del  buon  germano 
Implorar  la  pietà.  Deposta  adunque 
Vergogna  e  tema  (  che  nel  cor  d' un  folle 
La  tema  sempre  e  la  vergogna  è  breve), 
A  Im  smarrito  appresentossi,  e  mesto. 
Ed  intera  narrando  il  suo  fallire: 
Deh!  porgi,  disse,  all'error  mio  riparo, 
Dolce  fratello,  se  non  vuoi  che  l'ira 
Mi  percota  di  Giove  e  mi  distrugga^ 
Ch'egli  ha  ben  d'onde  fulminarmi,  e  troppo 
Abbonda  la  ragion  del  mio  castigo. 
Ed  in  queste  parole  il  delinquente, 
Siccome  vereconda  verginetta, 
Singhiozzando  e  pregando  lagrimava. 

A  quel  pianto  commosso,  a  quella  doglia 
n  generoso  Prometèo  rispose  : 

Dura  mi  chiedi  e  perigliosa  impresa. 
Miserando  fratello,  ed  obbh'asti 
Che  da  gran  tempo  dell'ingiusto  Giove 
n  sospetto  m' osserva  e  la  vendetta, 
Da  che  spersi  noi  tutti  e  fulminati, 
E  dell'Olimpo  eternamente  privi 


^<^  CAUTO  PRIMO 

Noi  miseri  Titani  ha  quel  superbo 
Del  fiilmine  signor,  che  vinti  ancora 
Tuttayolta  ne  teme,  e  ne  persegue 
Iniquamente^  perocché  spietati 
Fa  la  tema  i  tiranni ,  i  qnai  demensa 
Estimano  Pamor  santo  del  giusto, 
E  prudenza  di  regno  esser  crudelié 
Quindi  il  barbaro  in  me  da  quel  momento 
Dell^  oppresso  Giapeto  il  sangue  abborre, 
E  più  che  il  sangue  di  Giapeto,  il  core 
Che  fermo  e  puro  mi  riscalda  il  seno, 
E  r intelletto  di  saper  nutrito, 
Ond^anco  ai  Numi  m^ avvicino,  e  tutta 
Senza  vel  mi  si  mostra  la  natura. 
U invidia,  fratel  mio,  col  suo  veleno 
Assale  ancor  degF  immortali  il  petto  ^ 
E  dove  in  trono  non  s'asside  il  giusto, 
Colpa  divien,  che  mai  non  si  perdona, 
Dell'  ingegno  V  altezza  e  la  virtude  ^ 
E  fortunata  è  l'ignoranza  sola. 
Quindi  non  già  tem'io  di  te,  fratello, 
Che  te  dall'ira  del  crudel  tiranno 
L'insipKenza  tua  pone  in  sicuro; 
Né  duolmi  no  del  tuo  destin,  che  poche 
Son  le  pene  ove  poco  é  l' intelletto  ; 
Dell' uom  ben  duolmi,  un  infinito  a  cui 
.  Dannaggio  partorì  la  tua  stoltezza. 
Sì  che  fatto  é  minor  del  bruto  istesso; 
Ed  io  tei  dissi,  sconsigliato,  e  tu, 
E  tu  fede  negasti  a  mie  parole. 
Qual  dunque  adesso  a  tanto  error  salute  ? 
Poco  ti  parve  agli  animai  largito 
Aver  scaltrezza,  ardir,  prudenza  e  senno, 
E  del  futuro  il  sentimento  ancora, 
Che  il  più  bello,  il  più  grande  e  prezioso 
Hai  lor  profuso  de' celesti  doni; 


'99 


200 


IL  PROMBTBO  "'  *<* 

L^ istinto  io  dico,  quel  divino,  occulto, 
Non  mai  fallace  e  sempre  tìto  istinto, 
Che  con  tacito  cenno  impert'oso 
Ciò  che  nnoce  insegnando,  e  ciò  che  giova, 
Dirittamente  il  bmto  alla  verace 
Sua  naturai  felicità  conduce. 
Ciò  che  ieri  gli  piacque,  anco  domani 
Gli  piacerà*  De' suoi  pochi  desiri 
n  termine  sta  fisso ,  e  ciò  eh'  ei  trova 
Il  suo  bisogno  a  satisfar  bastante. 
Sempre  buon  lo  ritrova,  e  sempre  bello: 
Fortunato,  che  Farte  ei  non  conosce 
Funesta  e  ria  di  fabbricar  sventure, 
L'  orribil  arte  di  crear  le  brame: 
Fortunato,  che  docile  la  terra, 
E  liberal  gli  partorisce  il  cibo. 
Né  col  rastro  gli  è  duopo  e  coll'aratrp 
Piagar  sudando  alla  ritrosa  il  seno. 
Né  della  vite  spremere  i  funesti 
Dolci  veleni  ad  ammorzar  sua  sete. 
E  fortunato  ancor,  che  contro  i  nembi, 
Contro  il  furor  de' verni,  e  l'aspro  morso 
Dell'algente  aquilon,  né  vestimento 
Indossar  gli  è  mestieri,  né  la  fiamma 
Ricercar  di  Vulcano  entro  la  selce, 
,E  de'lor  rami  dispogliar  le  piante. 
À  lui  spontanee  l'erbe,  e  senza  l'uopo 
Di  chimico  tormento  la  segreta 
Lor  medica  virtù  fan  manifesta. 
À  lui  la  pioggia,  il  vento  e  la  procella 
Del  lor  muto  appressar  mandano  il  segno , 
Perché  cauto  ne  scampi,  o  se  n'allegri^ 
E  a  lui  la  terra  (meraviglia  a  dirsi  !  ) 
I  suoi  profondi  scuotimenti  avvisa, 
Quando  a  darle  travaglio  alza  il  tridente 
L'irato  Enosjgéo.  Fuggendo  allora 


***78  CANTO  pftmo  aoi 

Atterrito  per  tatta  la  campagna, 
Con  jGocIie  voci  e  con  lunghi  lanujnti 
Air  ignaro  mortai  predice  e  grida 
Il  yicin  crollo  della  madre  antica, 
Ed  accorto  fa  lui  del  suo  periglio, 
Dell^  uom  non  meno  che  di  sé  pietoso. 

Né  la  rirtJi  soltanto  a  lui  si  svela 
Or  innocente,  or  ria,  che  nelle  fibre 
De'  vegetanti  imprigionò  natura^ 
Né  sol  degli  elementi  ci  sente,  e  dice 
I  vicini  tumulti  (ahi  nostro  danno. 
Che  il  sapiente  &vellar  del  bruto 
Capir  non  puote  in  intelletto  umano!) 
Ma  fira  F  immenso  popolo  diverso 
De' suoi  simili  chi  nel  cor  gli  desta 
Dell'amico  ad  un  tratto  e  del  nemico 
La  conoscenza?  E  quale  Iddio  lo  sforma 
A  tremar  di  paura  innanzi  a  questo, 
E  innanzi  a  quello  saltellar  di  gioja? 
Chi  tal  gli  diede,  e  tanto,  e  sì  sublime 
Accorgimento,  e  ne  lasciò  Pùom  privo? 
Fu  la  tua  cieca  largitate,  o  caro 
Malaccorto  fratello.  Ahi  che  alla  mano 
Che  lo  profuse,  più  non  toma  il  dono! 
E  taccio,  che  partecipe  del  lampo 
Della  diva  ragion  lo  festi  ancora. 
La  qual  se  pigra  e  languida  e  confusa 
NeU' animante  scintillar  si  vede. 
Colpa  é  sol  forse  di  sue  membra,  a  cui 
Non  fii  del  tatto  liberal  Natura, 
Né  deDa  lingua  all'imperfetto  guizzo 
Permise  la  volubile  parola. 

Nudo  intanto  ed  inerme,  e  degl'insetti 
Al  pungolò  protervo  abbandonato, 
L'uom  de' venti  trastullo  e  delle  piogge. 
Or  tremante  di  ^lo,  or  da' cocenti 


202  IL   PBOMBTBO  **  ^^k 

Raggi  del  sole  abbrustolato  e  bruno, 
Ovunque  fermi,  ovunque  volga  il  piede, 
Sia  laddove  d^Ànunon  ferve  P  arena, 
Sia  dove  ha  cuna,  o  dove  ha  tomba  il  sole, 
Dappertutto  di  vesti  è  V  infelice 
n  molle  corpo  a  ricoprir  dannato^ 
Furando  adesso  la  sua  spoglia  al  solo 
Quadrupedante,  per  furarla  un  giorno 
Al  vermicciuol  pur  anco  ed  alla  pianta. 
Se  talor  tanto  la  gentil  sua  cute 
Tollerando  s^ indura,  che  gli  etemi 
Ghiacci  pur  giunga  a  sostener  d^Àrturo, 
E  invan  la  pioggia  lo  flagelli,  invano 
D'Orizia  il  punga  F  ispido  marito^ 
Quanto  affimno  gli  vai,  quanto  conflitto 
Quel  penoso  trionfo?  e  quanta  insième 
Natia  beltate  al  suo  sembiante  è  tolta  ? 
Squallido,  bieco,  rabbufiato  ed  irto. 
Di  fiera  il  volto  ei  tien,  di  fiera  il  pelo, 
E  P  nom  nell^  uomo  tu  ricerchi  indamo. 
Né  de^  mali  suoi  tanti  è  qui  la  trista 
Serie  conclusa.  Primamente  Paria 
Co^  vagiti  a  ferir  P  invia  natura 
Di  tuttequante  idee  povero  e  nudo. 
Misero  1  il  solo  deViventi,  il  solo 
Cui  d^aita  sprovvisto  in  sul  medesmo 
Limitar  della  vita  aspra  madrigna 
La  gran  madre  abbandona,  e  della  Parca 
Al  severo  governo  lo  rassegna. 
Egro,  piangente,  derelitto  ei  dunque 
Né  Patimento  suo,  né  la  materna 
Poppa  conosce,  a  suggere  la  morte 
Pronto  al  par  che  la  vita.  Se  vien  manco 
L'opra  un  istante  della  pia  nutrice, 
Qual  nauseoso  miserando  obbietto! 
Uopo  è  dal  corpo  tenerello  e  nudo 


»'•  35o  CANTO  PBIMO  ao3 

Degli  elementi  sdlontanar  P insulto, 
.    Uopo  è  il  passo  insegnargli  e  la  favella. 

Né  migliora,  crescendo,  il  suo  destino. 

Se  Yuol  la  piena  traversar  d^un  fiume, 

Pria  del  nuoto  impai*ar  Parte  è  costretto. 

Se  del  ventre  i  latrati  acquetar  brama. 

La  dolce  stilla  del  materno  seno 

Mutar  gli  è  forza  nel  Gaonio  firutto , 

E  coU^aspro  cinghiai  nella  foresta 

Miseramente  disputarsi  il  vitto. 
Verrà  poi  tempo,  è  ver  (che  Palma  Temi 

Delle  sorti  potente  e  del  futuro 

À  me  nell^  antro  del  Parnaso  il  disse, 

E  molte  rivelò  meravigliose 

Dell^  oscuro  avvenir  tarde  vicende  ), 

Tempo  verrà  che  Cerere  divina, 

Delle  provvide  leggi  ispiratrice , 

Dal  Giel  recando  una  gentil  sua  pianta, 

Cortese  ne  farà  dono  alla  terra, 

E  dagli  alati  suoi  serpenti  addotto 

Trittolemo  inviando,  un  cotal  figlio 

Di  Metanira,  a  propagarne  il  seme, 

E  Puso  ad  insegnar  del  curvo  aratro. 

Farà  col  senno  e  Parte  e  la  pietade 

ÀIl^  uom  corretto  abbandonar  le  querce, 

Ed  abborrir  delP  irte  fiere  il  cibo. 

Ma  parergli  ben  caro  un  si  bel  dono 

Gli  farà  di  Giunon  P  aspro  marito^ 

Perocché  Dio  severo  i  petti  umani 

Sollecitando  con  pungenti  cure, 

Comanderà  di  tutte  Perbe  inique 

L^  empio  parto  alla  terra,  onde  penoso 

Del  firutto  cercai  venga  P  acquisto. 

Di  triboli  e  di  felce  orridi  i  campi 

Si  vedran  largamente.  Aspra  boscaglia , 

U  ispido  cardo  e  la  sdegnosa  ortica 


ao4  n.  PROMETEO  •'•  ^^ 

Abbonderà  per  tatto,  e  dei  sodati 
Nitidi  colti  si  faran  tiranni 
L^  ostinata  gramigna,  il  maledetto 
Loglio,  e  le  vote  detestate  arene; 
Le  quai  proterve  alla  divina  pianta 
n  delicato  corpo  soffocando , 
E  involando  Fumor  del  pio  terreno, 
Ingiusta  le  daran  morte  crudele. 
Né  fian  già  questi  gli  avversar)  soli 
Cbe  palpitar  di  tema  e  di  sospetto 
B  faticoso  agricoltor  faranno. 
Allorcbè  volte  al  rapitor  cornuto 
Dell'  agenorea  figlia  il  Sol  le  terga 
De'  firatelli  Ledei  la  spera  infiamma, 
E  susurrando  la  matura  spiga 
Le  bionde  chiome  inchina,  e  chiamar  sembra 
L'operoso  villano  a  come  il  firutto, 
Ecco  nuovi  terrori  all'infelice, 
Ecco  nuovi  perigli  e  nuovi  aflhnni. 
La  saltante  gragnuola ,  il  caldo  vento , 
I  torrenti,  le  belve,  e  le  voraci 
Torme  pennute  gli  saran  sovente 
Di  lagrime  cagione  e  di  sospiri. 
So  ben  che  quando  di  Dodona  il  vitto 
In  altro  vitto  cangeran  le  genti. 
Nuove  sembianze  ancora  e  nuovo  rito 
Prenderà  l'universo.  All'auree  stelle 
Darà  figura  allor,  sentiero  e  nome 
L'audace  navigante.  Allor  recise 
Dai  patrii  gioghi  scenderan  le  querce, 
Che  sui  flutti  volando  andran  superbe 
Co' venti  a  rinnovar  la  lite  antica, 
E  in  remote  a  portar  barbare  terre 
Merci  a  vicenda,  e,  più  d'assai  che  merci. 
Costumanze  e  folhe,  morbi  ed  errori* 
In  uso  volgerà  dell'uomo  allora 


I  suoi  fiiOGhi  Yulcaii)  de^qoai  nascose 
L^invido  GioTe  nella  fredda  selce 
Gli  elementi  immortali.  Le  sne  care 
Forme  divine  scoprirà  natura^ 
Germoglieran  gli  affetti,  e  tutte  insomma 
Si  schiuderanno  del  desir  le  fonti, 
Che  doTran  Puman  cuore  impetuose 
Irrigar  sempre,  e  non  sbramarlo  mai. 
Generato  il  desir,  tosto  pur  fia 
Generato  il  bisogno.  E  questo  sozzò 
Mostro  ingegnoso  col  dolore  al  fianco 
Che  acuto  il  punge,  e  col  piacer  da  fironte, 
Che  dolce  il  chiama,  e  Faspra  via  gV  infiora, 
S'ammoglilerà  non  pigro  alla  malvagia, 
Cihe  tutto  vince,  indomita  fatica^ 
E  con  vile  connubio  alle  pudiche 
Arti  darà  la  prima  vita,  aU'artì 
Di  turpe  genitor  figlie  vezzose. 
Dall^antico  suo  stato  a  mano  a  mano 

Dunque  Puom  tolto,  ed  innocente  in  prima 
Nelle  selve  gli  augei,  nelTonde  i  pesci 
Insich'ando^  e  poi  fidando  avaro 
n  firumento  alla  terra,  al  mar  la  vita^ 
Reggitor  della  sua,  poscia  di  molte 
Congregate  Maniglie  ^  indi  le  mura 
'E  le  leggi  ponendo  in  sua  difesa^ 
Indi  in  sen  di  natura,  in  sen  di  Giove 
Spingendo  il  guardo,  e  alTun  strappando  e  aU^altra 
L'oscuro  vel  che  li  tenea  nascosi^ 
Alfin  dal  seggio,  in  che  gli  avea  locati 
n  suo  primo  timor,  cacciando  i  Numi, 
£  so  stesso  mettendo  in  quella  vece 
Dalla  forza  protetto  e  dal  terrore^ 
L'uom,  dico,  a  tanta. di  pensieri  altenea, 
E  delle  cose  alla  cagion  salito, 
SA  stesso,  ahi  folle!  estimerà  felice. 


ao6  n.  PROMETEO  •"•  4^ 

E  misero  più  fia,  quanto  più  Innge 
L^arte  vedrassi  allontanar  natura. 
Sorgeran  le  città,  si  cangeranno 
In  superbi  palagi  le  divelte 
Rupi,  e  raorì>ide  coltri  e  aurate  travi 
Difenderanno  de^  mortali  il  sonno. 
Più  lauto  il  cibo,  più  gentil  la  veste 
Troveranno  le  membra,  e  su  le  labbra 
Verrà  d^  amico  più  firequente  il  nome, 
E  più  stretti  gli  amplessi,  e  più  soavi 
Faransi  i  modi,  e  più  cortesi  i  detti. 
Ma  più  bugiardo  batterà  nel  petto 
n  cor  pur  anco,  e  latreran  più  vivi 
I  suoi  rimorsi^  più  fiigaci  i  sonni. 
Più  fugace  la  vita^  e  con  avaro 
GonJBn  divisi  si  vedranno  i  campi, 
E  risonar  la  barbara  parola 
S'udrà  del  tuo,  del  mio.  Sovra  le  mense 
Manderan  Perbe  i  lor  veleni,  e  colme 
Delle  madrigne  ne  saran  le  tasse, 
E  le  tazze  de'  regi.  Infame  ordigno 
Diverranno  di  morte  il  bronzo  e  il  ferro, 
E  più  del  ferro,  e  più  del  bronzo,  infeme 
L'oro  esecrato  a  tutte  colpe  il  varco 
Spalancherà,  poiché  divelto  un  giorno 
Un  rio  demon  V  avrà  dal  violato 
Sen  della  terra,  che  il  chiudea  gelosa, 
Del  suo  parto  fatai  forse  pentita. 
Di  Temide  p«r  lui  calcata  e  franta 
Si  vedrà  la  bilancia,  ed  il  delitto 
Lieto  esultar  dell'  innocenza  oppressa. 
Per  lui  mendica  la  virtù,  per  lui 
Ricco-vestita  l'ignoranza,  mute 
D'onor  le  leggi,  e  con  nefandi  incensi 
Adorata  la  colpa  e  il  Giel  tradito. 
Luogo  sarà  nelle  cittadi  impuro, 


«'•494  CANTO  PRIMO  aoy 

Drogai  vizio  sentina,  a  cui  di  Corte 
Daran  nome  i  mortai,  d^Abisso  i  Numi. 
Queir  avversaria  d^  ogni  patto,  e  d^ogni 
Scelleranza  maestra  e  consigliera, 
Àmbizìbn  vi  sederà  reina^ 
Né  in  veruna  così,  siccome  io  veggo 
Nella  man  di  costei,  fabbro  di  mali 
Sarà  Tempio  metallo,  onde  la  cruda 
Non  pur  la  terra  comprerà,  ma  il  Cielo. 
Quindi  (iniquo  mercato!)  alla  superba 
L^ amico  un  giorno  venderà  F amico, 
La  consorte  il  marito ,  e  la  sua  patria 
Sacrilego  ed  infame  il  cittadino^ 
A  lei  spergiuro  le  battaglie,  e  il  sangue 
De^suoi  prodi  guerrieri  il  capitano^ 
A  lei  le  rocche  il  traditor  custode, 
E  la  voce  de^  Numi  il  sacerdote  : 
E  per  lei  nelle  fervide  fucine 
Suda  Vulcano ,  in  omicidi  arnesi 
Le  pacifiche  falci  figurando, 
E  i  vomeri  innocenti^  e  Marte  intanto 
Lo  scudo  imbraccia,  e  la  grave  asta  ini|)Ugna, 
E  Pugna  de' cavalli  procellosi 
Sanguinando  per  tutta  la  campagna, 
Di  pianti  allaga  e  di  delitti  il  mondo. 
Oh  Marte!  oh  Guerra!  Orribil  mostro,  nato 
(ChiU  crederia?)  nel  cielo ^  ove  d'Olimpo 
I  cardini  scuotesti,  e  colla  tua 
Sanguigna  face  violasti  il  puro 
Delle  vergini  stelle  almo  candore, 
E  le  prime  saette  in  man  ponesti 
Contro  Satnmq  di  Saturno  al  figlio^ 
Oh  Guerra!  oh  delle  Furie  la  più  ria, 
La  più  ria  delle  Furie  e  la  più  antica! 
Al  tremendo  tuo  nome  il  ciel  si  turba 
Per  la  memoria  della  prisca  offesa , 


ao8  n.  PROMBiBo  ^'  ^^ 

E  sbigottita  palpita  natura. 

D'amor,  di  cantate  i  santi  nodi 

Tu  rompesti  primiera,  e  contro  i  padri 

I  figli  armasti  ambiziosi  e  crudi, 

E  i  firatelli  azzufiasti  co'fiatelli. 

Le  sitibonde  glebe  a  ber  sol  use 

Le  lagrime  dell^alba,  tu  con  altre 

Stille  disseti,  e  con  allegro  piede 

Squarciate  membra  calpestando ,  e  bocche 

Spiranti,  e  petti  palpitanti  ancora 

In  tiepida  di  sangue  atra  laguna, 

Con  fiera  gioja  a  quell'orror  sorridi, 

Crudele!  e  Tinno  di  vittoria  intnoni. 

Mentre  sulla  tua  gota  a  calde  gocce 

Gronda  sangue  Pallór  che  ti  corona. 

Ahi!  che  tu  sulle  stesse  are  de'Numi 

Sovente  airuoti  i  tuoi  pugnali,  ed  osi 

Santificar  le  colpe,  e  temeraria 

La  vendetta  arrogarti  anco  del  cielo. 

Del  ciel,  che  tutta  a  sé  serbolla,  ed  alto 

Àll'uom  gridò:  Mortai^  perdona  ed  ama. 

E  Tuom  sordo  a  quel  grido,  e  dai  sonori 

Serpi  d^ Aletto  flagellato  e  spinto  , 

L' un  si  squarcia  coli'  altro ,  e  la  più  bella 

A  struggere  dell'opre  s'affatica. 

In  che  tanto  pensier  pose  natura. 

Sangue  corrono  i  campi,  e  sangue  i  fiumi ^ 

Sangue  si  vende,  oh  dio  !  sangue  si  compra, 

E  tradimento  e  forza  a  pie  del  trono 

Fan  P orrendo  contratto.  Occulta  intanto, 

E  d'atro  velo  ricoperta  il  viso. 

La  celeste  Pietà  di  porta  in  porta 

Va  dflle  spose  scapigliate,  e  degli 

Orfani  figli,  e  de'  padri  cadenti 

Asciugando  le  lagrime  furtive. 

Furtive,  e  agli  occhi  e  al  mest6  cor  sol  note, 


*-^  CAUTO  miro  aog 

Poiché  aperto  dolor  già  (alto  é  colpa. 
Deh,  santissima  Dea,  se  chiusi  in  tenr^ 
Sono  i  cuor  de^  tiranni  alle  tue  tocì. 
Se  dei  traditi  vacillanti  troni 
Ferma  è  pur  la  ragion,  che  d^altre  piaj^e 
Solcar  si  debba  dell^  Europa  il  petto, 
Perchè  tutto  nell^ Angliche  catene 
Gema  Nettuno ,  e  fornicar  si  vegga 
Con  peggior  drudi  PÀgenorea  figlia , 
Deh!  tà  squarcia  le  nuvole,  e  passaggio 
Deir  oppresso  universo  apri  alle  grida. 
L' ale  impenna  ai  sospiri,  e  nell'  orecchio 
Del  maggior  Nume  come  tuon  li  spingi. 
Destalo,  ed  egli  le  saette  impugni 
Già  troppo  neghittose,  e  sul  tonante 
Carro  immortai  di  sua  giustizia  assiso. 
Della  terra,  che  tutta  peccatrice 
Funando  delira  e  si  distrugge. 
La  gran  contesa  a  giudicar  discenda. 
Cosi  parlava  il  ben  veggente  e  giusto 
DeUe  Caucasee  rupi  abitatore, 
E  tutto  foco  i  rai,  foco  le  gote, 
Del  remoto  futuro  entro  gli  abissi 
Spingea  le  luci,  che  P  antica  Temi 
-Lunga  stagion  gli  avea  nella  divina 
Grand^  arte  de^  profeti  esercitate. 
E  in  quel  sacro  furor  V  alma  rapito, 
Che  i  secoli  sormonta,  e  tutto  al  guardo 
n  turbine  veloce,  e  la  mina 
Dell^ umane  vicende  sottomette, 
Mentre  signor  del  fato,  e  del  suo  libro 
Col  più  tardo  avvenir  parla  il  pensiero , 
Vedea  quel  saggio  fra  tempeste  e  nembi 
Sopra  libere  penne  al  ciel  levarsi 
Della  terra  i  sospiri,  e  seguitarli 
Con  obliqui  occhi  e  con  incerto  passo 


210 


IL   PROMETEO  *' ^* 

(Quali  il  greco  cantor  poscia  le  vide) 

Le  dolorose  ed  umili  Preghiere, 

Di  lagrime  per  via  bagnando  il  riso, 

E  tutto  alla  pietà  movendo  il  Cielo. 

Abbracciar  le  ginoccbia  le  vedea 

D'un  Dio  maggior  di  Giove,  a  cui  salire 

Distinto  non  sapeva  il  suo  concetto, 

Né  nomarlo  il  suo  labbro;  e  questo  Dio 

Stender  la  destra  alle  dolenti  Dive, 

Rd  inchinar  sovr'esse  i  maestosi 

Suoi  neri  sopraccigli,  onde  le  chiome 

D' ambrosia  rugiadose  tremolando 

Sulla  fronte  immortai  diero  una  scossa 

Che  tutto  fece  traballar  P  Olimpo. 

Poi  daUa  grande  orribile  faretra. 

Che  Morte  ed  Ira,  sue  ministre,  al  piede 

Rinfrescando  gli  vanno  e  mai  non  votasi. 

Il  frdmine  prendea,  con  cui  tremendo 

Ài  mortali  ragiona  il  suo  disdegno. 

E  tosto  innanzi  un  giovinetto  Elroe 

Gli  comparia,  che  il  gesto  e  il  portamento 

Avea  di  Marte,  e  Marte  egli  non  era. 

Tricolor  cinto  gli  fasciava  il  fianco 

Superbamente,  e  tricolor  cimiero 

Gli  ondeggiava  sul  capo.  La  sua  fronte. 

Di  cortesia  temprata  e  di  fierezza. 

Profondi  palesava  alti  pensieri; 

Alla  fronte  di  Giove  simigliante. 

Quando  Pallade  ancor  non  partorita, 

Gli  affaticava  F  immortai  cerébro. 

L^  ineffabile  Nume  onnipossente 

A  lui  quindi  facea  queste  parole  : 

Prendi,  invitto  guerrier,  prendi  secuiH> 

La  folgore  di  Dio.  Per  me  la  vibra 

Su  gli  ostinati  troni,  ornai  di  troppo 

Sangue  vermigli;  col  mio  strale  in  pugno, 


À  chieder  pace,  a  supplicar  gli  sforza, 
E  finisca  per  te  elei  Mondo  il  pianto. 
Così  dicendo ,  il  fulmine  supremo 
Gli  consegnò^  né  della  man  mutata 
Accorgersi  parca  Panne  drvina, 
Ma  più  terribil  anzi  e  più  sdegnosa 
Guizzar  nel  pugno  del  novello  erede. 
Ed  ei  con  braccio  rigoroso  e  saldo 
Su  i  Germanici  aampi  la  vibrava 
Fieramente.  Al  nitrito,  al  calpestio 
De^  Gallici  cavalli  risonavano 
Le  Reticbe  montagne,  e  attrita  e  pesta 
Sotto  Pugne  feirate  si  scaldava 
La  Vindelica  neve.  Non  potea 
Stupe£Bitto  rag^ugnere  il  pensiero 
Di  sue  vittorie  il  volo ,  e  non  ardia 
Darle  tutte  la  Fama  alla  sua  tromba. 
Paventando  bugiarda  esser  tenuta. 
Al  fragor  de' suoi  tuoni,  al  truce  lampo 
De' tremendi  suoi  sguardi  e  di  sua  spada 
Ivan  r  onde  dell'  Istro  impaurite , 
E  con  volo  di  timida  colomba 
Fuggia  scema  dell'  ali  e  degli  artigli 
La  bellicosa  degli  augei  reina. 
Tremava  tutta,  e  si  battea  la  guancia, 
Del  contumace  suo  furor  pentita , 
La  superba  Lamagna^  e  del  suo  sangue 
Tinto  e  satollo,  alfin  sorgea  l'olivo. 
All'apparir  che  fea  sulle  gelate 
Noriche  vette  1'  arbore  divina , 
Esultava  la  terra,  e  rispettosi 
A  baciarla  venieno,  a  carezzarla 
Con  molli  penne  d'ogni  parte  i  venti. 
Sulle  Pannonie  rupi  alto  sferzando 
I  destrier  rugiadosi,  in  sul  mattino 
La  salutava  il  Sole,  e  con  soave 


212  IL  raOHBIBO  *-  ^4 

Riso  di-  luce  dal  mortai  bìh>  sonno 

Tutto  sveg^va  a  onova  vita  il  mondo. 

Ricondncean  secnre  al  pasco  antico 

L'allegre  pastorelle  i  cari  armenti. 

AflOava  cantando  il  Tillan  duro 

Il  curvo  dente  di  Saturno,  e  lieto 

L'ore  affirettava  di  troncar  la  spica ^ 

Che  d'oltraggio  gnerrier  più  non  temea. 

Qua  stringesi  una  madre  al  seno  il  fi^o, 

Cui  già  spento  piangea,  nò  al  Cid  si  sente 

Più  lamentarse  del  fecondo  grembo. 

Là  del  salvo  marito  al  collo  gitta 

Una  tenera  sposa  ambe  le  braccia, 

E  sull'adusto  a&ticato  petto 

Le  ferite  cercando,  con  pietosa 

Bocca  le  bacia,  e  colla  man  le  tenta 

Ripugnante  d' orror.  Odesi  altrove 

Risonar  d'inni  il  tempio,  e,  sciolte  in  forno, 

Van  l'odorate  lagrime  Sabée 

Lassù  le  nari  a  rallegrar  de'Numi. 

E  per  le  piazze  intanto  e  per  le  vie 

Un  trambusto  di  dame  e  di  guemeri 

Cantici  e  ludi^  un  esclamar  per  tutto. 

Un  abbracciarsi,  un  fremere  di  gioia , 

Che  di  dolce  follia  l'alme  rapisce. 

E  in  cotanta  esultanza  ecco  novello 

Di  letizia  argomento;  ecco  Minerva 

Che  la  sazia  di  sapgue  pesante  asta 

Depon  placata,  e  ne'Cecropj  prati 

Le  vergini  cavalle  a  pascer  manda 

n  trifoglio  divin,  mentre  lo  scudo 

Stan  nel  fiume  a  lavar  d'Argo  le  figlie. 

Ed  essa  la  gran  Dea  per  l'ampie  sale 

De'Peripati  l'attiche  lucerne 

Raccende,  in  nembo  d'erudita  polve 

Strascinando  il  regal  paludamento. 


•'•  7»<>  CANTO    PHIMO  a  I  3 

Riviver  liete  d^ogni  parte  vedi 

D^Académo  le  selve,  e  in  gran  frequenza   . 

Correr  FÀrti  a  sudar  nei  sacri  arringhi. 

Quindi  un  picchio  incessante,  un  cigolio 

Di  scalpelli  e  di  marmi,  un  mescolarsi 

Di  colori  e  pennelli,  onde  operose 

Prendon  le  tele  sentimento  e  vita. 

Poi  di  cetre  un  fragor,  che  vario  e  dolce 

Scorre  sull'^alme,  e  giù  dal  balzo  an*iva 

Del  beato  Elicona.  Ivi  seduto 

Fra  le  pudiche  Aganippee  fanciulle 

Lo  stesso  di  Latona  inclito  figlio 

Di  quel  famoso  Giovinetto  i  forti 

Fatti  cantava  e  le  fatiche  e  Pira, 

Con  questo  carme  innamorando  il  Cielo. 
Chi  è  colui  che  rapido  qual  folgore 

Scende  dal  monte,  e  sguardi  formidabili 

Vibra  in  sembianze  giovanili  e  tenere? 

Lo  precorre  Bellona,  e  sotto  il  fervido 

Calpestar  dei  fumanti  atri  cornipedi 

Tremano  Palpi,  e  su  le  porte  Cozie 

Lutalo  Genio  spaventato  affacciasi. 

Memore  ancor  dell^  ardimento  Punico. 

Oh,  del  primo  maggior,  secondo  Annibale, 

Pochi  sono  i  tuoi  Forti,  e  non  si  coprono 

Di  ferro  il  petto ,  né  P  aita  affidali 

Di  Nimiidi  elefanti,  ma  del  gallico 

Valor  P usbergo  portano  sull^  anima, 

E  Parte  sanno  di  morire,  o  vincere. 

Oh  vai  di  Dego  orrenda!  oh  gioghi  indomiti 

Di  Montenotte!  oh  re  de' fiumi  Eridano! 

E  tu  Mincio  fatai,  che  di  cadaveri 

Le  tue  lagune  già  vedesti  crescere, 

E  dal  nido  natio  smarrita  e  pallida 

L'ombra  involarsi  del  Cantor  di  Mantova^ 

E  voi  dell'Adda  iniqui  ponti,  e  d'Arcoli 
Monti.  Poemetti.  i4 


2  I  4  *!•  PROMETEO  •*•  74^ 

Ostinate,  pianure^  e  voi  di  Rezia 
Fieri  dirupi,  e  delT estremo  Norico 
Risonanti  fucine,  ove  fa  gemere 
Vulcano  a  Marte  la  Tedesca  incudine, 
Dove  son,  rispondete,  i  vostri  eserciti? 
Dove  i  duci,  i  cavalli,  e  i  tuoni,  e  i  fulmini 
De^ vostri  bronzi?  e  il  fior  più  scelto  e  vivido 
Della  bionda  Lamagna  ?  Ohimè!  Pltalico 
Campo  del  sangue  di  quei  prodi  impinguasi, 
E  vagar  P  insepolte  ombre  si  veggono 
Sdegnósamente,  e  fremere  sulPAdige 
Di  Germanica  strage  ingombro  e  turgido. 
Salve,  o  madre  d^Elroi,  salve  terribile 
Francese  Liberta^  salve  magnanimo 
Gampion,  che  chiudi  in  fior  di  membra  altissimo 
Vigor  di  senno.  A  te  dinanzi  attonita 
Tace  la  terra  ^  ma  dolente  mostrati 
Le  non  ben  rotte  sue  catene  Ausonia, 
E  di  spezzarle  interamente  pregati. 
Deh,  P ascolta,  per  dio!  deh  forte  avvolgile 
La  man  nel  crine  venerando,  e  salvala^ 
CVella  Ve  madre,  e  le  materne  lagrime 
Al  cor  d^  un  figlio  la  pietà  comandano. 
Poi  sull^ Olimpo,  che  t^ aspetta,  il  nettare 
Vien  co^Numi  a  libar  fira  Giove  ed  Elrcole. 
Questi  accenti  sposava  alla  sua  cetra 
n  Signor  delle  Muse^  e  mentre  i  boschi 
Di  Pindo  e  Citeron  molce  il  suo  canto. 
Tacciono  i  sacri  ruscelletti,  e  Paure 
Non  osano  di  far  rissa  e  bisbiglio. 
Stillavan  tutti  licpiida  firagranza 
I  suoi  biondi  capelli,  e  all'agitarsi 
Della  testa  immortai,  quante  sul  suolo 
Cadeau  le  gocce  del  licor  celeste , 
Tante  nascean  viole  ed  asfodilli. 
Poi  finito  il  cantar,  dalP aurea  fironto 


^•7^  CAUTO   PRIMO  2l5 


Togliersi  Fd>o  il  tuo  bel  lauro  istesao, 
Di  poeti  superbia  e  £  guerrieri , 
E  dell^  invitto  b  ponea  sul  crine. 
Allor  dal  volto  dell^Eroe  partbsi 
Tal  di  ra^i  e  di  lampi  nn  largo  nembo, 
Che  tutta  di  sua  luce  empiea  la  terra  ^ 
Non  da  quella  diversa  che  Minerva 
Sul  capo  accese  del  divino  Achille, 
E  tremenda  a  toccar  f^  astri  giuugea, 
Quando  apparve  de' Teneri  all'improvviso 
Sul  terribile  fosso,  e  alla  sua  vista 
Si  rovesciar  cavalli  e  cavalieri 
Confusamente,  e  salva  si  sottrasse 
Dall' Ettoreo  furor  la  combattuta 
Esangue  spoglia  del  diletto  amico. 
Tal  era  lo  splendor  che  dalle  care 
Fiere  sembianze  del  Guerriero  uscia. 
Tergea  FEIuropa,  in  lui  mirando,  il  pianto, 
E  il  suo  possente  salvator  da  lungi 
Colla  manca  accennando  alle  sorelle, 
Porgea  lor  colla  destra  il  ramosceUo 
Del  sacro  olivo,  e  promettea  che  presto 
Colla  vindice  man  tolte  le  avria 
Dell'  anglico  ladrone  alle  catene. 
Carco  d' od)  frattanto  e  di  delitti. 
Con  mozzi  artigli  e  dischiomata  giuba 
Agonizzar  dell'Adria  si  vedea 
L' orgoglioso  decrepito  L'ione. 
D'arcano  velo  circondati  e  chiusi 
Eran  questi  i  portenti  che  per  entro 
La  sacra  notte  del  fìitur  vedea 
L'indovino  Titano^  e  preso  intanto 
Di  stupor,  di  rispetto  e  di  paura, 
Non  alitava,  non  battea  palpebra 
A  quell'alte  parole  Epimctéo. 
E  come  quando  ne'Carpazj  flutti, 


2l6  n.    PROMETEO  •'*** 

Che  avea  turbati  PAquilon,  se  chiude 
L^ enfiata,  bocca  F iperboreo  dio, 
E  gli  muor  la  procella  in  su  le  labbra, 
A  poco  a  poco  quetasi  pur  anco 
La  discordia  dell^onde,  e  al  Sol  che  toma 
Leggiadramente  tremolar  le  vedi: 
AUor  la  rete  il  pescator  ripiglia, 
Ed  allegro  il  nocchier  lasciando  il  porto, 
E  spiegando  la  vela  al  mar  di  nuovo 
Le  sue  speranze  crede  e  la  sua  vita. 
Non  altrimenti  di  Giapeto  al  figlio, 
Poiché  lo  spirto  racquetossi  e  il  petto 
Dal  profetico  ardor  sconvolto  e  scosso , 
n  primo  volto  venne,  il  color  primo; 
E  calmato  e  sereno:  Or  via,  firatello. 
Datti  pace,  soggiunse:  al  tuo  fallire 
Non  disperar  salute:  io  te  n^aflSdo. 
Sorgerà  Puomo  dal  suo  basso  stato, 
E  tanto  al  ciel  si  leverà  sublime. 
Che  d'invidia  n'andran  pur  tocchi  i  Numi. 
Pisse;  e. nel  cor  magnanimo  premendo 
n  suo  disegno,  e  dal  disio  soltanto 
Di  liberar  le  sue  promesse  acceso. 
Verso  la  sacra  argolica  contrada 
Per  molta  terra  e  molto  mar  divisa, 
Come  del  fato  lo  spingea  la  forza, 
Senza  più  dubitar  prese  la  via. 
E  doloroso  di  lasciar  P  antico 
Dolce  ricetto:  Addio,  sclamava,  addio, 
Gare  selve  beate,  che  ramingo 
Nel  vostro  sen  mi  riceveste  il  giorno, 
Che  mal  del  cielo  disputo  F  impero 
H  misero  mio  padre ,  e  voi  pietose 
Agli  strali  di  Giove  in  quel  periglio 
Mi  nascondeste,  né  veruno  il  seppe 
De' mortali  gran  tempo  e  de' celesti. 


'•  *54  CANTO    PRIMO 

Salve,  rape  sublime,  ov^io  solea 
Nei  sacri  della  notte  alti  silenzi 
Interrogar  le  stelle,  e  in  quei  lucenti 
Volti  del  fato  esaminar  le  vie^ 
Mentre  queti  dintorno  e  rispettosi 
Tacean  sul  monte  e  nella  selva  i  venti, 
E  sol  nell'ombra  mormorar  da  lunge 
Quinci  il  Caspio  studia,  quindi  P Eusino. 
Addio,  sonante  Àrràgo,  addio,  veloce 
Onda  del  Gerro,  alle  cui  fonti  assiso 
Io  salutava  in  oriente  il  Sole, 
E  contemplar  godea  come  all'aspetto 
Dell'  immortai  sua  lampa  genitrice 
Rivestivansi  allegre  e  rugiadose 
Del  deposto  color  F erbette  e  i  fiori, 
E  tutta  dal  suo  sonno  uscia  la  terra. 
Voi  dunque  di  mie  veglie  e  di  mie  pene 
Confidenti  pietosi,  o  boschi,  o  fiumi, 

0  spelonche,  o  dirupi,  ricevete 
Del  fido  vostro  solitario  amico 

1  dolenti  congedi.  Io  v'abbandono. 
Ma  il  cor  che  spesso  l'avvenir  segreto 
Co' suoi  palpiti  avvisa,  il  cor  mi  viene 
Significando  occultamente  in  petto 
Che  tornerò  pur  anco  al  vostro  seno, 
Ed  illustre  darò  perpetua  fama 

Con  più  grandi  sventure  a  queste  rapi. 


117 


DEL 

PROMETEO 


CANTO  SECONDO 


Cosi  dicendo  ancor,  già  volte  avea 
Al  Caucaso  le  spalle,  e  Io  seguia 
Con  dimessi  sembianti  e  guardo  chino 
La  ca^on  d^ogni  danno  Epimet&>. 
E  già  premea  di  Coleo  la  pianura 
E  del  Fasi  suonar  Fonda  studia, 
Quando  repente  nel  toccar  la  riva 
Un  orrendo  gli  apparve  alto  portento^ 
Perchè  di  mezzo  al  fiume  una  feroce 
Gigante  larva  sollevava  fl  petto, 
Che  con  ambe  le  man  martelli  e  chiodi 
E  catene  durissime  scotea, 
Vietando  il  passo  e  minacciando  offese^ 
E  con  aperte  branche  una  crudele 
Aquila  incontro  gli  venia  di  voglie 
Si  nequitose,  che  nel  cor  già  fitto 
Pareagli  averne  il  dispietato  artiglio. 

AlPapparir  che  fece  allHmprowiso 
La  minacciosa  vision,  sentissi 
Tremar  le  vene  di  Giapeto  il  figlio, 
E  palpitando  di  passar  la  riva 
Già  stava  in  forse,  o  di  voltar  la  fronte. 
Quand^ecco  dalla  parte  ove  d^ Atlante 
Piombano  tempestose  in  mar  le  figlie. 
Venir  scorrendo  un  rauco  tuono  il  cielo, 
E  di  procelle  gravida  e  di  lampi 


'•  3^  IL  PROMETEO,   CANTO    SECONDO  HIQ 

Una  nube  avanzar  lunghesso  il  fiume, 
Che  sbigottia  la  vista,  e  tutta  in  grembo 
Portar  parca  d'inferno  la  ruina. 
E  dalla  nube  una  donzeUa  uscfa 
Tutta,  fuorché  la  fronte,  il  petto  armata 
Di  tersissimo  usbergo  adamantino, 
Fuorché  la  fronte  all'ire  esposta  ognora 
Dei  turbati  elementi,  e  ognor  serena. 
Così  talvolta  il  Sol,  poiché  di  Giove 
Taccpiero  i  lampi  procellosi  e  i  tuoni , 
Delle  nugole  straccia  il  fosco  velo, 
E  più  bella  che  pria  mostra  la  fironte 
Che  tutto  allegra  di  suo  riso  il  mondo. 
Lieti  allora  i  fioretti  alzano  il  capo 
Dalla  pioggia  chinato,  e  cristalline 
Fan  contro  il  sole  tremolar  le  perle , 
Di  che  tutti  van  carchi  e  rugiadosi. 
Rasciugano  colPale  i  zeffiretti 
L'umor  soverchio  all'erbe  e  agli  arboscelli, 
E  tra  il  rumor  che  dolce  e  in  un  confuso 
Fan  le  selve,  gli  augei,  gli  armenti,  i  rivi. 
Dalle  vaUi  e  dai  monti  invia  la  terra 
Ài  raggio  che  l'avviva,  il  suo  profumo, 
E  tutta  esulta  di  piacer  natura. 
Poiché  (juella  di  turbini  e  di  nembi 
Sprezzatrice  divina  alteramente 
Apparve  fuor  della  squarciata  nube^ 
A  lui,  che  fiso  la  guardava,  in  atto 
Magnanimo  e  gentile,  approssimossi^ 
E:  Fa  cor,  gli  dicea^  comunque  volga 
La  Parca  il  fuso,  col  soffrir  si  doma 
Ogni  fortuna.  Guardami:  son  io  , 
Io  la  Gostanza,  che  ti  parlo  e  guido. 
Più  non  disse  la  Dea,  ma  lusinghiera 
Per  man  lo  prese,  e  tale  un  guardo,  un  riso 
Gli  lampeggiò,  che  pur  d'un  sasso  accesa 


aio  IL  PROMETEO  **■  ^ 

Netle  gelide  vene  avrìa  la  vita. 

À  quel  riso,  a  quel  guardo,  a  quel  possente 

Toccar  di  destra  non   mortai,  per  Fossa 

Velocissimamente  gli  trascorse 

Una  vampa  di  foco,  a  quella  uguale 

De^  Leidensi  fulminanti  vetri. 

Di  speranza  nel  petto  e  di  coraggio 

Gli  fiammeggiò  lo  spirto,  e  U  cor  per  gioia 

L^ali  aprì,  che  serrate  avea  paura. 

Con  questa  al  fianco  securtade  e  guida. 
Assalendo  le  larve  minacciose, 
L^animoso  Titano  oltre  si  spinse^ 
Né  lo  scosse  il  romor  che  quel  fantasma 
Di  catene  facea,  né  la  minaccia 
Di  quegli  artigli;  ma  per  mezzo  al  fumo 
Passar  gli  parve,  e  un  vento  udir  che  vóto 
Gli  mormorò  sul  petto  e  non  Poifese. 

Uscito  appena  alla  contraria  riva, 
A  mirar  si  converse  il  suo  periglio , 
Ned  altro  vide  che  il  Fasiaco  flutto 
Verso  il  gran  seno  camminar  tranquillo 
Della  Pontica  Teti:  e  in  questo  anch^essa 
La  bella  donna  che  sua  scorta  venne , 
Folgorando  sparir,  quale  sovente 
Veggiam  di  notte  scintillar  baleno, 
Onde  prende  smarrito  in  suo  viaggio 
Conforto  e  speme  il  pellegrin  soletto. 
Cui  della  patria  punge  e  della  sposa 
Dopo  gran  lontananza  alto  desio. 

Frettoloso  egli  dunque  il  Giapetide, 
Che  a  custodia  sentia  del  suo  pensiero 
Locata  la  Costanza,  e  più  veloci 
Fatti  i  suoi  piedi,  e  più  gagliardo  il  core. 
Lasciò  di  Marte  il  bosco  alla  mancina. 
Il  fiero  bosco,  a  cui  non  anco  avea 
Il  Caucaso  mandato  il  drago  orrendo. 


•'•9^  CANTO  SECONDO  Hai 

Né  i  fatati  giovenchi  il  Dio  Vulcano , 

Che  di  pietade  avrebbono  e  di  tema 

Fatto  di  Coleo  palpitar  la  Maga 

Nella  famosa  di  Giason  fatica. 

De^  Bizeri  indi  passa  e  de^  Macroni 

Le  inospitali  arene  ^  e  procedendo  » 

Non  rimota  dal  lido  separarsi 

LUsola  vede,  che  Saturno  empiea 

Clamorosi  nitriti^  ed  a  rincontro 

Uscir  Paltra  dall^onde  a  Marte  sacra 

Di  bellicosi  augelli  orrido  nido  ^ 

Cui  lo  stesso  Gradivo  nella  sua 

Terribil  arte  ammaestrar  godea. 

Di  ferro  il  rostro^  e  tutto  han  pur  di  ferro 

n  remeggio  delPali,  onde  ferrate 

Vibran  saette  che  mortai  fan  piaga. 

E  voi  be^  d^Àrgo  lo  saprete  un  giorno, 

Valorosi  campioni,  allor  che  in  traccia 

DW  aureo  vello  su  peliaco  pino 

Qua  verrete  a  cercar  perigli  e  fama. 
Quindi  la  terra  di  pudor  nimica 

De'  Mossineci  a  trapassar  s'aj&etta, 

E  dell'imbelle  Tibareno  i  lieti 

Opimi  campi,  inabitate  allora 

Senza  nome  contrade  e  senza  grido. 

E  i  costumi  frattanto  e  le  vicende 

Vaticinando  al  suo  fratel  ne  viene 

n  v'iator  profeta,  e  del  cammino 

Con  soave  sermon  le  pene  inganna. 
Come  presero  il  suolo,  a  cui  dier  fama 

I  Calibi  operosi:  Ecco,  dicea  , 

Ecco  una  terra,  a  cui  le  colpe  avranno 

Obbligo  molto.  Un  popolo  malvagio 

L'abiterà,  che  nei  profondi  fianchi 

Delle  rigide  rupi  andran  primieri 

A  ricercar  del  ferro  i  latebrosi 


222  IL   PROMBTBO  *'-  ^^ 

Duri  coTili,  e  €011  fatai  consiglio 

A  domarlo  nel  foco,  a  figurarlo 

In  arnesi  di  morte  impareranno. 

LMre,  gli  odj ,  i  rancor,  le  gelosie, 

E  TEIrinni,  che  pigre  ed  incruente 

Andar  vagando  fra^  mortali  or  yedi, 

Allor  di  spada  armate  e  di  coltello 

Scorreran  Funiverso,  e  non  il  seno 

Del  ritroso  terren,  non  Felce  e  Pomo, 

Ma  Puman  petto  impiagheran  crudeli. 

Ecco  gli  antri,  o  firatello,  e  le  caTcme, 

Che  dall^aperte  bocche  a  riguardarle 

Metton  paura,  e  diverran  fira  poco 

Di  quell^empio  lavor  empie  fucine. 

Vedi  Megera  in  gran  faccenda,  vedi 

Le  sue  sorelle  orribilmente  allegre 

Ir  preparando  i  mantici  e  le  incudi, 

E  assister  lieti  allMnfemal  fatica 

n  Furor,  la  Vendetta,  il  Tradimento, 

La  Discordia,  la  Rissa  e  la  Contesa, 

Temerarie  fanciulle.  Odi  il  gavazzo 

Che  fan  le  rie  là  dentro,  odi  il  frastuono 

Che  il  monte  introna,  e  dentro  il  cor  rimbomba. 

Fuggiam  Favaro  lido^  e  tu  rimanti 

Alle  furie,  ai  misfatti,  alle  sventure. 

Terra  dal  cielo  maladetta,  e  stilla 

Sulle  infami  tue  glebe  unqua  non  cada 

Di  benefica  pioggia^  ma  nimico 

Sempre  il  vento  ti  batta  e  la  procella  ^ 

Né  il  Sol  ti  guardi  se  non  quando  orrenda 

Lo  travaglia  Fedissi,  e  vengan  macre 

Sulle  tue  balze  a  partorir  le  lupe. 

O  se  giusto  pregar  d^ascolto  è  degno , 

Col  gran  tridente,  onde  i  tremuoti  han  vita, 

Nettun  ti  colga ,  e  ti  crolli,  e  ti  schianti 

Dai  fondamenti ,  e  in  mezzo  al  mar  ti  scagli , 


*•  «70  CANTO  SECONDO  2a3 

E  il  mar  tHnghiotta;  e  in  Ini  sepolto  e  morto 

n  tno  nome  rimagna  e  il  ino  delitto. 
Si  profetando  ed  imprecando,  all^onda 

Del  Termodonte  arriva,  onda  superba, 

Ma  non  famosa  allor,  né  da  guenriero 

Femminile  vestigio  ancor  battuta. 

Indi  il  campo  traversa  che  nomato 

Fu  poi  Temisdreo^  traversa  il  piano 

Dove  llri  impaluda;  e  via  passando, 

Di  Sinope  tremar  sulla  marina 

La  grand'ombra  rimira,  di  Sin<tpe 

Cui  la  bella  d^Asópo  accorta  figlia 

n  nome  diede  e  fama  il  di  che  feo 

Del  rapitor  Tonante  all'impudica 

Stolida  voglia  un  suo  lodato  inganno , 

Ed  ai  profferti  titoli  divini 

Quel  di  casta  prepose  e  di  fiinciulla. 
Superata  del  torbo  Ali  la  ripa 

Avean  gPillustri  pellegrini,  e  lungo 

Fra  le  nubi  nascondere  la  fronte 

Vedean  Talto  Garambi  alla  diritta, 

Che  con  immani  fianchi  e  vaste  braccia 

n  pelago  respinge,  ed  a  Nettuno 

Gran  parte  usurpa  dell'Eusino  impero. 
Era  il  tempo  che  stanche  in  occidente 

Piegava  il  Sol  le  rote,  e  raccogliendo 

Dalle  cose  i  colori,  all'inimica 

Notte  del  mondo  concedea  la  cura. 

Ed  ella  del  regal  suo  velo  etemo 

Spiegando  il  lembo,  raccendea  negli  astri 

La  morta  luce,  e  la  spegnea  ne'  fiori. 

Un'aura  che  olezzava ,  ed  impregnate 

Dalle  rose  di  Cromna  e  dai  mirteti 

Del  vicino  Citóro  avea  le  penne, 

Con  un  dolce  spirar  feria  la  fronte, 

E  rinfrescava  le  infiammate  vene. 


2^4  IL   PROMETEO  «'•  ^06 

Maggia  frattanto  il  mare,  e  in  lontananza 
Un  rugghio  si  sentia  (jual  di  remoto 
Tuon  che  fra'  nembi  discorrendo  il  cielo , 
NeU^estremo  orizzonte  si  dilegua: 
Ed  era  quel  fragor  che  orrendo  e  cupo 
Le  Simplegadi  fean  quando  sdegnosa 
Coll^Europa  a  cozzar  PAsia  venia 
Sgominando  due  mari,  ed  amendue 
Gol  grand^urto  scotendo  i  continenti^ 
Finché  d^Argo  di  là  passando  il  sacro 
Pino,  fin  pose,  per  voler  del  fato  , 
Alla  terribil  zuffa,  e  immote  rese 
Le  concorrenti  furibonde  rupi. 

E  con  questo  romor,  che  dalle  mute 
Ombre  notturne  maestà  prendea, 
E  sotto  un  ciel  che  limpidi  e  sereni 
Tutti  al  guardo  scopriva  i  suoi  splendori, 
Camminavano  queti  i  Giapetidi^ 
E  la  terra  premean  dove  preclara 
Degli  Eneti  sonar  dovea  la  fama: 
Gente  di  gloria  e  di  bei  fatti  amica 
Che  al  volgere  degli  anni  e  della  rota 
Di  quella  calva  che  scherzando  tutte 
Cangia  Popre  mortali  e  mai  non  posa, 
In  Ausonia  migrando  avria  nel  lieto 
Ultimo  seno  dell^ Adriaca  Dori 
Dell'antico  valor  deposto  il  seme. 

Calcando  Prometèo  Palmo  terreno, 
Tale  un  cenno  senti  nel  suo  pensiero , 
Tale  un  moto  nel  cor,  tale  un  tumulto, 
Che  dell'aura  profetica  lo  spiro 
Tosto  conobbe,  e  la  divina  voce 
Che  per  entro  la  mente  ragionava. 
Maravigliando  soffermossi,  e  vólto 
Al  convesso  del  ciel  sereno  e  puro  : 
O  stelle ,  ei  disse  ,  o  della  negra  notte 


V. 


*4*  CAWTO  SECONDO  iaS 

Lucide,  care,  intelligenti  figlie 
Che  della  madre  intomo  al  fosco  trono 
Con  vaghi  errori  carolar  godete, 
E  dolce  alci  persuadete  il  sonno 
GoUa  dolce  armonia  che  vi  governa^ 
O  leggiadre  del  Sole  alme  sorelle 
Che  dai  vostri  grand^archi  saettando 
Strali  di  luce,  ed  agitando  al  vento 
Le  tremolanti  accese  capigliere, 
Tutte  piovete  le  vicende  in  terra: 
Deh!  se  iniqua  cometa  unqua  la  gioia 
Di  vostre  danze  a  conturbar  non  vegna, 
Né  mai  rigida  bruma  i  boreali 
Vostri  lavacri  in  aspro  gelo  induri , 
Ma  liete  sempre  e  chiare  ad  incontrarvi 
Il  canuto  Oceàn  Tonde  sollevi^ 
Deh!  la  cagion  ne  dite,  o  venerande 
Dei  voleri  del  fato  annunciatrici, 
Perchè  sì  puri  e  tutti  amor  spiranti 
Sulla  terra,  che  premo,  i  rai  scotete. 
Ond^è  che  con  si  placidi  sorrisi 
Vi  guardate  a  vicenda,  e  di  Saturno 
Par  che  perda  la  stella  il  suo  livore? 
E  tu,  fiero  splendor,  che  volto  prendi 
Di  superbo  Lìou,  perchè  gli  artigli 
Spieghi  per  Tetra  furibondi,  e  ruggi? 
Oh  !  v^  intendo  ,  vMntendo.  O  bellicoso 
Eneto  suol  che  delle  iliache  torri 
Col  valor  de^  tuoi  prodi  incontro  al  fato 
Tarderai  la  caduta  ^  o  forti  eroi , 
Che  di  nobile  polve  aspersi  il  crine, 
Del  veloce  Partenio  in  sulla  riva 
Di  Sèsamo  i  cavalli  esercitate, 
E  d'Egialo  risponde  ai  lor  nitriti 
n  cm*vo  seno  e  TElritina  rupe: 
Sciogliete  dal  calcagno  i  sanguinosi 


2!l6  IL  PROMETEO  •"•  ^' 

Sproni,  agli  ardenti  corrìdor  togliete 
Gli  ardenti  morsi  e  Ineleganti  briglie; 
Dite  alle  care  Citoriache  selve^ 
Dite  Tnltimo  vale,  e  al  mar  volate; 
Che  chiamanvi  le  Parche  ad  altro  lido, 
Ed  altro  seggio  a^  vostri  lari  erranti 
Già  prepara  Nettano.  Oh  d'Adria  sacre 
Fortunate  lagone  !  EIcco  il  promesso 
Popolo  invitto  che  per  molti  e  duri 
Della  terra  e  del  mar  stenti  e  perigli 
Valor  vi  porta,  libertade  e  fama. 
Oh  novella  di  Numi  inclita  casa! 
Oh  dalla  destra  di  Nettun  costrutta 
Ammiranda  città!  senti  la  voce 
Con  che  parmi  che  dentro  la  profonda 
Nebbia  degli  anni  di  te  parli  il  fato. 
Nido  sarai  d' onore  e  di  virtude; 
Abiteranno  in  te  liCarte  e  Sofia, 
Che  per  tranquilli  e  bellieosi  studi 
In  pace  e  in  guerra  ti  faran  temuta. 
Darai  ricetto,  darai  salda  sede 
Alla  fuggente  libertà  latina. 
MsL  dell'  origin  tua,  de'  fermi  ed  alti 
Tuoi  fondamenti  non  andar  superba; 
Ch'altre  pur  vi  saran  famose  mura 
Di  celesti  architetti  opra  divina, 
Che  vedran  Pultim'ora  e  caderanno; 
E  cadrà  Troia,  di  due  Dei  possenti 
Celebrata  fatica,  e  dalla  destra 
De'  tuoi  stessi  grand'avi  invan  difesa. 
Duncpie  &  senno,  e  non  produr  tiranni  , 
Ma  cittadini:  non  lasciar  che  cresca 
A  quell'alato  tuo  Lion  l'artiglio, 
Sì  che  sbrani  te  stessa,  e  col  ruggito 
n  sospiro  ti  vieti  e  la  parola. 
Né  col  fato  cozzar,  quando  vedrai 


«'•  3"4  CANTO    SECONDO  127 

Con  altri  Mìrmidóni  un  altro  Achille 
Scoirer  dltalia  procelloso  i  campi , 
E  peggio  che  di  Xanto  e  Simoenta, 
D^Àdige  e  Mincio  insanguinar  le  riye: 
Ma  d^italico  allor  scelta  corona 
Preparar  di  tna  mano  al  rincitore , 
E  la  destra  baciar,  che  Pali  e  Pugna 
Tolse  alla  belva  che  ti  fea  dolente, 
Sia  questa  la  tua  gloria  e  il  tuo  pensiero. 
Poi  rotte  alfin  le  rie  catene,  ond'hai 
Ancor  livido  il  polso,  ed  irto  il  crine, 
Per  la  memoria  delle  colpe  antiche,. 
Del  tuo  primo  valor  solleva  il  grido , 
E  Finfingardo  Cispadan  rampogna, 
Ch'entrò  di  libertà  nel  sacro  arringo 
Innanzi  a  tutti ,  e  dopo  tutti  arriva , 
Per  devote  folUe  fatto  vigliacco. 
Tu^  Gallico  PeUde,  a  cui  minore 
Del  Tessalo  campion  l'ombra  s'inchina, 
Deh  segui  e  adempi  l'onorata  impresa! 
A'  suoi  rapaci  amanti,  anzi  tiranni^ 
Che  il  cor  le  han  guasto  e  la  natia  beltade. 
Ritogli  Italia  che  novella  Eléna, 
Più  d'assai  che  Fachéa,  merta  vendetta. 
Cosi  vassi  alle  stelle.  Io  di  Giapeto 
Libero  figlio  da  lontan  t'adoro, 
E  verace  profeta,  anziché  siéno, 
I  tuoi  trionfi  giubilando  accenno. 
Abbi  caro  il  tributo,  e  s'unqua  awegna 
Che  a  te  s'adduca  aonio  pellegrino, 
Un  ardito  cantor  di  mie  vicende. 
Del  tuo  favor  Paffida,  e  d'uno  sguardo 
•  Onoralo  cortese  e  d'un  sorriso^ 
Che  ancor  fira  l'armi  gentilezza  è  bella. 
Qui  die  fine  all'arcane  alte  parole 

Dell'aurea  Temi  il  gran  nipote,  e  lieta 


a 28  IL  PROMETEO  "v 

Del  promesso  aTvenir  l'Eneta  terra 
Sotto  i  piedi  esultò.  Pia  mansueti 
Le  stelle  incontro  si  vibrébr  gli  sguardi, 
E  sola  di  liTor  tinta  e  di  sdegno 
Del  celeste  Lìon  parve  la  luce 
Del  suo  scorno  già  conscia,  e  dolorosa 
Di  perder  fama  ed  onoranza  in  terra. 
Del  Partenio  frattanto  avean  varcate 
I  due  germani  le  santissima  onde, 
Ove  stanca  di  caccia  ha  per  usanza 
Lavar  Diana  i  fianchi  polverosi, 
Pria  di  recarsi  alle  celesti  mense , 
E  Tambrosia  libar  cogli  altri  Etemi. 
Indi  spediti  valica  le  valli 
Mariandine ,  e  V  errabondo  flutto 
Del  baccante  Gallicoro,  e  diritto 
Gammin  facendo ,  dopo  corta  via 
Del  Sangario  fiir  sopra  alla  riviera. 
Ivi  il  Sol,  che  del  Caucaso  sull^erta 
Sollevava  la  fronte ,  li  raggiunse , 
E  alle  spalle  sentir  fé  loro  il  fiato 
Degli  aneli  destrieri.  E  quei  del  fiume 
La  correntia  seguendo,  e  la  soave 
Del  mattin  respirando  aura  odorata. 
Quello  strano  trov&r  lungo  la  via 
Mandorlo  di  portenti  operatore  , 
Che  senza  Tuopo  di  virili  amplessi 
La  Sangàride  ninfa  un  di  dovea 
Far  bella  madre  di  figliuol  più  bello. 
Ma  più  mal  cauto  insieme  e  sventurato. 
Ahi  misero  garzone!  Ati  infelice  1 
Di  Venere  era  degno  il  tuo  bel  viso, 
E  di  quante  calpestano  POlimpo 
Vaghe  e  giovani  Dive^  e  tu  già  fatto 
Di  tal  sei  ligio,  che  la  gota  ha  crespa, 
Benché  immortale,  e  già  canuto  il  pelo^ 


V,  35o 


'•^W   •  CAUTO    SB0O5DO  4^9 

Né  le  vai  coronato  aver  di  torri 
L^antico  capo ,  ed  aggiogar  leoni , 
E  di  cento  gran  nomi  andar  superba, 
E  di  cento  città^  ch'anco  fra^  Numi 
Di  senili  carezze  Amor  si  sdegna, 
E  di  lurido  labbro  i  baci  abborre. 
Quindi  Ciprigna  vergognosa  in  braccio 
Va  di  marito  afiumicato  e  zoppo  ^ 
E  dell^ Aurora  Finfeconde  nozze 
Son  di  riso  argomento  a  tutto  il  cielo. 
Ahi  misero  garzone!  Ati  infelice! 
E  di  rugosa  Dea,  cbe  lasso  e  carco 
Di  secoli  strascina  il  fianco  etemo, 
Tu  le  blandizie  soffiai  e  i  morti  amplessi, 
Da  cui  schivo  s^arretra  anco  Saturno? 
E  a  lei  tu  sacri  con  nefando  giuro 
Di  castità,  di  giovinezza  il  fiore 
A  natura  nemico  ed  a  te  stesso? 
Ahi  misero  garzone!  Ati  infelice! 
Già  de^  tuoi  sprezzi  fa  crudel  vendetta 
L^ofiesa  Giterea,  già  vinto  avvampi 
Per  due  vaghe  pupille,  e  sei  spergiuro. 
Ohimè  che  il  fio  ne  paghi  !  ohimè  che  torva 
Ti  raggira  la  Furia ,  e  forsennato 
Per  le  balze  di  Dindimo  ti  mena. 
Ohimè  le  membra  che  peccar,  già  veggo 
D^oscena  piaga  sanguinose  e  sozze, 
E  rugghi  tu  ne  mandi  ed  ululati. 
Finché  deliro,  e  di  perdon  ben  degno 
(Se  vecchia  druda  perdonar  sapesse) 
In  irto  pino  il  molle  corpo  induri; 
E  col  rumor  delle  parlanti  chiome  ' 
I  sospiri  a  fuggir  di  grinza  e  vieta 
Donna  gFincauti  giovanetti  avvisi. 
Ahi  misero  garzone!  Ati  infelice! 
Mentre  io  parlo,  alla  bocca  già  venuto 
Morti.  Poemetti,  i5 


dSo  IL  PROKBTBO  ^' 4^ 

DelFAcherosio  speco  è  Prometèo. 
Tra  dirupi  inaccessi  e  dal  sonoro 
Picchiar  dell^onde  flagellati  e  rosi 
S^apre  Fatra  spelonca,  a  cui  sublime 
Di  cipressi,  di  pioppi  e  di  mesti  olmi 
Grava  il  dosso  eminente  una  foresta^ 
E  pigro  al  basso  un  yapor  denso  emerge 
Che  Foiribile  entrata  ingombra  e  serra, 
Finché  vien  colle  lucide  saette 
À  dardeggiarlo  sul  merigge  il  Sole. 
Né  di  passar  s^attenta  unqua  il  SìIcheìo  , 
Non  che  regnar  sull'agitato  lido; 
Che  sotto  mugge  il  mar,  di  sopra  il  bosco, 
E  d'ogni  lato  il  Tento ,  che  la  nebbia 
Turbinando  e  le  foglie,  con  Torace 
Rapidissimo  Tortice  ruggisce 
Sul  tristo  ingresso  dell'orrenda  grotta 
Che  dritto  mena  alla  magion  di  Pluto. 
E  ben  lo  dice  la  mortai  mefite 
Che  quindi  esala,  e  di  pianti  e  di  lai 
E  di  cupi  latrati  il  suon  lugubre 
Che  l'orecchio  percuote,  e  la  paura 
Commista  alla  pietade  invia  sul  core; 
Perchè  quella  di  Cerbero  crudele 
E  la  terribil  voce,  e  quei  lamenti 
Son  de'  figliuoli  della  Terra  i  gridi, 
Che  nel  fondo  del  Tartaro  sepolti 
Bestemmiano  di  Giove  orribQmente 
La  dura  onnipotenza,  e  si  travolvono 
Mugolando  e  fremendo  nel  gran  baratro, 
E  forsennati  le  catene  addentano 
Che  i  corpi  immani  eternamente  avvincono. 
Ma  più  che  la  caligine  profonda 
Che  con  livido  velo  grave  pesa 
Sulle  torve  lor  cij^a,  più  che  tutte 
Del  fulmine  le  firesche  cicatrici 


^•4^  CANTO  seooudo  i3i 

Ond'han  le  fronti  ancor  stridenti  e  rosse, 

Più  che  i  rabidi  seipi  onde  gli  sferaa 

L^imperadrìce  dell'eterno  pianto 

Tisifone  crudele,  e  con  gran  voce 

AlFopra  degli  straij  e  de*  tormenti 

L'aita  invoca  delle  rie  sorelle, 

Più  che  tutto  li  croccia  e  li  dispera 

La  rimembranza  del  perduto  empirò^ 

E  Parido  pensiero  ai  dolci  rivi 

Sempre  ritoma  dell'ambrosia,  e  sempre 

All'orecchio  rimormora  la  fonte 

Del  nettare  divin,  che  giù  dal  balzo 

Fresco  discende  del  nevoso  Olimpo  , 

E  de'  beati  le  convalli  irriga. 

Né  mai  penetra  di  conforto,  mai 

Altra  stilla  nel  cor  dei  dolorosi, 

Che  la  memoria  delle  prische  imprese, 

E  l' immortai  sublime  sentimento 

Dell'antico  valor,  quando  del  cielo 

Pugnar  sui  campi  con  egual  coraggio, 

Ma  con  arme  inegual.  Titani  e  Numi 

Per  la  conquista  del  maggior  de'  troni. 

Seminata  di  filmini  stridea 

Tutta  in  fuoco  la  terra,  il  mar  bolliva 

Con  orrendo  gorgoglio,  e  sotto  il  pondo 

De'  combattenti  e  all'impeto  de'  piedi 

Vacillando  gemea  l'oppresso  Olimpo. 

E  in  cielo  e  in  terra,  e  tra  la  terra  e  il  cielo 

Tutto  era  tuoni  e  folgori  e  rimbombo 

E  spavento  e  rovina  e  foco  e  fumo^ 

E  smarrita  la  via  per  lo  terrore 

Avean  le  stelle,  né  restaro  immoti 

Che  d'Atropo  e  del  Fato  i  ferrei  troni. 

AUor  di  fiamme  e  di  rabbiosi  venti 

Pregna  la  terra,  con  immensa  doglia 

Sentì  dentro  snodarsi  le  grand'ossa 


2Ì2  IL   PROMETEO  <"' 494 

E  scindersi  le  viscere;  e  con  vasto 
Scoppio  squarciato  in  quattro  parti  il  seno, 
Die  per  quattro  gran  porte  tenebrose 
Al  furibondo  Tartaro  Tuscita, 
Ond^egli  all^aura  le  sue  vampe  erutta: 
Ed  una  la  vallea  di  Menfi  ammorba, 
L^altra  i  lidi  Gumani  (ed  oh!  sol  uno 
Fosse  questo  il  fetore,  Italia  mia, 
Onde  attempi,  in  che  vivo,  acerbi  e  tristi 
Si  corrompe  e  s^attosca  il  tuo  bel  cielo!). 
Aprì  la  terza  le  sue  fauci  in  mezzo 
Alle  Tesprozie  rupi,  e  Faura  infece 
Di  Bitinia  la  quarta;  alle  quai  tutte 
L^infamia  poscia  e  Fabborrito  nome 
D^ Acheronte  rimase.  E  queste  sono 
Deirinfemo  le  gole,  e  primi  fiiro 
A  piombarvi  trafitti  e  capovolti 
Grinfelici  Titani,  e  a  intronar  primi 
Di  gemiti  e  stridori  il  morto  regno* 
Ad  ascoltarne  il  doloroso  grido 
Della  mesta  vorago  in  su  la  soglia 
Stavasi  fermo  di  Giapeto  il  figlio; 
E  fira  i  diversi  orribili  lamenti , 
Che  per  Tantro  scoppiando  un  indistinto 
Facean  tumulto  e  un  mormorio  crudele, 
Udir  del  padre  gli  parca  la  voce 
Che  su  Palma  gli  suona.  Immantinente 
Gli  corse  il  pianto  su  le  ciglia;  e  come 
Pietà  di  figlio  Pesortava,  e  il  core 
Persuadendo  gli  venia  nel  petto. 
Di  cercar  colà  dentro  si  dispose 
Le  paterne  sembianze,  e  satisfarsi 
D^un  solo  sguardo,  d^un  accento  solo 
Dopo  tanto  desio.  Da  questi  sproni 
Punto  adunque  il  magnanimo,  e  vincendo 
Carità  di  natura  ogni  riguardo. 


•'•  ^^  CAHTO   SECONDO  a33 

Si  mise  dentro  alla  tartarea  buca. 

Oh  del  Giel,  della  Terra  e  degli  Dei 
Antenato  tremendo  e  genitore 
Elrebo  negro!  Oh  tu  dell^ombre  eteme 
Possente  regnator  Saturnio  figlio, 
Al  cui  severo  tribunal  tremanti 
Si  presentan  le  colpe,  .e  coa  allegra 
Fronte  secura  la  virtù  mendica: 
Deh  !  nel  mondo  sepolto  a  questo  pio 
Dato  sia  penetrar,  che  anch'esso  è  Nume, 
Benché  infelice,  e  del  tuo  sangue,  o  Pluto^ 
Né  stolta  brama  di  rapir  lo  guida 
A  te  lo  scettro,  ed  alle  Parche  il  fìiso, 
Ma  pietà  che  al  suo  cor  dolce  ragiona 
E  desiderio  del  paterno  aspetto. 

Per  intricate  vie  caliginose 

Tacito  e  cauto  Prometèo  cammina , 
E  soletto,  soletto^  che  portando 
Sul  cor  Fusbergo  del  sentirsi  puro  , 
Altra  seco  non  vuole  in  quel  periglio 
Che  del  suo  solo  ardir  la  compagnia. 
Più  s'inoltra,  più  libero  e  spedito 
Si  dUata  il  sentiero,  e  più  vien  meno 
n  suon  pur  anco  de'  lamenti  uditi. 
Ben  sente  quasi  ad  ogni  muover  d'anca 
Un  acuto  fischiar  d'aria  divisa. 
Un  gemere  di  spirti,  ed  un  bisbiglio 
Che  mai  non  tace,  e  non  é  mai  lo  stesso: 
E  son  l'ombre  de'  morti  che  novelle 
Passan  dai  regni  della  luce  a  Dite, 
O  che  senza  destino  e  senza  pena 
Per  quei  mesti  silenzi  erran  confusi^ 
Perocché  di  ragion  l'anime  prive, 
Prive  allor  d'ogni  colpa  ivan  sotterra, 
Né  dell'urna  era  d'uopo  e  della  verga 
De'  due  giusti  frate!  che  Creta  un  giorno 


a  34  'I*  PBOMBTBO  •'•  ^^ 

Avria  -mandati  a  giudicar  gli  estinti*^ 
Né  d^Avemo  il  noTello  imperadore 
In  quella  prima  novità  di  regno 
Ben  disposte  peranco  e  divisate 
Dell^orrende  sue  case  avea  le'  sedi, 
E  i  futuri  dellWm  premi  e  castighi. 
Scarclie  quindi  che  son.  di  polpe  e  d^ossa, 
Per  Pabisso  volando  a  lor  talento, 
Van  quell'anime  nude,  ove  men  trista 
L^aria  sospira  e  men  la  hice  è  muta. 
E  montagne  vi  sono  e  valli  e  boschi 
Di  cupo  orezzo,  e  susurranti  rivi, 
Ove  dell'ombre  i  vaili  simulacri, 
Che  sembrano  persona  e  salda  cosa, 
Andar  vedi  e  venire  e  vagolare 
Quai  lascive  farfalle  a  primavera. 
Che  le  d'oro  spruzzate  ali-  battendo 
Deliban  tutti  i  giovanetti  fiori, 
E  paiate  con  gentil  lubrico  volo 
Fan  tripudii  per  Paria  e  dilettose 
Zuffe  e  carole^  parte  si  dispergono 
Per  le  floride  fratte ,  e  de'  fanciulli 
Deludono  con  fughe  repentine 
L'avida  mano  e  la  proterva  speme: 
E  tali  di  quell'ombre  a  riguardarle 
Son  le  guise,  le  cure  e  le  follie. 
Altre  con  vano  pueril  trastullo 
Di  falsi  fuochi  per  lo  suol  guizzanti 
Inseguono  la  vampa  fuggitiva 
Che  brillando  le  invita  e  le  schernisce^ 
Alti'e  nel  gorgo  tuffansi  d'un  rio, 
E  vi  fan  bolle  gorgogliando  e  spuma, 
E  godonsi  tra'  sassi  andar  coU'onda 
Travolte  e  rotte,  e  mormorar  con  quella^ 
Altre  han  altro  diletto^  e  qual  cogliendo 
Va  per  la  riva  delle  Parche  il  fiore. 


^'^^  CAUTO  SBCOSDO  a35 

L^sJmo  narciso^  e  ne  fa  serto  al  crine^ 
Qnal  si  piace  a  volar  di  ramo  in  ramo 
Gorgbeggiando  sue  dolci  cantilene, 
Che  Paure  ed  i  ruscei  de^  luoghi  inferni 
Con  ignoto  piacer  stanno  ad  udire^ 
E  chi  corre,  e  chi  giace,  e  chi  staggirà 
Solingo  e  muto  per  solinghe  rie; 
E  chi  tien  questo  insomma,  e  chi  quel  modo 
Di  spender  Torà  in  quei  lugubri  esigli, 
Ove  pianto  non  è,  ma  di  sospiri 
Senz'angoscia  e  dolor  Paria  sol  trema, 
E  TÓta  di  dolcezza  entra  la  gioia. 

Con  sollecito  piò  per  questi  abissi 
Di  Sol,  di  gaudio  e  di  tormento  privi 
n  coraggioso  Prometèo  cammina; 
Né  fermasi  a  badar  su  quegli  spirti 
Senza  merto  vissuti  e  senza  colpa; 
Ch'altra  cura  lo  punge,  altro  desio. 

Già  de'  fiumi  d'Àvemo  ode  vicino 

L'alto  rimbombo,  già  sul  margo  è  giunto 
Del  funesto  Acheronte.  E  qui  di  nuovo 
Più  forti  e  chiare  e  di  spavento  piene 
Dei  Titani  tonar  sentaa  le  grida 
Che,  confiise  e  commiste  al  fragor  cupo 
De'  torrenti  infernali  ed  al  tri&uce 
Latrar  che  i  regni  della  morte  introna, 
Sospesero  i  suoi  passi,  e  palpitogli 
Di  novella  pietà  l'alma  compresa. 
Qual  fervido  poledro,  a  cui  non  abbia 
Dome  ancora  le  groppe  il  cavaliero, 
Se  di  trombe  ode  il  suono  o  di  tamburo , 
Gonfia  le  nari,  e  irrequiete  e, ritte 
Vibra  incontro  al  rumor  le  acute  orecchie 
Con  erto  collo  e  fiammeggianti  sguardi; 
Tal  si  fece  a  quegli  urli,  a  quel  profondo 
Disperato  compianto  il  pio  Titano  : 


a  36  IL  PROMETEO  •••  ^^^ 

E  più  vivo  nel  petto  risorgendo 
Il  sublime  desio  che  lo  conduce , 
Di  Caronte  va  lungo  la  riviera , 
Vestigando  la  barca  afiumicata. 
Né  Megera  gli  mette  al  cor  paura, 
Né  Paltre  di  Pluton  tremende  e  nere 
Sacerdotesse  ch6  di  là  dal  fiume 
Gli  fan  su  gli  occhi  con  minacce  crude 
Risonar  le  ceraste  e  le  catene. 

^  E  già  venuto  il  prode  era  là  dove 
Le  quattro  delUinfemo  orrende  vie 
Fean  centro  in  una^  e  in  infinito  spazio 
Dilatato  PÀvemo,  im^infinita 
Volta  di  bronzo  il  serra  e  Io  coperchia , 
Sopra  la  qual  sdegnosi  e  procellosi 
Fan  peso  ed  urto  delPEusino  i  flutti, 
E  rionio  e  PEgéo  col  mar  che  doppio 
D^Italia  bagna  e  di  Sicilia  i  lidi, 
E  Tonda  che  da  Libia  e  da  Cirene 
Va  fino  a  Calpe  a  flagellar  le  rive. 
E  ben  quando  la  porta  Eolo  disserra 
Alle  tempeste  ed  ai  lottanti  venti, 
Che  furendo  s^aggrappano  e  con  ira 
Volan  dell^onde  a  rabbuffar  la  faccia, 
Ben  si  sente  laggiù  degli  sconvolti 

•  Mari  il  muggito,  che  muggir  fa  tutte 
Dell' EIrebo  le  valli  e  le  caverne, 
E  lo  scettro  tremar  nel  pugno  a  Pluto^ 
Perocché  teme  allor  Torrido  Dio 
Che  dal  fiero  dell'onde  agitamento 
Del  sotterraneo  mondo  affiiticati 
Si  fendano  i  convessi,  e  la  firatema 
Onda  giù  piombi  a  divorar  Fabisso. 
Né  va  senza  ragion  la  sua  paura; 
Che  rimbombar  vicine  ode  sul  capo 
Del  superno  tridente  le  percosse. 


^•M  CÀUTO  BKGOinx)  ^37 

E  del  cielo  infemal  crollarsi  intomo 

I  firmamenti  yede,  e  i  suoi  grand' archi 

Screpolati  e  scommessi,  onde  con  vasta 

Ruina  il  mar  nell'Erebo  dilaga 

Per  molte  bocche,  e  con  si  gran  caduta, 

Che  sono  al  paragon  zampilli  e  spruzzi 

Dell^Àniene  e  del  Velino  i  flutti. 
Da  queste  cieche  cateratte  origine 

Han  le  cinque  d'Avemo  atre  fiumane , 

Flegetonte ,  Acheronte ,  e  Faltre  due 

Del  Pianto  e  dell'Obbho,  colla  tremenda 

Inesorata  Stige ,  che  divise 

Bagnano  tutte  una  diversa  arena, 

Donde  diversa  traggono  per  via 

La  qualitade,  il  nome  e  la  possanza. 
Arrestossi  dinanzi  alla  rovina 

De'  lividi  torrenti  il  Giapetfde, 

In  suo  cammin  smarrito  e  in  suo  consiglio  ^ 

Che  salma  viva  non  ancor  calcata. 

Né  segnata  d'Avemo  avea  la  strada, 

Nò  il  Fato  consentia  ch'oltre  quel  punto 

Ei  procedesse  nel  viaggio  impreso. 

Mentre  dubbioso  del  sentiero  errava 

Per  le' squallide  rive,  e  l'ascendente 

Vapor  dell'onde  contendea  la  vista , 

Ecco  lungo  la  via  che  spaziosa 

Dall'Egìzio  Acherusio  declinando. 

Sotto  il  Libico  mar  conduce  a  Dite, 

Ecco  ratto  venirne  alla  sua  volta 

Un  luminoso  volator,  che  0  capo 

E  i  talloni  d'aurate  ali  guemito 

La  pigra  e  queta  oscurità  d'Avemo 

Con  sollecite  penne  affaticava. 

E  un'ombra  lo  segufa,  che  in  negro  velo 

Serrata  e  chiusa  con  dolor  superbo 

Fin  sopra  il  mento  nascondea  la  faccia. 


s38  a.  PKOMBTBO  "•  7IO 

n  Cìlleiuo  Mercurio  era  quel  primo , 

CShe  Talme  esangui  al  Tartaro  sospinge, 

E  al  Tartaro  le  invola  a  suo  talento. 

Della  Titania  gente  era  il  secondo 

Un  fìilminato,  a  coi  di  sotto  al  manto 

La  recente  ferita  ancor  fomaTa, 

E  faville  mettea  per  lo  sentiero. 

Come  dinanzi  al  suo  congiunto  venne, 

Stupita  si  fiermò  Fombra  velata, 

Lo  guardo,  lo  conobbe ,  e  il  manto  aprendo: 

Oh  fratello,  esclamò,  dolce  fratello. 

Oh  sei  tu  che  qui  veggo  e  alfin  ritrovo 

Dopo  tanti  sospiri?  -  E  si  dicendo, 

Con  gaudio  die  in  Avemo  è  sconosciuto, 

Gli  corse  al  collo,  e  lo  si  strìnse  al  petto. 

Nò  Pabbracciato  a  ravvisar  fu  tardo  - 

L^infelice  Menerio,  il  tanto  in  terra 

Desiato  e  ricerco  suo  germano. 

Dal  di  che  in  ciel  precipitosa  avvenne 

Dei  percossi  Titani  la  caduta , 

Lo  spavento  divise  e  lo  scompiglio 

I  fratelli  abbattuti  j  e  due  coll^ahna 

Genitrice  Qimene  agli  erti  gioghi 

Si  ricovrir  de'  Maiiritani  adusti, 

Menezio  valoroso  e  Atlante  sa^o; 

E  gli  altri  due  minor,  Paccorto  e  il  folle, 

DeU'inospito  Caucaso  alle  rupi. 

Iterando  gli  amplessi,  e  confondendo 

Gol  pianto  le  parole:  E  qual,  dicea 

L'intenerito  Prometèo,  qual  diro 

Destin  ti  porta  alTinfemal  castigo? 

E  che  piaghe  son  queste?  e  chi  commise 

Sulle  tue  membra  si  crudel  vendetta?  «-^ 

n  lembo  della  veste  insanguinata 

Appressò  quel  dolente  alle  pupille , 

E  tergendo  le  lagrime,  rispose: 


•'•74^  CASTO 'Sbcoudo  aSg   ^ 

Percbè  del  padre  sulla  ria  sTenlara 
Versai  qualche  di  pianto  occulta  stilla, 
E  contro  Giove  al  labbro  mio  permisi 
Alcun  lamento,  e  lo  cliiamai  tiranno, 
Per  questo  sol,  col  fiilmine  poc^anzi 
Il  dispietato  mi  percosse  il  petto.  — * 
Disse,  e  di  rabbia  e  di  dolor-  firemente 
La  ferita  guardò,  che ,  rispondendo 
Allo  sdegno  del  cor ,  fé  sangue  e  fumo. 
Chinò  le  ciglia  pensierose  allora 
L^ascoltante  fratello^  e  poiché  muto 
Si  stette  alquanto,  a  dimandar  seguia: 
Dinne,  misero,  dinne,  se  pur  conto 
T^è  il  suo  destin,  dov'è  la  madre?  dove 
Atlante  nostro  7  perocché  novella 
Mai  di  lor  non  pervenne  a  queste  orecchie , 
Da  quel  momento  che  lo  strai  di  Giove 
Il  genitor  ne  tolse,  e  noi  raminghi 
Per  lo  mondo  disperse  e  ne  disgiunse.  *— 
E  Taltro  a  questo  replicò:  La  madre. 
Misera  madre  e  sconsolata  vedova, 
Mal  sostenendo  degli  affanni  il  carco. 
Fra  gli  scevri  di  colpa  e  di  pensieri 
Miti  Etiopi  si  ritrasse ,  e  quivi 
Di  lai  contrista  la  patema  casa^ 
Né  le  dive  sorelle  Ocèanine 
Quetar  ponno  i  suoi  pianti,  e  tutte  indamo 
Son  le  tenere  cure  e  le  parole 
Del  venerando  genitor  canuto  ^ 
Che  qualunque  ne^  mali  é  più  soave 
All'anime  conforto,  ella  il  rifugge^ 
E  sol  de'  figli  e  del  consorte  a  lei 
Dolce  è  il  ricordo,  e  di  ciò  sol  si  pasce. 
Ma  di  Prometeo  suo  ripete  il  nome 
Principalmente,  e  a  tutte  Fonde,  a  tutti 
Del  mar  lo  chiede  e  della  terra  i  Numi. 


^    240  IL  PIOMBTBO  •'•7*» 

Né  d^ Atlante  men  empia  è  la  fortuna^ 

Che  pur  sovr'esso  esercitò  crudele 

n  supremo  Tonante  il  suo  dispetto. 

E  qual  fu  colpa  nel  £ratel  punita? 

Uaver  del  cielo  ne'  tremendi  campi 

Per  la  causa  più  giusta  combattuto, 

L'aver  dimostre  in  perigliosi  tempi 

Magnanime  yirtudi^  altro  non.puote 

Maggior  delitto  un  oppressor  punire. 

Perciò  del  cielo  la  gran  vòlta  impose 

Sulle  valide  spalle  all'  infelice  ^ 

Ed  ei  sotto  il  gran  pondo  or  geme  e  suda 

Miseramente,  ed  un  funesto  inoltre 

Vaticinio  lo  turba,  che  fatali 

Ancor  di  Giove  gli  saranno  i  figli. 

Ma  te  qual  caso,  o  sospirato  e  pianto 

Caro  fratello,  con  intatta  salma 

Per  questi  luoghi  di  dolor  conduce?  — ' 

La  patema  pietà,  l'altro  rispose.  — 

E  qui  tutto  volea  di  sue  vicende 

n  tenor  riferire  e  la  cagione  ^ 

Ma  l'alipede  Dio  contro  il  suo  petto 

Della  verga  abbassò  gli  angui  temuti, 

E  quel  pietoso  ragionar  sospese: 

Elsci,  ardito  Titano,  esci,  dicendo. 

Di  questo  luogo:  temeraria  e  senza 

Voler  del  Fato  fu  la  tua  venuta, 

E  il  Tartaro  già  chiama  impaziente 

Ne' suoi  gorghi  quest'ombra  alla  sua  pena. 

Allor  misero  un  grido  i  due  germani 

Di  dolor,  di  pietade^  e  ad  ambedue 

Tutte  a  un  tempo  s'apersero  le  braccia, 

E  volandosi  incontro  desiosi, 

L'un  sul  collo  dell'altro  abbandonossi. 

Si  confusero  i  volti,  e  con  parole 

Da  singulti  e  da  lagrime  impedite 


*''*^  CANTO   SBCOZfDO  %^l 

A  vicenda  sbadiva:  —  Addio,  Menezio.  — 

Addio,  Prometeo  mio.  —  Non  rivedremci 

Forse  più  mai.  —  Mai  più,  fratello.  —  Oh  dura 

Divisìon  cbe  Panima  mi  spezza  !  — 

Oh  pensier  che  Tinfemo  mi  raddoppia!  — 

Laggiù  Pamato  genitor  saluta.  — 

Lassù  consola  la  dolente  madre.  — 

Digli  che  per  desio  del  suo  cospetto 

Fin  rAvemo  tentai.  —  Dille  che  scesi 

Di  ciò  sol  fra  gli  spenti  addolorato, 

Del  saperla  infelice.  —  Un  altro  amplesso.  — 

Un  altro  bacio.  —  E  non  avrian  qui  dato 

AU^abbracciar  mai  fiuie,  al  lagrimare, 

Se  Mercurio  quell^ombra  non  battea 

Col  sonnifero  scettro.  Allor  la  misera 

Come  guizzo  di  folgora  si  sciolse 

Dalle  braccia  fraterne,  e  mormorando 

Dileguossi  per  Fiuìa  tenebrosa 

Via  compaia  di  vento  o  di  baleno. 

Misero  Prometèo!  che  cor,  che  mente 

Fu  allor  la  tua,  che  andar  vedesti  in  nebbia 
Quelle  care  sembianze,  e  con  lor  tutta 
Sparir  la  gioia  di  sì  dolce  vista? 
Stupido,  immoto,  e  con  aperta  bocca, 
E  con  le  braccia  spalancate  ancora 
Si  rimase  gran  pezza  ^  e  simulacro 
Detto  lo  avresti  agli  atti,  alla  figura. 
Se  viva  cosa  noi  mostrava  il  pianto 
Che  tacito  scorrea  dalla  pupilla. 

Come  la  mente  si  riscosse,  e  desti 
Tomaro  i  sensi  al  consueto  ufficio, 
A  ricalcar  si  die  Torme  battute 
Col  viso  a  terra.  Ma  contrario  al  piede 
Il  pietoso  pensier  facea  cammino^ 
E  fuor  delle  dannate  ombre  lo  sguardo 
Il  Sol  già  rivedea,  che  Palma  ancora 
Laggiù  nelPOrco  immaginando  errava. 


DEL 

PROMETEO 


CANTO  TERZO 


Qoal  Teggiamo  talvolta,  o  veramente 
Awisiam  di  veder  per  le  nottame 
Ombre  gli  spettri  abbandonar  le  tombe, 
E  vagar  per  le  case  e  per  le  vie 
Quando  pallida  in  ciel  move  la  luna 
E  susurran  le  magbe  i  carmi  orrendi^ 
Tal  di  stigia  caligine  cosperso, 
Smorto  le  guance  ed  irto  i  crini,  uscia 
n  buon  Titano  dall^  infema  buca^ 
E  frattanto  del  mar  lungo  la  riva 
Con  fanciullesco  studio  Epimetéo 
Or  cogliendo  venia  concbS  e  lapilli, 
De^  qua!  ripiene  aver  godea  le  mani 
E  colmo  il  grembo^  or  neghittoso  i  flutti 
Iva  contando,  cbe  canuti  e  rocbi 
Faticavano  il  Ijdo^  e,  in  quella  vana 
Cura  sepolto,  del  fratello  avea 
Posta  in  obbbo  Pimpresa  ed  il  periglio. 

Come  sopra  gli  venne  alla  sprovvista 
n  rabbuffato  Prometèo,  die,  cólta 
Da  subita  paura,  un  alto  grido 
Quell^anima  di  .senno  diminuta, 
E  tutte  a  un  tempo  le  fuggir  dal  pugno 
Le  raccolte  crepunde,  che  cadendo 
Fér  strepito  sul  piede  e  balzo  al  suolo. 
Rise  a  quell'atto  Prometeo  dW  riso 


^  IL  PROXBTBO,  GAHTO  TBHZO  24^ 

Che  a  fior  di  labbro  apparve,  e  11  morfo 
Dall^  affanno  del  cor  represso  e  spento. 
Da  tutto  quin:di  il  manto  e  dai  capelli 
La  fuliggine  scosse,  che,  simile 
A  tenue  fumo,  leggermente  all'aura 
Volvendosi,  levossi  e  si  diffuse. 
Poi  mani  e  volto  ad  un  vicin  ruscello 
Diligente  lavando,  alle  primiere 
Sembianze  ritornar  fé  la  persona^ 
E  livida  e  macchiata  in  lunga  riga 
Corse  quellWda  mormorando  al  mare. 
Quindi  tacito  e  mesto,  e  tutto  quanto 
Pieno  il  pensier  delle  vedute  cose. 
Sospirando  riprese  il  suo  cammino; 
E  Finsano  fratello,  a  cui  ben  queti 
Non  ancor  permettea  la  tema  i  polsi, 
Palpitando  il  seguia,  che  per  rispetto 
Del  firatemo  dolor,  non  che  parlare. 
Non  ardia  quasi  calpestar  Farena. 
Chi  ha  notato  Fandar  di  due  devoti 
Pellegrini  per  via,  quando  a  lontano 
Riverito  delubro  han  vólto  il  passo. 
Ch'umili  il  guardo,  le  man  giunte  al  petto, 
E  pentiti  e  confessi,  a  pie  dell'are 
Van  di  lor  colpe  a  dimandar  perdono. 
Né  Fun  tujrìba  dell'altro  il  pio  pensiero; 
S'appresenti  cosi  di  questi  due 
Il  tacer,  la  sembianza,  il  portamento. 
E  a  questo  modo  procedendo,  e  fatti 
Muto  Fun  per  dolor,  l'altro  per  tema. 
Della  bruna  Propontide  spediti 
Attinsero  la  riva.  Allor  dappresso 
n  muggito  gli  scosse  ed  il  conflitto 
Delle  ferenti  Cianée,  che  quinci 
Venfano  e  quindi  con  superbe  fronti 
Al  fatai  cozzo  orrendo.  A  tergo  poscia 


a44  ^  PROMETEO  ^-  ^ 

Lasciar  Tarena,  a  coi  dar  Fossa  e  il  nome 
n  malaccorto  Cizico  dovea^ 
Lascia  d^Asepo  il'  povero  ruscello, 
E  Percola  ed  Arisbe,  e  quello  stretto 
A  cui  die  grido  fra  le  genti  etemo 
Di  Serse  il  ponte  e  di  Leandro  il  fitto. 
Qui  spalanca  Fflgéo  le  sue  gran  gole, 
E  inghiotte  e  vome  del  Proponto  il  flutto; 
Qui  s'affiiccia  la  terra  ove  sdegnosa 
Con  mille  prode  tutta  Grecia  venne 
Del  trojano  adulterio  alla  vendetta, 
Donde  infinito  ai  generosi  ingegni 
Di  poesia  s^aperse  immenso  fiume 
Quando  il  gran  padre  delle  Muse  Argive 
L'ira  cantava  del  Pelide  Achille. 
Di  qua  getta  nel  mar  Fombra  il  Sigéo, 
Di  là  solleva  il  Gàrgaro  la  cima 
Della  gran  madre  degli  Dei  primiero 
Gradito  all^ergo,  e  più  gradito  a  Giove, 
Che  quivi  le  procelle  e  i  lampi  e  i  tuoni 
E  le  folgori  addusse  e  Faureo  carro 
Quando  giunse  stagion  nel  suo  consiglio 
Di  far  Teucri  ed  Achèi  dolenti  e  tristi, 
E  maturo  fìi  d'Ilio  il  gran  destino. 
Come  passar  dinanzi  i  Giapetidi 
Alla  sacra  di  pini  ombrosa  selva, 
Udir  per  entro  a  quella  alto  di  timpani 
E  di  bossi  e  di  cembali  uno  strepito, 
E  tal  di  danze  e  canti  e  di  grand'ululi 
Una  fervida  fiiria,  ed  un  percotere 
Di  lance  e  scudi,  che  ne  trema  il*monte , 
E  ne  rimbomba  lungamente  il  lido  5 
Che  beata  nel  mezzo  a  quel  trambusto 
Siede  in  trono  Cibele,  e  in  cor  ne  gode, 
E  mansueti  sulla  riva  intanto 
Vanno  errando  del  Xanto  i  suoi  leoni 


**•  ^  CAUTO  TERZO  a 45 

Di  nettare  pasciuti ,  e  le  forbite 
Giubbe  d^ambrosia  rugiadosi  e  molli. 
D^orror  compreso  e  di  pietà  calcava 
Questa  d^  acerbi  fati  e  di  sventure 
Gravida  terra  il  viator  Titano, 
Che  correr  sangue  in  suo  pensier  vedea 
Simoenta  e  Scamàndro,  e  lagrimava. 
E  la  balza  salendo,  ove  con  Febo 
Di  Pergamo  la  rócca  avria  Nettuno 
Per  avara  mercè  sospinta  al  cielo, 
E  patteggiata  la  fatica  indamo 
Delle  destre  immortali:  Oh  Ilio,  ei  disse, 
Oh  futura  di  Numi  e  di  guerrieri 
Casa  infelice  !  oh  rendi ,  alfin  deh  !  rendi 
Questa  druda  fatai.  Ve^  che  le  fiamme 
Già  ti  porta  nel  sen,  ve^  che  in  tuo  danno 
Congiurata  de^  Numi  è  la  reina. 
Che  le  tue  spose  per  le  chiome  afferra, 
E  crudel  le  riversa  nella  polve. 
Ve^  Pallade  Minerva,  aspra  donzella, 
Che  percote  coll^asta  le  tue  mura, 
E  dissolve  le  torri.  A  Menelao 
Rendi,  misera,  rendi  Fimpudica^ 
Spezza  r  imbelle  cetra  al  profumato 
Suo  rapitor,  scompiglia  a  quel  codardo 
Gli  adulteri  capelli,  e  al  greco  ferro 
Del  suo  sangue  assetato  Pabbandona. 
In  lui  le  spade,  in  lui  gli  sdegni,  o  Greci, 
In  lui  che  solo  è  reo.  Nulla  commise 
Ettore,  nuUa,  che  aver  troppo  amata 
La  patria  terra  e  della  patria  i  Numi.  ^ 
Ahi  chMo  parlo  alle  rupi,  e  inesaudita 
Porta  il  vento  che  passa,  la  mia  voce!  — 
Disse:  e  quale  è  colui  che  sulla  sabbia 
Calcò  Torrida  biscia,  alla  cui  vista 
Spicca  il  salto  fuggendo,  e  della  cruda 
Morti.  Poemetti.  i^ 


a46  IL  PmOHETEO  "•  *H 

Aver  già  pargli  nel  calcagno  i  denti^ 

Tal  moss^egli  le  piante,  e  queUa  terra 

ÀUe  furie  devota  abbandonava. 

Sulla  rupe  di  Tenedo  sedato 

Stavasi  intanto  ad  ascoltar  Nereo 

Quei  tremendi  destini ,  e  in  suo  pensiero 

Facea  conserva  delle  cose  udite. 

Poi,  come  venne  il  di  che  fuggitivo 

Trasse  per  Tonde  suU^antenne  Idee 

Il  perfido  pastor  la  Greca  infida, 

Frenò  Tali  de^  venti,  e,  queti  i  flutti, 

Sciolse  a  volo  novello  i  lagrimosi 

Fati  dal  labbro  del  Titano  usciti, 

Finché  a  stagion  più  tarda  in  su  la  lira 

Del  numeroso  Yenosin  posarsi. 

Dolce  diletto  di  latine  orecchie. 

DelPEllesponto  intanto  in  su  la  riva 

Rabbuifato  e  pensoso  il  Giapetide 

Stampava  di  profonde  orme  Tarena, 

Che  garrula  e  minuta  si  sentia 

Strider  sotto  i  gran  passi,  e  a  tergo  il  vento 

Ne  fea  turbine  e  rote  e  suo  trastullo. 

Nudo  allora  e  diserto  era  quel  lido 

E  inonorato^  ma  di  forti  eroi, 

Che  di  sangue  bagnar  Tlliaca  terra. 

Gli  dier  le  tombe  sempiterna  fama, 

Quando  di  Grecia  il  fior,  quando  de^  Numi 

GPincUti  figli  in  riva  al  mar  coperse 

Polvere  poca  ed  una  rozza  pietra. 

Quindi  grido  suonò,  che  maestose 

Or  sul  dorso  de'  turbini  e  dell'  onde. 

Or  sulle  penne  di  notturne  aurette. 

Lunghesso  il  mar  vagando  e  trasvolando 

Van  quell'ombre  divine,  e  dei  passati 

Illustri  affanni  ragionando  insieme^ 

L'ombre,  io  dico,  d'Àjace  e  di  Pelide, 


•'•  »70  CANTO  TERZO  I^J 

E  delPamico  di  Pelide,  e  quella 

Di  Palamede,  che  deirempia  frode 

D^Ulisse  ancora  si  lamenta  e  freme. 

Ma  romito  in  disparte  e  sospirando 

Va  d^Ettore  lo  spettro  insanguinato. 

Che  il  cener  freddo  delle  patrie  mura 

Colle  mani  pur  tenta,  e  de^  suoi  baci 

E  del  suo  pianto  lo  riscalda  ancora. 

Oh  pietà  non  più  vista!  oh  prisca  fede! 

Oh  generoso  della  patria  amore 

Che  segue  le  grand^alme  anco  sotterra! 
Già  di  Cilla,  d^Àntandro  e  d^Adramitle 

Alle  spalle  restata  era  la  costa, 

E  del  Caico  il  pie  premea  le  sponde, 

Dell^ameno  Caico,  che  del  primo 

Fonte  pentijto  mormorando  or  volve 

Fra  nuove  ripe  più  contento  i  flutti. 

Quindi  il  torbido  d'auro  Ermo  trapassa, 

E  del  Mimante  in  lontananza  vede 

Le  nebulose  spalle,  a  cui  fioccando 

Fa  velo  delle  bianche  ali  la  neve, 

E  curvargli  sul  capo  il  suo  belParco 

Gode  beata  la  Taumanzia  figlia , 

Ch'ivi  pose  il  suo  trono,  e  serenate 

Gli  fan  sgabello  le  tempeste  al  piede. 
Del  canoro  Caistro  alla  riviera 

Giungea  la  prole  di  Giapeto  intanto. 

E  qui  de'  cigni  traversando  i  prati, 

Che  la  dolce  del  fiume  onda  rallegra. 

Tosto  una  ninfa  occorsele  alla  vista, 

Che  al  portamento,  agli  atti,  alla  sembianza 

Palesava  ima  Dea.  Qual  vi  conduce, 

Diss'ella,  o  cari  pellegrin,  ventura? 

Di  che  luogo?  chi  siete?,  e  qual  poss'io 

Far  cosa  che  vi  piaccia?  Arbitra  sono 

Di  queste  rive,  dell'ospizio  i  santi 


;48  IL  JPROMTETEO  •*•  *^ 

Dritti,  conosco,  e  la  rirtude  onoro.  — 
Disse.  E  a  rincontro  Prometèo  rispose: 
Oh  qualuùque  ta  sia  degP  Immortali 
Che  sì  benigna  movi  le  parole, 
Del  misero  Giapeto  al  tuo  cospetto 
Tu  vedi  i  figli.  Per  voler  del  Fato 
Dal  Caucaso  scendemmo,  e  ci  sospinge 
Oltre  il  mar  che  n^è  contra,  alto  pensiero. 
Deh!  se  risponde  al  favellar  cortese 
In  celesti  sembianti  alma  gentile , 
Danne  aita  a  varcar  Tonda  sdegnosa^ 
Che  noi  siamo,  noi  pur,  stirpe  divina, 
Ma  sventurata,  e  dal  sommo  caduta 
DelPantico  splendor.  Sola  ne  resta 
Del  cor  Faltezza,  incontro  a  cui  di  Giove 
Vane  son  Parme,  ed  impotenti  i  tuoni. 
Dinne  intanto  il  tuo  nome,  onde  onorarie 
Qual  conviensi  possiamo,  e  del  cor  grato 
Manifestarti  umilemente  i  sensi.  — 
Disse.  E  Paltra  rispose:  Asia  son  io. 
Del  gran  padre  Oceàn  figlia  non  vile. 
Son  tre  mila  nel  mar  le  mie  sorelle , 
Ed  io  qui  starmi  soHtaria  godo 
Dei  dolci  laghi  del  Caistro  oscura 
Abitatrice,  e  del  perpetuo  canto 
De^  soavi  suoi  cigni  innamorata. 
Questa  che  vedi  placida  palude , 
Dal  mio  nome  si  noma^  e  qui  pur  giunse 
Delle  vicende  di  Giapeto  il  grido. 
Né  van  senza  pietà  le  sue  sventure. 
Se  il  Caucaso  ti  manda,  e  se  verace 
Corse  la  fama,  Prometeo  tu  sei: 
Si,  tu  certo  sei  desso,  e  il  cor  che  pria 
Di  vederti  t'amava,  assai  mei  dice^ 
Che  di  te  ragionar  sovente  intesi 
Il  mio  canuto  genitor,  che  molti 


•'•  ^  CAUTO   TERZO  2  49 

Del  tuo  senno  e  valor  dicea  bei  fatti 
Nelle  gaerre  d^Olimpo,  e  molti  aiFanni 
Per  la  pugnata  libertà  del  cielo. 
Quindi  giungi,  mei  credi ,  o  generoso , 
Del  maggior  de^  Titani  inclito  seme, 
Desiato  e  gradito  a  queste  rive. 
E  spoltre  il  mar  ti  spinge  alto  destino, 
Avrai  da  me,  cbe  a  compiacerti  aspiro, 
Qual  più  vuoi  d^opra  e  di  consiglio  aita.  — 
La  sua  man ,  sì  dicendo ,  alla  man  pose 
Del  Giapetide,  e  in  riva  al  mar  Taddusse, 
Che  infinita  stendea  dinanzi  al  guardo 
Mormorando  la  tremula  pianura. 
E  qui  giunta  spiccò  veloce  al  corso 
Sull^azzurro  cristallo  il  pie  d^argento; 
Né  toccarlo  parca,  né  seguitarla 
Potea  Tacume  di  mortai  pupilla* 
Lascivo  il  vento  le  gonfiava  il  seno 
Del  bel  ceruleo  velo,  e  steso  a  tergo 
Iva  il  crin  somigliante  ad  una  stella 
Cbe  di  nembi  foriera  per  la  queta 
Notte  del  ciel  precipita,  e  fa  lungo 
Dopo  so  biancheggiar  solco  di  luce. 
Sacra  in  mezzo  del  pelago  a  Nettuno 
E  a  Doride  si  cole  un'isoletta , 
Che  mobile  per  Fonda  e  senza  tregua 
Qua  e  là  veloce  eamminar  si  vede 
Come  a  suo  senno  il  vento  l'affatica. 
À  questa,  cbe  notando  allor  facea 
Del  Galcidico  mar  spumanti  i  flutti, 
Volse  il  passo  la  Diva,  e  così  disse: 
O  tu,  qual  più  ti  piaccia  esser  nomata, 
Del  magnanimo  Geo  casta  figliuola 
Asterie,  o  suora  di  Latona,  o  Delo, 
O  veramente  Ortigia,  il  corso  afirena, 
O  beata  isoletta,  e  la  preghiera, 


aSo  U*  PROMETEO  ♦*•  »7* 

CVio  Dea  del  mar  ti  porto,  odi  cortese. 
Stassi  d^  Ionia  sull^opposta  riva 
Un  saggio  di  Giapeto  inclito  figlio 
Che,  dai  Fati  sospinto  e  da  sublime 
Pensier  che  in  petto  generoso  annida, 
Air  altra  sponda  tragittar  desia. 
Vieni  airuopo  pietosa,  e  tal  n^avrai 
Laude  e  mercede,  che  per  fama  un  giorvo 
Diverrai  delle  Gicladi  la  prima.  — 
Si  disse,  e  Delo  a  quel  pregar  benigna 
Voltò  ratta  le  prode  ^  e,  traversando 
Come  penna  di  vento  il  mar  placato. 
Corse  alla  foce  del  Caistro,  e,  dolce 
Radendo  il  lido  che  tacca,  rimpetto 
Àll^aspettante  Prometèo  si  stette. 
Appressò  le  sue  sponde^  e  in  lei  d^un  salto 
L^illustre  Giapetide  impresse  il  piede, 
E  il  germano  raccolse,  e  seguitollo 
Asia,  la  figlia  d^Oceàn,  che  farsi. 
Siccome  amor  le  ragionava  al  core , 
De^  suoi  fati  consorte  ebbe  desio. 
Di  tanto  passegger  maravigliose 
Accorser  tutte  le  Deliache  Ninfe, 
Di  sé  facendo  un  cerchio,  e  da^  suoi  gorghi 
Fuor  mise  il  capo  e  fino  al  petto  apparve 
Per  vederlo  Flnópo:  e  il  vate  intanto, 
Mercè  rendendo  al  beneficio,  e  i  lieti 
Fati  imminenti  col  pensiero  aprendo: 
Godi,  o  Delo,  dicea,  Delo,  t^ allegra^ 
Che  tua  fama  s^appressa.  Ecco  la  Diva 
Che  il  più  bello  de^  Numi  in  grembo  reca, 
E  per  vendetta  di  Giunon  non  puote 
Terra  al  parto  trovar  che  la  riceva. 
Fugge  Corcira  innanzi  alla  meschina, 
E  TEchinadi  fuggono,  e  FAmbracia 
Fra  i  Celesti  cagion  d^alta  contesa. 


'•  3l4  CANTO  TERZO  a5i 

Né  del  canuto  Àpidano  la  sponda, 

Né  di  Larissa,  né  di  Tempe  immota 

Si  riman  la  pianura.  Oh  Pelio!  oh  talamo 

Di  Filira  famoso!  afanen  tu  resta, 

Restati,  e  della  Dea  pietà  ti  prenda, 

Poiché  sovente  sulle  balze  tue 

Le  honesse  vengono  e  le  tigri 

A  depor  de^  lor  fianchi  il  crudo  peso. 

Oh  sacri  del  Penéo  fronzuti  allori , 

Date  voi  la  vostr^ombra,  ed  accogliete 

Questa  affiinnata  cui  manca  la  lena, 

Ed  ir  più  oltre  il  pie  stanco  ricusa! 

Ohimè,  che  tutti  per  terror  di  Giuno 

Yoltan  la  fironte!  Ohimè!  la  ripa  ancora 

Dell^Enipéo  sen  fugge  e  delPÀnauro, 

DelFÀnauro  che  mai  nebbia  non  vide, 

Né  mai  di  vento  un  sol  sospiro  intese. 

E  già  veggo  da  lungi  i  folti  pioppi 

Dello  Sperchio  tremar,  veggo  le  querce 

Camminar  del  santissimo  Elicona, 

E  le  danze  lasciar  le  Melie  Ninfe 

Di  meraviglia  prese  e  di  paura. 

Fugge  d^Onchesto  il  sacro  bosco*,  fugge 

Stretto  alla  man  delle  attenete  figlie 

Il  fragoroso  Ismen.  Ma  tu  che  pigro 

Dal  fulmine  di  Giove  ofiesa  ancora 

Porti  la  coscia,  perché  fuggi,  Àsopo? 

Temprerà  di  fuggir  quando  le  sacre 

Onde  ai  Giganti  sitibondi  ofiristi , 

E  ne  lavasti  nella  gran  fontana 

I  polverosi  fianchi  e  le  ferite 

Onde  hai  le  spume  ancor  macchiate  e  sozze. 

Ahimé!  tu  non  m^ ascolti,  e  il  tardo  passo 

Cogli  altri  affretti^  e  dcirilisso  intanto 

E  del  Sunio  sassoso  e  delFEuripo 

L^onda  stupisce  nel  sentir  repente 


25 a  IL   PROMETEO  ^-  ^^ 

Farsi  sotto  il  suo  pie  veloci  i  lidi. 

Né  dell^  errante  Dea  men  sorda  ai  preghi 

Di  Pelope  è  la  terra.  Ella  pur  fngge^ 

E  fuggono  con  lei  quante  d^intomo 

Isole  fanno  del  fervente  Egèo 

Go^  gran  fianchi  spumar  Tonde  sdegnose. 

Oh  misera  Latona!  oh  dispietata 

Di  Giunon  gelosia!  Tu  sola,  o  Delo, 

Non  fuggisti,  tu  sola ,  e  sul  Pangéo 

Colla  terribil  asta  invan  percosse 

Marte  lo  scudo,  invan  Iri  dalPerta 

Ti  sgridò  del  Mimante,  e  la  vendetta 

Ti  minacciò  dell^iraconda  Giuno^ 

Che  in  te  poteo  pietà  più  che  paura. 

Cresci,  o  palma  gentil,  che  della  Diva 

Farai  colonna  al  travagliato  fianco, 

E  pietosa  dovrai  deUMmpedito 

Suo  lungo  parto  alleviar  la  doglia^ 

Cresci,  e  Flnópo  a  te  salubre  ognora 

Somministri  Pumor,  né  le  tue  fironde 

Verno  giammai,  giammai  tempesta  ofienda^ 

Ma  dolce  Taura  t^accarezzi,  e  dolce 

Ti  bagni  la  rugiada,  e  a  te  ghirlanda 

Faccian  le  Ninfe  di  perpetue  rose^ 

Che  a  te  sola  serbar,  pianta  cortese. 

Le  Parche  il  vanto  d^aìtar  di  Febo 

Il  natal  faticoso.  Allora,  o  Delo, 

Tu  porrai  d^auro  i  fondamenti,  e  d^auro 

Intero  un  giorno  scorrerà  Flnópo, 

E  tutte  pur  fian  d^auro  le  catene 

Onde  a  Giaro  e  Micone  eternamente 

Awinceratti  il  tuo  divino  alunno , 

Al  tuo  lungo  vagar  ponendo  il  fine. 

Né  si  cara  sarà  Ceneri  a  Nettuno, 

A  Mercurio  CiUene,  a  Giove   Creta, 

Come  Delo  ad  Apollo.  Oh  Delo  !  oh  cuna 


'•  586  CAUTO  TSKSO  a53 

Del  signor  deUe  Muse  e  della  luce^ 
Salve!  Né  mai  con  sangoinoso  piede 
Ti  giunga  Marte  a  calpestar,  né  mai 
S^accjuisti  Plato  in  te  ragione  alcuna. 
Salye,  o  terra  beata,  e  sempre  suoni 
Sul  labbro  de^  poeti  il  tuo  bel  nome.  — 
Così  deirahna  dolorosa  Dea, 
Che  i  due  begli  occhi  partorì  del  cielo , 
Profetava  gli  affanni  e  le  fatiche 
n  buon  Titano^  e  colla  foga  intanto 
Di  colei  che  le  penne  al  tergo  mise 
Del  sangue  lorda  del  figliuol  suo  stesso, 
Navigava  per  Tonda  la  divina 
Cuna  d^Àpollo.  ÀI  suo  passar  festose 
Sporgean  dalFonde  il  capo  a  mano  a  mano 
Le  sorelle  isolette,  e  salutarla 
Parean  d'intorno  ed  onorarla  a  gara, 
Finché  Ceneri  radendo  e  dell'angusto 
Schene  la  proda  nell'estremo  grembo 
Del  Saronico  mar  rattenne  il  corso. 
Qui  riposata  e  lieve  in  su  l'arena 
L'errante  Delo  i  passeggeri  espone. 
Poi  veloce  dispiccasi  dal  lidd, 
E  nell'alto  si  spinge  come  strale 
Che  da  partico.  nervo  si  disfrena: 
Mentre  una  dolce  melodia  da  lunge 
S'udia,  che  l'onde  e  l'aure  innamorava^ 
E  del  beato  In<5po  eran  le  figlie 
Che  cantando  soave  e  carolando 
Ivan  pel  gaudio  de' promessi  onori. 
Ma  di  gravi  pensier  carco  la  mente. 
Poiché  le  tanto  sospirate  arene 
Toccò  l'accorto  Giapetide,  alzando 
Gli  occhi,  e  del  rauco  Citeron  l'opposte 
Selve  mirando:  O  Ninfe,  ci  disse,  o  care 
Delle  ruvide  querce  alme  figliuole, 


fk54  ^  PROMETEO  •'•  4>3 

Che  ligie  al  fato  de^  materni  tronclii 

In  lor  la  vita,  in  lor  la  morte  avete, 

Qualunque  vi  raoeolg;a  o  monte,  o  sacro 

Di  foreste  recesso  e  di  fontane , 

Oreadi  saltanti  ed  Amadrìadi 

E  Driadi  e  Napee,  voi  ricevete 

Cortesi  il  figlio  di  Giapeto,  e  voi 

Del  vostro  Nume  la  sua  santa  impresa 

Secondate  pietose.  E  tu  dal  Fato 

A  mille  prove  di  valor  serbata, 

Inclita  terra,  non  volermi  avara 

Dal  tuo  grembo  cacciar,  ma  la  virtude 

Che  in  te  pose  natura,  e  nel  tuo  seno 

Move  la  vita,  liberal  mi  scopri^ 

Che  certo,  o  terra  al  Ciel  più  ch'altre  cara. 

In  te  vive  uno  spirto  che  possente 

Nutre  il  tuo  corpo,  e  per  le  vene  infusa 

Una  mente  tUnvade  e  ti  penetra, 

Che  de'  tuoi  figli  passerà  nel  petto, 

E  madre  ti  fai*à  d'alme  divine. 

Oh  !  chi  mi  trae  d'Eurota  in  su  le  rive , 

Chi  dell'Ismen  mi  chiama  e  dell'IIisso 

Sui  campi  bellicosi?  E  quai  di  Sparta 

Nomi  ascolto  e  d'Atene,  onde  commosso 

Ferve  il  pensiero,  e  l'ahna  si  solleva? 

Salve,  culla  d'onor,  salve  ricetto 

Di  libertà.  Tutte  a'  tuoi  danni  invano 

Armerà  l'Asia  le  sue  forze,  invano 

Farà,  per  darti  le  catene,  oltraggio 

Di  temerarii  ponti  al  mar  d'Abjdo  ^ 

Che  di  braccio  servii  fiacca  è  la  spada 

Contro  liberi  petti,  e  sol  sa  vincere    ai> 

Chi  sa  morir.  —  Così  parlando,  e  molto 

Ragionando  per  via  col  suo  pensiero. 

Verso  il  monte  cammina,  che  sublime 

n  ciel  ferendo  colla  doppia  fironte. 


•  4M  CAUTO  TBRzo  a55 

Da  lungi  il  guardo  al  pellegrino  atvisa. 
Lamasso  lo  nomar  le  genti  prime; 
Or,  mutato  il  valor  del  nome  antico, 
Parnaso  è  detto,  e  più  fiunoso  ha  grido. 
Cupa  e  vera  dW  Dio  stanza  temuta 
S^apre  a  pie  di  quel  monte  una  spelonca, 
Ove,  del  ciel  dimentica  e  preposti 
Al  talamo  di  Giove  i  queti  onori 
Dì  soggiorno  terren,  Temide  pose 
Il  suo  peplo,  il  suo  trono  e  i  sacri  tripodi 
A  lei  da  Vesta  concedati ,  e  poscia 
Ad  Apollo  donati  il  dì  clie  fatto 
Fu  re  del  canto  e  delle  caste  Muse. 
Sul  limitar  delPantro  tenebroso 
Stava  Finclita  Dea  nel  suo  gran  seggio 
Gravemente  seduta,  e  in  suo  pensiero 
Dell^ avvenir  presaga,  il  giorno,  i  fati 
Maturando  vem'a,  che  dell^accorto 
Suo  buon  nipote  promettean  Parrivo. 
Come  il  vide  da  lunge  alla  sua  volta 
Co'  due  compagni  taciturni  al  fianco 
Per  la  valle  appressar,  rizzossi  in  piedi. 
Liete  incontro  gli  stese  ambe  le  palme. 
Ne  lagrimò  di  gioia,  e  così  disse: 
Finalmente  venisti,  e  la  tua  rara 
Verso  Fuom  doloroso  alta  pietate 
Vinse  il  duro  cammin.  Ma  ben  più  dura. 
Sappilo,  0  figlio,  ti  rimane  impresa, 
E  di  duol  più  feconda  e  di  perigli. 
Fi  a  redenta  per  te  la  stirpe  umana, 
Non  dubitarne,  e  leverà  sublime 
Dalla  polve  natia  la  fronte  al  cielo. 
Ma  Tinvidia  di  tal,  che  meno  il  debbe. 
Farà  cara  costarti  opra  sì  bella; 
Impunemente  non  sarai  pietoso  , 
E  vedrai  sventurato  a  lunga  prova 


256  IL  PROMETEO  *'•  494 

In  tuo  danno  tornar  la  tua  yirtude* 

Ohimè!  che  parlo?  e  tu  in  chi  poni,  o  figKo, 

Cotanto  beneficio?  Ahi  duri,  ingrati 

Umani  petti!  Ahi  qua&to  sangue  e  quanti 

Veggo  delitti!  ed  in  qual  uso,  ahi  lassa! 

Converso  il  dono  di  ragion  divina  ! 

Tu  non  far  che  ti  domi  la  sventura^ 

Ma  dovunque  ti  mena  il  tuo  destino, 

Più  ardito  vanne  ad  incontrarla,  e  vinci.  — 

Cosi  dicendo  lo  si  strinse  al  petto 

Pietosamente,  e  di  più  largo  pianto 

Rigò  gli  occhi  divini.  Asia,  la  figlia 

Del  profondo  Oceàn,  piangea  pur  ella, 

E  r  amor  che  segreto  il  cor  le  tocca , 

Quell^abbondante  lagrimar  tradiva. 

Pianse  anch^esso  il  fratello,  e  solo  asciutte 

Restar  del  forte  Prometèo  le  ciglia. 

Muto  stava  ogni  labbro ,  ed  atterrata 

Ogni  pupilla.  Alfin  Feroe  quel  mesto 

Silenzio  ruppe  coraggioso  e  disse; 

Ninna  di  stenti,  o  Diva,  e  di  fatiche 

Faccia  mi  giunge  inopinata  e  nuova: 

Tutto  ho  in  mente  concetto  e  presentito 

Che  da  te  mi  s'annunzia,  e  del  futuro 

Tutta  ho  dinanzi  la  presenza  orrenda. 

Ma  vile  è  Topra  che  sudor  non  costa, 

E  negli  afl&mni  esulta  e  nei  perigli 

La  verace  virtù.  Dolce  mi  fia 

Aver  la  fronte  di  tempeste  oppressa, 

E  nel  petto  portar  Palma  serena. 

Securi  ir  lascia  e  fortunati  e  lieti 

Solo  i  grandi  delitti,  e  questo  s'abbia 

Infame  vanto  il  mio  nemico,  il  figlio 

Dell'astuto  Saturno;  egli  che  crudo 

E  ciel  mi  tolse  e  padre,  e  mi  persegue 

Sol  perchè  tormi  la  virtù  non  seppe. 


«*•  53o  CÀ5T0  TEKZO  ^S'J 

Ma  qual  dinanzi  al  Sol  che  in  alto  poggia, 
Passa  r  invida  nube  e  non  V  offende, 
Quale  il  mar  con  irate  onde  lo  scoglio 
FlageUa  ed  egli  più  torreggia  e  sta; 
Tal  di  Giove  fia  Pira  e  il  mio  disprezzo.  — 
Disse;  e  dUndugio  impaziente  all'opra 
Che  nel  cor  gli  fervea,  volse  F ingegno: 
E  Temide  era  seco,  alma  datrice 
Di  coraggio,  di  senno  e  di  consiglio. 


DEL 

PROMETEO 


CANTO  QUARTO 

(  FRAMMENTO  INEDITO  ) 

Prima  e  sola  cagion  che  moto  e  vita 
A  tutte  impresse  le  create  cose, 
Alma  natura ,  che  tue  sante  leggi 
Rivelasti  ai  mortali,  e  la  grandezza 
Sempre  narri  di  Lui  ch^è  tuo  principio 
Ed  in  te  sola  il  suo  poter  palesa 
D^etemo  padre  coetema  figlia, 
Tu  i  primieri  deU^uom  preghi  e  sospii*i 
Ottenesti  adorata  ;  e  quanti  in  terra , 
Nel  mar,  nelPaere,  in  ciel  produci  effetti, 
Tanti  fiiro  gli  Dei  che,  generati 
Dall^umano  timor,  volto  e  figura 
Elbher  diversa  ed  unico  Pohbietto. 
Tutto  si  move  nel  tuo  vasto  seno, 
Tutto  si  cangia,  e  nulla  ha  morte,  nulla 
Assoluto  riposo,  né  conobbe 
Vecchiezza  mai  né  decremento  il  mondo  ^ 
Che  d^ ottimo,  operoso  ente  fattura, 
Ottimo  ei  pure  e  necessario  esiste^ 
Né  più  lente  che  pria  né  più  veloci 
Move  il  tempo  le  penne,  o  il  ciel  le  rote^ 
Che  qual  sempre  girò,  tal  sempre  ei  gira , 
E  sempre  girerà  vario  e  perfetto. 
Te  dunque  invoco,  o  santa  madre,  o  grande 
Potentissima  Dea,  che  cento  avesti 
DaU^argivo  saver  sembianze  e  nomi, 


<"•  ^  IL   PROMETEO,  CANTO  QUARTO  aSg 

Or  Tellure  chiamata,  or  Opi,  or  Vesta , 
Ed  or  Diana  dalle  molte  poppe. 
Te  che  Venere  ancor  godi  nomarti, 
Riso  de' numi  e  de'  mortali,  ond' hanno 
I  fecondi  elementi  e  spirto  e  vita, 
Te  prego  che  vestir  Pale  ti  piaccia 
Al  mio  pensiero,  e  pronto  all'intelletto 
Un  sol  raggio  mandar  di  cjuella  luce 
Che  da  te  piove,  ed  egualmente  liete 
Fa  l'erbe  in  terra  e  nell'Olimpo  i  Soli^ 
Perocché  la  più  grande  e  la  più  beUa 
Or  dell'opre  a  cantar  m'accingo,  o  Diva, 
Di  che  tu  stessa  in  onoranza  dèi 
Altissima  levarti  e  superbire: 
L'uomo,  io  dico,  animai  su  gli  altri  tutti 
Ammirando  e  divin,  l'uomo  di  tutti 
Gli  enti  mischianza  e  de'  contrarii  tutti. 
Se  di  fole  velando  intanto  io  vegno 
Del  ver  la  faccia,  se  di  dolce  ascréo 
Aspergo  le  severe  alte  dottrine. 
Non  delle  Muse,  tu  lo  sai,  ma  colpa 
Del  mondo  è  tutta, 

onde  colei 

Che  dal  sonno  ti  sveglia  e  il  cor  ti  sprona. 
Un' emula  in  te  svegli,  una  sorella. 
E  lo  sarai  ^  che  tu  pur  chiudi  in  petto 
Alma  gentile,  e  in  te  pur  disfavilla 
Sopito  si,  ma  non  estinto,  il  foco 
Che  il  figlio  addusse  di  Giapeto  in  terra. 
Com'egli  al  ciel  lo  tolse,  e  quali  e  quanti 
Seguir  perigli  la  leggiadra  impresa, 
A  cantar  m'apparecchio^  e  ciò  che  dentro 
Significa  la  Musa,  accenno  e  scrivo. 


VARIANTI  DEL  PROMETEO 

toUe  dall'edizione  dì  Milano,  presso  la  Società  degli  Editori 
degli  Annali  Unifersah  delle  Sciènte  e  delt Industria , 

MDCCCXXXÌI. 


L'EDITORE 


Nella  stampa  di  questo  poema  ho  seguita,  per  quanto  è  per- 
messo  j  la  lezione  del  primo  canto  pubblicato  nelt anno  1797  in  8." 
coi  torchi  del  Marsigli  in  Bologna.  Ivi  pure  era  stata  incomin" 
ciata  la  edizione  del  secondo  canto  j  ma  tiratone  il  primo  foglio  ^ 
che  giungeva  al  verso  383 

E  di  quante  calpetUno  1*  Olimpo  » 

r  autore  sospese  la  continuazione  dell'opera^  ed  il  foglio  nonfopub^ 
blicato.  Nella  stessa  città  però  nefocero  una  ristampa  nel  iSijgli 
Editori  delle  opere  del  Monti  sopra  un  esemplare^  dicon  essi,  forse 
unico  che  rimaneva^  cui  poterono  avere  dalla  gentilezza  di  un  amico. 
Ed  io  a  questa  mi  sono  attenuto. 

Ma  dove  finiscono  le  stampe  bolognesi^  alle  quali  ho  data  la 
preferenza  perchè  somministrano  la  lezione  dalV  autore  stesso  de- 
stianta  alla  pubblica  luce  (ed  egU  soleva  sempre  dar  V  ultima  mano 
a'  suoi  lavori  nella  correzione  che foiceva  della  stampa),  ho  seguita 
dedizione  di  Milano  del  i832  delle  Opere  inedite  e  rare  di  Vin- 
cenzo Monti. 

Qui  è  da  notare  che  quelli  che  procurarono  quest*  edizione  po^ 
slama  j  introdussero  nel  primo  canto  i  cambiamenti  che  il  Monti 
aveaci  fotti  negli  ultimi  anni  della  sua  vita ,  quando  proponevasi 

Monti.  Poemetti.  >7 


262 

di  ristringere  il  poema  al  solo  Vaticìnio  di  Prometeo.  Per  lo  che 
vedendo  essi  che  la  nuova  prò  tasi,  concepita  come  segue: 

Del  Giapetìde  PronwtÀ)  l' antico 
yaticinio,  die  tatto  il  Tario  giro 
Srolge  de'  mali  all'  oom  ddaao  addotti 
Dal  temerario  ennir  d'EpimelA>, 
Libero  canterò,  se  quella  Diva 
■    Che  nede  in  cima  aOa  mia  mente  e  viro 
Sotto  il  din  bianco  ancor  ne  serba  il  foco,  tee. , 

vedendo  essi,  dico,  che  la  nuova  protasi  troppo  ristringeva  fidea 
del  poema,  di  cui  volevano  pubblicare  la  continuazione  del  secon^ 
do  cantone  tutto  il  terzo,  trovati  fra  i  manoscritti  del  poeta,  sti- 
marono opportuno  di  riferirla  in  una  nota  a/rAyyertiineiito  degli 
Editori ,  e  nel  testo  innestarono  i  primi  versi  deir  antica  protasi 
della  stampa  bolognese,  E  dovettero  ancora  giustificare  in  una  nota 
al  poema  la  ripetizione  dei  versi: 

E  in  quel  lacro  furar  tutto  rapito 
Che  i  secoli  sormonta,  e  alla  potente 
Interna  rista  0  tuxbine  Telooe 
Dell'  umane  vicende  sottomette ,  (*) 

che  nasceva  dalV avere  il  Monti  trasportati  pròna  alcuni  versi  che 
leggonsì  pia  avanti  in  un  luogo  ch'egli  avrebbe  cangiato  se  avesse 
terminato  di  rifondere  questo  primo  canto,  per  ridurlo  a  stare  da 
sèj  come  già  in  altri  tempi  avea  fritto  colla  Musogonia, 

Perciò,  oltre  la  ragione  di  già  accennata  di  preferire  la  lezione 
stampata  a  quella  che  fautore  riserbava  alla  lima  membraois  intus 
positis,  non  ho  voluto  imitare  gli  Editori  del  i832j  introducendo 
nel  poema  le  mutazioni  che  avevano  per  fine  di  limitarne  il  sog- 
getto. Le  pongo  peto  qiU  in  seguito  perchè  non  ne  sia  defraudato 
il  lettore  che  amasse  di  riscontrarle  colla  primitiva  lezione. 


(*)  y.  a  cart.  3o  e  43  del  Yolumc  II  deli'  ediàone  del  i832. 


VARIANTI  DEL  PROMETEO 


CANTO  I. 


V.  8. 
Del  SQO  favor  m'aita,  e  non  disdegna 

V.  II  al  34. 
Ma  de' suoi  duri  àifanni,  0  mio  pensiero, 
Qaal  da  prima  direm?  Forse  la  pena 
Della  rapita  audacemente  al  Sole 
Vita]  fiammella,  che  costò  sì  cara 
Sulla  scitica  balza  al  rapitore? 
Questa  già  fu  di  tragiche  querele 
Alto  subbietto  su  le  scene  argive , 
E-  per  sentier  di  grandi  orme  stampato 
Debil  piede  non  corre.  O  di  Giapeto, 
Innanù  a  tutto,  oe'  celesti  campi 
Canterem  la  magnanima  caduta, 
Quand'  ei  co'  fieri  suoi  fratelli  incontro 
Stette  alle  forze  del  Saturnio  figlio , 
E  lungamente  del  poter  de'  suoi 
Fulminei  strali  dubitar  lo  fece? 
Certo  il  grande  conflitto,  onde  prostrata 
Giacque  d'Urin  la  generosa  prole, 
Che  di  sorte  minor,  ma  non  d'ardire, 
Del  ciel  paterno  la  ragion  perdea, 
Di  gran  suono  potrebbe  empier  la  cetra , 
E  d' un  bel  serto  al  crin  farmi  1'  acquisto. 
Ma  de'  Titani  e  degli  Dei  si  chiara , 
Si  sublime  rimbomba  la  battaglia 
Nel  grave  canto  dell' Ascreo  poeta, 
Che  ogni  altro  si  fa  muto:  e  la  sua  lira 


•7* 


264  YARlAim 

Al  maggior  lauro  di  Parnaso  appesa 
Del  gran  cieco  vicina  alla  gran  tuba 
Nullo  è  sì  stolto  che  toccarla  ardisca. 
Dair  umile  mio  verso  adunque  lungi 
Di  queir  allo  certame  la  mina, 
li  tumulto,  il  furor;  lungi  il  fracasso 
Delle  scagliate  rupi ,  e  il  gran  muggito 
Della  terra  e  del  mar;  lungi  T orrendo 
Sibilar  delle  folgori,  e  degli  astri 
Spaventati  la  fuga,  e  l'infinito 
Tuon  che  tutte  tremar  dai  fondameuti 
Facea  le  cime  del  conteso  Olimpo. 
Fuggitivo  dal  cielo  in  quell'amara 
Sconfitta ,  e  ascoso  nel  segreto  seno 
Delle  caucasee  grotte,  un  canto  chiede 
Di  pietoso  tenor,  canto  di  pace 
Il  solitario  Prometeo,  che  seco  ec. 

V.  5o. 
Primo  degli  astri  tentator  felice. 

V.   55. 
Pel  cui  folle  ardimento  in  su  la  terra 

V.  76. 
Volse  anco  ai  bruti  il  guardo,  e  tutte  manche 

V.  87. 
£  di  partirlo  fra  gli  umani  e  i  bruti 

V.   io3. 
Timor  prendendo  di  cotanto  incarco, 

V.  ia6. 
(Manca  questo  iferso  neW edixìone  milanese.) 

V.  134. 

Al  morto  regno,  se  di  voi  taluno 

V.  i36. 
Nel  tencbrofio  Tartaro  profondo 

V.   145  e  146. 
Dileguossi  ciò  detto ,  e  si  nascose. 

V.   157. 
L'agitando  e  scotendo  onde  un  avanzo, 

V.    164. 
Il  già  vuoto  vascl ,  che  cupamente 

V.   167. 
{ Manca  questo  i'crso  ncir  c(ti\tonc  milanese.  ) 


DEL  PROKETEO  ^65 

V.  171  a  179. 
{Mancano  pure  questi  versi  neltedù(^.  milanese,) 

V.  197. 
{Manca  questo  iferso  nettedi^.  milanese.) 

y.  199  e  200. 
{jÌ  questi  due  versi  tedù^,  miL  sostituisce  i  seguenti:) 
A  qnei  preghi,  a  quel  piaoto,  il  miglior  figlio 
Di  Giapeto  guatò  con  un  sospiro 
Il  pentito  fratello:  indi  raccolto 
In  sé  medesmOi  con  lo  sguardo  chino, 
In  un  pensiero  entrò  che  gli  coperse 
D'oscura  nube  la  severa  fronte. 
Poi  tutto  faoco  i  rai,  foco  le  gote, 
Del  remoto  futuro  entro  gli  abissi 
Spinse  la  mente,  che  l'antica  Temi 
Lunga  stagion  gii  ayea  nella  divina 
Grand' arte  de' profeti  esercitata, 
£  in  quel  sacro  furor  tutto  rapito 
Che  i  secoli  sormonta  e  alla  potente 
Interna  vista  il  turbine  veloce 
Dell'umane  vicende  sottomette, 
Aprì  le  labbra  finalmente,  e  disse: 
Dura  ec. 

V.  219. 
Ond'  anco  ai  Numi  mi  pareggio ,  e  tutta 

V.  2^8. 
Che  te  dall'ira  del  tiranno  astuto 

V.   a3o  e  aSi. 
Né  duolmi,  no,  del  tuo  destin;  che  pochi 
Son  gli  affanni  ove  poco  è  l'intelletto; 

y.  a38,  a39  e  a  40* 
Poco  ti  parve  al  bruto  aver  largito 
Scaltrezza,  ardir,  prudenza,  e  la  virtude 
Che  antivede  e  proyvede  e  mai  non  erra, 

y.  a56. 
L'arte  infelice  di  crear  le  brame. 

y.  a59. 
Ni  col  rastro  gli  è  d'uopo,  0  coli' aratro 

y.  262  al  264  • 
Dolci  veleni  ad  ammorzar  la  sete. 
£  fortunato  ancor,  che  contra  i  nembi, 
Contra  il  furor  ec. 


1l66  TAKIÀHTI 

V.  ise. 

Indossar  gli  è  bisogno ,  né  la  fiamma 

V.  279  e  a8o. 
Atterrito  con  fiochi  e  Innghi  lai, 
All'ingrato  mortai  pronunzia ,  e  grida 

y.  3o3  a  3io. 
{Mancano  questi  versi  neWedixione  milanese.) 

V.  3i4. 
Or  tremando  di  gelo,  or  da'cooenti 

V.  3ai  e  3aa. 
Parando  adesso  la  sua  spoglia  ai  soli 
Quadrupedanti  per  ec. 

V.  329,  33o  e  33i. 
Quanta  beltate  al  suo  sembiante  è  tolta! 

V.  332. 
Squallido,  sozzo,  rabbuffato  ed  irlo 

V.  421. 
Costumanze,  follie,  morbi  ed  errori. 

V.  4499  4^0  e  4^i< 
Indi  strappando  con  ardita  mano 
Il  vel  cbe  l'opre  di  Natura  asconde, 
Alfio  dal  seggio,  ec. 

V.  490  al  520. 
(A  questi  versi  l'edii^.  milanese  sostituisce  i  seguenti:) 
Per  lui  mendica  la  virtà,  per  lui 
Prostrato  il  morto  al  pie  della  superba 
Ricca  ignoranza,  e  con  nefandi  incensi 
Adorata,  ahi  delirio!  anche  la  colpa. 
E  guai  se  il  rio  metallo  avrassi  in  pugno 
Queir  avversaria  d'ogni  patto,  e  d'ogni 
Malvagità  maestra  e  consigliera 
Ambizioni  La  prepotente  e  astuta. 
Non  pur  la  terra  usurperà,  ma  il  cielo. 
Quindi  (iniquo  mercato!)  alla  perversa 
L' amico  un  giorno  venderà  1'  amico , 
Il  padre  i  figli,  e  della  patria  i  santi 
Dritti  perfido  ed  empio  il  cittadino; 
A  lei  spergiuro  le  battaglie,  e  il  sangue 
De' suoi  prodi  guerrieri  il  capitano; 
A  lei  le  rócche  il  traditor  custode; 
E  per  leir  nelle  fervide  fucine 


DEL  PROMBTBO  267 

Vnlcan  sodando  io  omicidi  arnesi 
Stancherà  i  polsi  e  i  mantici  e  la  possa 
De' sonori  martelli;  e  gli  daranno 
Air  opra  aiuto  le  inyentrici  Erinni, 
Onde  r  arte  di  tórre  all'  nom  la  yita 
Di  tutte  venga  un  di  la  più  perfetta, 
E  più  spedita  la  terribil  via 
D'acqubtar  colle  stragi  e  gloria  e  regno, 
Di  sangue  empiendo  e  di  delitti  il  mondo. 
Oh  Marte!  ec. 

V.  533. 
Tu  rompesti  primiera,  e  contra  i  padri 

V.  536   al  539. 
E  calpestando  con  allegro  piede 
Squarciate  membra ,  e  tronche  teste ,  e  bocche 

V.  54  f. 

In  tepida  di  strage  atra  laguna, 

V.  544. 

Mentre  ancor  sulla  gota  a  calde  gocce 

V.  548. 

(  Questo  verso  non  leggesi  nelt  edizione  milanese.  ) 

V.  55i. 
Air  uom  grida  :  Mortai^  perdona  ed  ama. 

V.  BS'i, 
E  r  uom  sordo  a  quel  grido ,  e  dai  fischianti 

V.  559. 

E  tradimento,  ambizione  e  forza 
V.  563,  564  e  565. 
Va  degli  orfani  figli  e  delle  madri 
Asciugando  ec. 

V.  56Qy  567. 
Furtive,  ahi  lassi  1  e  al  mesto  cor  sol  note, 
Poiché  aperto  dolor  colpa  saria. 

V.  568  al  585. 
(  Questi  versi  non  si  leggono  nell'  edizione  milanese.  ) 

V.  588  al  592. 
(  Idem.  ) 

V.  616. 
Che  tutto  fece  traballar  l'Olimpo, 
E  ridestarsi  a  nuoya  vita  il  mondo. 

V.  617  al  808. 
{Questi  versi  non  si  leggono  nell'edixione  milanese.) 


•ì68 


VAllIÀlfTI 


CANTO  II. 


V.  3. 
Con  dimesso  sembiaDte  e  guardo  chino 

V.  9,  IO  e  II. 
Perchè  di  mezzo  all'acque  una  sublime 
Immensa  larva  sollevaya  il  petto, 
Che  con  ambe  le  man  martelli  e  chiovi 

V.  i5. 
Aquila  incontro  gli  venia  di  brame 

V.  37. 
Delle  nuvole  squarcia  il  fosco  velo 

V.  39. 
Che  tutto  allegra  del  suo  riso  il  mondo. 

V.  41  e  4a. 
Dalla  pioggia  chinato,  e  contro  il  Sole 
Fan  cristalline  tremolar  le  perle 

V.  62. 
Gli  folgorò,  che  pur  d'un  sasso  accesa 

V.  65  al  70. 
Toccar  di  destra  non  taiortal  nel  petto 
Gli  fiammeggiò  ec. 

V.  72  al  80. 
Con  questa  al  fianco  amica  guida  invitta 
Assalendo  la  larva  minacciosa. 
L'animoso  Titino  oltre  si  spinse. 
Né  lo  scosse  il  suonar  delle  catene. 
Né  l'avventar  di  quei  bramosi  artigli. 
Che  cessero  qual  fumo  al  suo  passaggio, 
E  come  vento  gli  rombar  sul  petto. 
Uscito  ec. 

V.  99- 
Ne  r inclito  Vulcano  i  ferrei  tori, 

V.  loi. 
Fatto  un  di  palpitar  l' amante  maga 

V.  ii5. 
E  voi  di  Minia  lo  saprete  un  giorno 


DEL  PBOMBTCO  ^6g 

V.    lai. 

E  del  muliebre  Tibareno  i  lieti 

y.   143  al  148. 
Deir avaro  terreo,  qod  l'elee  e  rorno» 
Ma  l'uman  petto  impiagheran  crudeli, 
E.gli  sdegni  che  un  detto  ed  un  sorrìso 
Nascenti  or  spegne,  e  il  cor  gli  avvisa  appena, 
Non  si  vedranno  allor,  lasso  I  morire 
Se  non  di  sangue  già  satolli  e  lordi. 
Ecco  gli  antrì ,  o  fratello ,  e  le  caverne 
Che  ignota  dall'aperte  orrende  bocche 
Metton  paura,  e  diverran  fra  poco 
Di  quell'empio  lavor  l'empie  fucine. 

V.  i5a. 
£  assister  liete  all'infemal  fatica 

V.  i54. 
Le  discordie,  le  rìsse  e  le  contese 

V.  iSg. 
Alle  fiirie,  ai  disastri  ed  alle  colpe, 

V.  176. 
Femminile  remeggio  ancor  battuta. 

V.  ao5. 
Con  un  dolce  soffiar  feria  la  fronte 

V.  207. 
Muggia  frattanto  il  mare,  e  quel  muggito 
Nella  quiete  universal  del  mondo 
Scendea  mesto  sul  cor,  ma  dilettoso. 
E  verso  tramontana  in  lontananza 

Un  rugghio  ec. 

V.  aa3. 
Tutti  al  guardo  mostrava  i  suoi  splendori 

V.  a8o. 
Gli  argentei  morsi  e  le  dorate  briglie, 

V.  287,  a88  e  289. 
Popolo  audace^  che  valor  vi  porta 
Fortuna  e  fama,  e  fra  perìgli  e  stenti 
Libertà  combattuta.  Ecco  la  belva. 
La  forte  belva  dalle  bionde  giubbe. 
Che  nelle  vostre  arene  s'accovaccia, 
E  co' ruggiti  ingombra  e  con  gli  sguardi 
Di  tema  intorno  e  riverenza  i  lidi 


1^0  YÀmunn  bel  paohbteo 

Arbitra  sola  dell' adriaco  flutto. 
Oh  Dovella,  ec. 

V.  298. 
In  pace  e  in  gaenra  li  faran  famosa. 

V.  299  e  3oo. 
(  Questi  versi  non  si  leggono  nelt edizione  milanese.) 

V.  3o3. 
Gh'  altre  por  vi  saran  inclite  mara 

y.  3o9  al  348. 
(  Questi  persi  non  si  leggono  nelT  edili.  miUnese.  ) 


IN    MORTE 


DI 


LORENZO  MASCHERONI 


CANTICA 


(ntmmt»ri) 


AVVERTIMENTO  DELL  AUTORE 


PREMESSO    ALL^  EDIZIONE    MILANESE    DKLL^NNO     180I. 


Ben  provmk  alla  dignità  delle  Muse  quella  legge 
del  disino  LicurgOy  la  quale  vietava  V  incidere ^  non 
che  il  cantar  versi  sulla  tomba  degli  uomini  volgari^ 
non  accordando  quésto  alto  onore  che  alle  anime  ge- 
nerose e  della  patria  benemerite.  Non  sarò  dunque, 
spero  j  accusato  di  aver  violato  il  decoro  di  questa 
legge,  prendendo  a  cantare  di  Lorenzo  Mascheroni  di 
Bergamo-  Insigne  matematico^  leggiadiv  poeta  ed  ot- 
timo cittadino,  egli  ha  giovato  alla  patria,  illustrandola 
co"  suoi  scritti,  conquistando  nuove  e  peregrine  ve- 
rità alViunano  intendimento ,  provocando  con  gli  au- 
rei suoi  versi  il  buon  gusto  nella  primogenita  e  pia 
sacra  di  tutte  le  arti,  nella  quale  son  pochi  tuttavia 
i  sani  di  niente^  e  molti  i  farnetici  eiciunnadori.  Egli 
ha  giovato  finalmente  alla  patria  lasciandone  V esempio 
delle  sue  virtù:  beneficii  tutti  meno  strepitosi ,  gli  e 
vero,  ina  piti  cari  e  d'assai  più  durevoli  che  tanti  al- 
tri partoriti  o  per  valore  di  armi  y  o  per  calcoli  di 
mercantile  e  sempre  perfida  e  scellerata  politica.  Le 
repubbliche  greche  e  la  romana  son  morie;  il  tempo 


274 

ha  divorate  le  conquiste  di  Alessandro  e  di  Cesare; 
pochi  anni  bastarono  a  distruggere  il  frutto  delle  fa- 
mose  ^ornate  di  Maratona  e  di  Salanùna  ;  ma  dur 
rano  tutta^  per  conforto  delT  umanità  i  divini  pre- 
cetti di  Socrate:  e  la  luce  uscita  dalle  selve  deU^Ac^ 
cadenda  e  del  Tusculo  j  superata  la  caligine  e  i  de^ 
litti  di  tutti  i  secoli,  illumina  ancora  e  illuminerà 
eternamente  gli  umani  intelletti,  perchè  la  venta  sola 
e  la  virtù  sono  immortali. 

Ma  ti  sei  tu  proposto,  dirà  taluno,  di  piangere  qui 
soltanto  la  perdita  del  tuo  amico  ?  Noi  so  :  le  cagioni 
del  piangere  sono  tante.  Guai  a  colui  che  a  dì  no- 
stri lui  ocelli  per  vedere,  e  non  ha  cuore  per  fremere 
e  lagrìmareì 

Lettore,  se  altgm^nte  and  la  patria,  e  sei  verace 
Italiano,  leggi;  ma  getta  il  libro,  se  per  tua  e  nostra 
disavventura  tu  non  sei  die  un  pazzo  demagogo,  o 
uno  scaltro  mercatante  di  libertà. 


IN  MORTE 


SI 


LORENZO  MASCHERONI 


CANTO  PRIMO 


Come  face  al  mancar  dell^  alimento 
Lambe  gli  aridi  stami,  e  di  pallore 
Veste  il  suo  lume  ognor  pia  scarso  e  lento; 

E  guizza  irresoluta,  e  par  che  amore 
Di  yita  la  richiami ,  infin  che  scioglie 
L^ ultimo  Tolo,  e  sfavillando  muore: 

Tal  quest^  alma  gentil,  che  morte  or  toglie 
All'italica  speme,  e  su  lo  stelo 
Vital,  che  rerde  ancor  fioria,  la  coglie; 

Dopo  molto  affannarsi  entro  il  suo  velo, 
E  anelar  stanca  su  F  uscita,  alfine 
L'ali  aperse,  e  raggiando  alzossi  al  cielo. 

Le  Virtù,  che  diverse  e  pellegrine 
La  vestir  mentre  visse,  il  mesto  letto 
Cingean,  bagnati  i  rai^  scomposte  il  crine: 

DeUa  patria  Pamor  santo  e  perfetto. 
Che  amor  di  figlio  e  di  fratello  avanza. 
Empie  a  mille  la  bocca,  a  dieci  il  petto: 

L'amor  di  libertà^  beUo,  se  stanza 

Ha  in  cor  gentile;  e  se  in  cor  basso  e  lordo, 
Non  virtù,  ma  furore  e  scelleranza: 

L'  amor  di  tutti ,  a  cui  dolce  è  il  ricordo 
Non  del  suo  dritto,  ma  del  suo  dovere, 
E,  P altrui  bene  oprando,  al  proprio  è  sordo 


!kj6  IN  MORTE  DI  LORENZO  MASCHERONI 

Umiltà,  che  fa  suo  Y  altrui  volere: 
Amistà,  che  precorre  al  prego  e  dona, 
E  il  dono  asconde  con  un  bel  tacere: 
Poi  le  nove  Virtù  che  in  Elicona 

Danno  al  muto  pensier  con  aurea  rima 
L^ali,  il  color,  la  voce  e  la  persona: 
Colei  che  gF intelletti  apre  e  sublima, 
E  col  valor  di  finte  cifire  il  vero 
Valor  de^ corpi  immaginati  estimai: 
Colei  che  li  misura,  e  del  primiero 

Compasso  armo  di  Dio  la  destra,  quando 
n  grand^arco  curvò  deU^  emispero^ 
E  spinse  in  giro  i  Soli,  incoronando 
L^ ampio  creato  di  fiammanti  mura, 
Contro  cui  del  caosse  il  mar  mugghiando, 
E  crollando  le  dighe,  entro  la  scura 
Eternità  rimbomba,  e  paurosa 
Fa  del  suo  regno  dubitar  Natura:- 
EIran  queste  le  Dee ,  che  lamentosa 

Fean  corona  alla  spoglia ,  che  d^un  tanto 
Spirto,  di  vita  nel  cammin,  fii  sposa. 
Ecco  il  cor,  dicea  Puna,  in  che  si  santo. 
Sì  fervido  del  giusto  arse  il  desiro: 
E  la  man  pose  al  core,  e  ruppe  in  pianto. 
Ecco  la  dotta  fironte,  onde  s*  aprirò 
Sì  profondi  pensieri,  un^ altra  disse: 
E  la  fironte  toccò  con  un  sospiro. 
Ecco  la  destra,  ohimè  !  che  li  descrisse, 
Vem'a  sclamando  im^ altra:  e  baci  ardenti 
Su  la  man  fi*edda  singhiozzando  affisse. 
Poggia  intanto  quell^  alma  iaJle  lucenti 

Sideree  rote,  e  or  questa  spera,  or  quella 
Di  sua  luce  Y  invita  entro  i  torrenti. 
Vieni,  dicea  del  terzo  ciel  la  stella: 

Qui  di  Valchiusa  è  il  cigno,  e  meno  altera 
La  sua  donna  con  seco,  e  assai  più  bella ^ 


CANTO    PRIMO  ^77 

Qui  di  Bice  il  cantor,  qui  P  altra  schiera 

De^yati  amanti^  e  tu,  cantor  lodato 

D^un^  altra  Lesbia  ',  ascendi  alla  mia  spera. 
Vien,  di  Giove  dicea  F astro  lunato: 

Qui  riposa  quel  grande  che  su  TAmo 

Me  di  quattro  pianeti  ha  coronato. 
Vien  quegli  occhi  a  mirar,  che  il  ciel  spiamo 

Tutto  quanto^  e,  lui  visto,  ebber  disdegno 

Veder  oltre  la  terra,  e  s'  oscuramo  •. 
Tu,  che  dei  raggi  di  quel  divo  ingegno 

Filosofando  ornasti  i  pensier  tui, 

Vien^  tu  con  esso  di  goder  se^  degno. 
Ma  di  rincontro  folgorando  i  sui 

Tabernacoli  d^oro  apriagli  il  Sole^ 

E  vieni ,  ei  pur  dicea,  resta  con  nui. 
Io  son  la  mente  della  tt^rrea  mole , 

10  la  vita  ti  diedi,  io  la  favilla 

Che  in  te  trasfuse  la  Giapezia  prole. 
Rendimi  dunque  V  immortai  scintilla 

Che  tua  salma  animò  ^  nelle  regali 

Tende  rientra  del  tuo  padre,  e  brilla. 
D^  Italo  nome  troverai  qui  tali 

Che  deU^  uman  sapere  archimandriti 

Ài  tuo  pronto  intelletto  impennar  Tali. 
Colui  che  strinse  ne^suoi  specchi  arditi 

Di  mia  luce  gli  strali,  e  fé  parere 

Cari  a  Marcello  di  Sicilia  i  liti  : 
Primo  quadrò  la  curva  dal  cadere  « 

De^projetti  creata,  e  primo  vide 

11  contener  delle  contente  sfere  ^. 
Seco  è  il  Calabro  antico  ^,  che  precide 

.  Alle  mie  rote  il  giro,  e  del  mio  figlio 
La  sognata  caduta  ancor  deride. 
Qui  Gassin,  che  in  me  tutto  aflisse  il  ciglio^ 
Fortunato  così ,  cV  altri  giammai 
Non  fé  più  bello  del  veder  periglio 


s 


Monti.  Poemetti.  >8 


aj8  IN    MORTE    DI    LORENZO    MASCHERONI 

Qui  Bianchii!,  qui  Riccioli,  ed  altri  assai 
Del  ciel  conquistatori,  ed  Orì'ano, 
L^  amico  tuo,  qui  assunto  un  dì  vedrai  ^ 

Lui  che  primiero  dellMntatto  Urano  ^ 
Co' numeri  frenò  la  via  segreta, 
Orian  degli  astri  indagator  sovrano. 

Questi  dal  centro  del  maggior  pianeta 
Uscian  richiami,  e:  Vieni,  anima  dia, 
Par  eh'  ogni  stella  per  lo  ciel  rìpeta. 

Sì  dolce  udiasi  in  tanto  un'armonia. 
Che  qual  più  dolce  suono  arpa  produce, 
Di  lavoro  mortai  mugghio  saria. 

E  il  Sol  sì  viva  saettò  la  luce, 

Che  il  più  puro  tra  noi  giorno  sereno 
Notte  agli  occhi  saria  quando  è  più  truce. 

Qual  tra  miUe  foretti  in  prato  ameno, 
Vago  parto  d' aprii,  la  fanciulletta, 
Disìosa  d'ornar  le  tempia  e  il  seno, 

Or  su  questo,  or  su  quel  pronta  si  getta, 
Vorria  tutti  predarli,  e  li  divora 
Tutti  con  gli  occhi  ingorda  e  semplicetta: 

Tal  quell'  alma  trasvola,  e  s'innamora 

Or  di  quel  raggio  ed  or  di  questo,  e  brama 
Fruir  di  tutti,  e  niun  l'acqueta  ancora; 

Perocché  più  possente  a  sé  la  chiama 
Cura  d'  amore  di  quei  cari  in  traccia, 
Che  amò  fra'  vivi ,  e  più  fra  gli  astri  or  ama. 

Ella  di  Bord»7  e  Spallanzan  la  faccia, 
E  di  Parin  sol  cerca;  ed  ogni  spera 
N'inchiede,  e  prega  che  di  lor  non  taccia. 

Ed  ecco  a  suo  rincontro  una  leggiera 
Lucida  fiamma  che  nel  grembo  porta 
Una  dell'  alme  di  cui  fea  preghiera. 

Qual  fti  suo  studio  in  terra,  iva  l'accorta 
Misurando  del  cielo  alle  vedette 
L'arco  che  l'ombra  fa  cader  più  corta. 


CANTO  PRIMO  a^g 

Oh  mio  Loreozo  !  —  Oh  Borda  mio  !  Fur  dette 
Queste,  e  non  più,  per  lor,  parole:  il  resto 
Disser  le  braccia  al  collo  avvinte  e  strette. 

—  Pur  ti  trovo.  —  Pur  giungi.  —  Io  piansi  mesto 
L^  amara  tua  partita,  e  su  latino 

Non  vii  plettro  il  mio  duol  fu  manifesto. 

—  Io  di  quassù  r  intesi ,  o  pellegrino 
Canoro  spirto,  e  desiai  che  ratto 
Fosse  il  voi  che  dovea  farti  divino. 

—  Anzi  tempo ,  lo  vedi ,  fu  disfatto 

Laggiù  il  mio  frale.  —  Il  veggo,  e  nondimeno 

tf  Qual  di  te  lungo  qui  aspettar  s^  è  fatto  !  n  — 
Cosi  confusi  r  un  delP  altro  in  seno , 

E  alternando  il  parlar,  spinser  le  piume 

Là  dove  fa  la  Lira  il  ciel  sereno^ 
D^  Orfeo  la  Lira,  che  il  paterno  nume 

D^  auree  stelle  ingemmò,  mentre  volgea 

Sanguinosa  la  testa  il  tracio  fiume  : 
E,  misera  Euridice!  ancor  dicea 

L^  anima  fuggitiva^  ed  Euridice, 

Euridice,  la  ripa  rispondea. 
Conversa  in  astro  quella  cetra,  elice 

Si  dolci  i  suoni  ancor,  che  la  dannata 

Gente,  gli  udendo,  si  faria  felice. 
Giunte  a  quell^onda  d^  armonia  beata 

Le  due  celesti  peregrine ,  un^  alma 

Scoprir,  che  grave  al  suon  si  gode  e  guata: 
Sovra  un  lucido  raggio  assisa  in  calma, 

L^un  su  r altro  il  ginocchio,  e  su  i  ginocchi 

L' una  nell^  altra  delle  man  la  palma. 
Torse  ai  due  che  venieno,  i  fulgid^ occhi. 

Guardò  Lorenzo,  e  in  lei  del  caro  aspetto 

Destarsi  i  segni  dall'  obblio  non  tocchi. 
Non  assurse  però^  ma  con  diletto 

La  man  protese,  e  balenò  d^un  riso 

Per  la  memoria  dell^  antico  aifetto. 


a80  ut  MORTE  DI  LORENZO  MASCHERONI 

E:  Ben  giunto,  lui  disse ^  alfin  diviso 

Ti  se^  dal  mondo ,  da  quel  mondo ,  u^  solo 
Lieta  è  la  colpa,  ed  il  pudor  deriso. 

Dopo  il  tuo  dipartir  dal  patrio  suolo, 
Io  misero  Parini  il  fianco  venni 
Grave  d'  anni  traendo  e  più  di  duolo. 

E  poich^  oltre  veder  più  non  sostenni 
Della  patria  lo  strazio  e  la  mina, 
Bramai  morire,  e  di  morire  ottenni. 

Vidi  prima  il  dolor  della  meschina , 
Di  cotal  nuova  libertà  vestita, 
Che  liberta  nomossi,  e  fu  rapina. 

Serva  la  vidi,  e  ohimè  !  serva  schernita , 
E  tutta  piaghe  e  sangue  al  ciel  dolersi 
Che  i  suoi  pur  anco ,  i  suoi  V  avean  tradita. 

Altri  stolti,  altri  vili,  altri  perversi. 
Tiranni  molti,  cittadini  pochi, 
E  i  pochi  o  muti  o  insidiati  o  spersi. 

Inique  leggi ,  e  per  crearle ,  rochi 
Su  la  tribuna  i  gorgozzuli,  e  in  giro 
La  Discordia  co^  mantici  e  co^  fuochi  ^ 

E  r  Orgoglio  con  lei,  FOdio,  il  Deliro , 
L^ Ignoranza,  V  Error,  mentre  alla  sbarra 
Sta  del  popolo  il  Pianto  ed  il  Sospiro. 

Tal  s^  allaccia  in  senato  la  zimarra , 

Che  d^  elleboro  ha  d^  uopo  e  d^  esorcismo  ^ 
Tal  vi  tuona  che  il  callo  ha  della  marra  ^ 

Tal  vi  trama,  che  tutto  è  parossismo 
Di  delfica  mama,  vate  più  destro 
La  calunnia  a  filar  che  il  sillogismo  : 

Vile!  E  tal  altro,  del  rubar  maestro, 
A  Gaton  si  pareggia ,  e  monta  i  rostri 
Scappato  al  remo  e  a)  tiberin  capestro. 

Oh  iniqui!  E  tutti  in  arroganti  inchiostri 
Parlar  virtude,  e  sé  dir  Bruto  e  Gracco, 
Genuzj  essendo.  Saturnini  e  mostri. 


CANTO   PRDffO  a8l 

Colmo  era  in  somma  derelitti  II  sacco  ^ 
In  pianto  il  giusto ,  in  gozzoviglia  il  ladro, 
E  i  Bruti  a  desco  con  Ciprigna  e  Bacco. 

Venne  il  nordico  nembo ,  e  quel  leggiadro 
Viver  sommerse  :  ma  novello  stroppio 
La  patria  n^  ebbe ,  e  V  ultimo  soqquadro. 


Nella  fiumana  di  tanta  nequizia, 

Deh!  trammi  in  porto,  io  dissi  al  mio  Fattore^ 
Ed  ei  m^  assunse  allMmmortal  letizia. 

Né  il  guardo  vinto  dal  veduto  orrore 
Più  rivolsi  laggiù,  dove  soltanto 
S^  acquista  libertà  quando  si  muore. . 

Ma  tu,  che  approdi  da  quel  mar  di  pianto, 
Che  rechi?  Italia  che  si  fa?  Cartiglia 
L^ aquila  ancora?  O  pur  del  suo  gran  manto 

Tornò  la  madre  a  ricoprir  la  figlia  ? 

E  Francia  intanto  è  seco  in  pace?  O  in  rio 
Givil  furore  ancor  la  si  periglia? 

Tacquesi^  e  tutta  la  pupilla  aprio 

Incontro  alla  risposta  alzando  il  mento^ 
Compose  V  altro  il  volto ,  e  quel  desio 

Fé  del  seguente  ragionar  contento. 


CANTO  SECONDO 


Pace,  austero  Intelletto.  Un^ altra  volta 

Salva  è  la  patria:  un  nume  entro  le  chiome 
La  man  le  pose,  e  lei  dal  fango  ha  tolta. 

Bonaparte. ..  ^  Rizzossi  a  tanto  nome 
L^  accigliato  Parini,  e,  la  severa 
Fronte  spianando,  balenò,  siccome 

Raggio  di  Sole  che,  rotta  la  nera 

Nube ,  nel  fior  che  già  parca  morisse , 
Desta  il  riso  e  Tamor  di  primavera. 

Il  suo  labbro  tacca  ^  ma  con  le  fisse 
Luci ,  e  con  gli  atti  dell'  intento  volto , 
Tutto,  tacendo,  quello  spirto  disse. 

Sorrise  V  altro  ^  e  poscia  in  sé  raccolto  : 
Bonaparte,  seguia,  deUa  sua  figlia 
Giurò  la  vita,  e  il  suo  gran  giuro  ha  sciolto. 

Sai  che  col  senno  e  col  valor  la  briglia 
Messo  alla  gente  avea  che  si  rinserra 
Tra  la  libica  sponda  e  la  vermiglia. 

Sai  che  il  truce  Ottomano  e  d' Inghilterra 
L'avaro  traditor,  che  secco  II  fonte 
Già  dell'auro  temea  ch'India  disserra, 

Congiurati  in  suo  danno  alzar  la  fronte, 
E  denso  di  ladroni  im  nembo  venne 
Dall'  Eufrate  ululando  e  dall'  Oronte. 

Egli  mosse  a  rincontro,  e  noi  rattennc 
Il  mar  della  bollente  araba  sabbia^ 
I  vortici  sfidonne  e  li  sostenne. 


IN  MORTE  DI  L.  MASCHERONI,  CANTO  SECONDO  283 

Domò  del  folle  assalitor  la  rabbia  *, 

laffa  e  Gaza  croUamo,  e  in  Ascalona 

Il  britanno  fellon  morse  le  labbia. 
Ciò  che  il  prode  fé  poi,  sallo  Esdrelona, 

Sallo  il  Taborre,  e  Fonda  che  sul  dorso 

Sofferse  asciutto  il  pie  di  Bariona. 
Sallo  il  fiume  che  corse  un  di  retrorso, 

E  il  suol  dove  Maria,  siccome  è  grido, 

DelPuomo  partorì  Paltò  soccorso. 
Doma  del  Siro  la  baldanza,  al  lido 

Folgorando  tornò ,  che  al  doloroso 

Di  Cesare  rivai  fii  si  mal  fido; 
E  di  lunate  antenne  irto  e  selvoso 

Del  funesto  Àbukir  rivide  il  flutto , 

E  tant^  oste  che  il  piano  avea  nascoso. 
Ivi  il  firanco  Alessandro  il  firesco  lutto 

Vendicò  della  patria,  e  Tonde  infece 

Di  barbarico  sangue,  sì  che  tutto 
Coprì  la  strage  il  lido,  e  lido  fece. 

Quei  che  il  ferro  non  giunse,  il  mar  sommerse, 

E  d^  ogni  mille  non  campar  li  diecc. 
Ahi  gioje  umane  d^  amarezza  asperse  ! 

Suonò  fira  la  vittoria  orrendo  avviso, 

Che  in  doglia  il  gaudio  al  vincitor  converse. 
Narrò  V  infamia  di  Scherer  conquiso , 

E  dal  Turco ,  dall^  Unno  e  dallo  Scita 

Desolato  d^  Italia  il  paradiso. 
Narrò  da  pravi  cittadin  tradita 

Francia,  e  senza  consiglio  e  senza  polo 

Del  governo  la  nave  andar  smarrita. 
Prima  assalse  FEroe  stupore  e  duolo. 

Poi  dispetto  e  magnanimo  disdegno , 

E  ne  scoppiò  da  cento  affetti  un  solo  : 
La  vendetta  scoppiò,  quella  che  segno 

Fu  di  Camillo  all'ire  generose, 

E  di  lui  che  crollò  de'  trenta  il  regno. 


384  ^   KORTE  DI  LORENZO  MASCHERONI 

Così  partissi ,  e  al  suo  partir  si  pose 
Un  vel  la  Sorte  d'Oriente^  e  Puma 
Che  d'Asia  i  fati  racchiudea^  nascose. 
Partissi^  e  di  là,  dove  alla  diurna 

Lampa  il  corpo  perd'  ombra ,  la  Fortuna 
Con  lui  mosse  fedele  e  taciturna^ 
E  nocchiera  s' assise  in  su  la  bruna 
Poppa,  che  grave  di  cotanta  spene 
Già  di  Libia  fendea  P  ampia  Iag:una. 
Innanzi  vola  la  Vittoria,  e  tiene 

In  man  le  palme  ancor  fumanti ,  e  sparse 
Della  polve  di  Memfi  e  di  Siene. 
La  sentir  da  lontano  approssimarse 
Le  gaUiche  falangi,  ed  ogni  petto 
DeU'  antico  valor  tosto  riarse. 
Ella  giunse,  e  a  Massena,  al  suo  diletto 
Figlio  grido:  Son  teco.  Elvezia  e  Francia 
Udir  quel  grido,  e  serenar  P aspetto. 
L' Istro  udillo ,  e  tremò.  La  franca  lancia 
Ruppe  gli  ungari  petti,  e  si  percosse 
Il  vinto  Scita  per  furor  la  guancia. 
^  L'udir  le  rive  di  Batavia,  e  rosse 
D'  ostil  sangue  fumar  ^  e  nullo  forse 
De' nemici  rediva  onde  si  mosse  ^ 
Ma  vii  patto  il  fiaccato  Anglo  soccorse  : 
Frutto  del  suo  valor  non  coke  intero 
Gallia,  ed  obblicpo  il  guardo  Olanda  torse. 
Carca  frattanto  del  fatai  guerriero 
Il  lido  afferra  la  felice  antenna: 
Ne  stupisce  ogni  sguardo,  ogni  pensiero. 
Levossi  per  vederlo  alto  la  Senna, 
E  mostrò  le  sue  piaghe.  Egli  sanolle. 
Né  il  come  lo  diria  lingua  né  penna. 
Ei  la  salute  della  patria  volle, 

E  potè  ciò  che  volle,  e  al  suo  volere 
Fu  norma  la  virtù  che  in  cor  gli  bolle. 


GAinro  sEGOHDo  a85 

Ftt  di  pietoso  cittadin  dovere, 

Fu  carità  di  patria,  a  cui  già  morte 

Cinque  tiranni  avean  le  forze  intere. 
Fine  agli  odii  promise  :  e  di  ritorte 

Fu  catenata  la  Discordia,  e  tutte 

Della  rabbia  civil  chiuse  le  porte. 
Fin  promise  al  rigore:  e  ricondutte 

Le  mansuete  idee,  giustizia  rise 

Su  le  sentenze  del  furor  distrutte. 
Verace  e  saggia  libertà  promise: 

E  i  delirii  fur  queti ,  e  senza  velo 

Secura  in  trono  la  Ragion  s^  assise. 
Gridò  guerra:  e  per  tutto  il  franco  cielo 

Un  fremere,  un  tuonar  d'armi  s'intese 

Che  al  nemico  portò  per  V  ossa  il  gelo. 
Invocò  la  vittoria:  ed  eUa  scese 


Finalmente  d' un  Dio  preso  il  sembiante  : 
Apriti,  o  alpe,  ei  disse:  e  Talpe  aprissi^ 
E  tremò  dell'Eroe  sotto  le  piante. 

E  per  le  rupi  stupefatte  udissi 

Tal  d' armi ,  di  nitriti  e  di  timballi 
Fragor,  che  tutti  ne  muggian  gli  abissi. 

Liete  da  lungi  le  lombarde  valli 

Risposero  a  quel  mugghio,  e  fiumi  intanto 
Scendean  d'  aste ,  di  bronzi  e  di  cavalli. 

Levò  la  fronte  Italia ,  e  in  mezzo  al  pianto 
Che  amaro  e  largo  le  scorrea  dal  ciglio, 
Garca  di  ferri  e  lacerata  il  manto: 

Pur  venisti,  gridava,  amato  figlio^ 
Venisti,  e  la  pietà  delle  mie  pene 
Del  tuo  duro  cammin  vinse  il  perìglio. 

Questi  ceppi  rimira,  e  queste  vene 
Tutte  quante  solcate.  E  sì  parlando, 
Scosse  i  polsi,  e  suonar  fé  le  catene. 


286  IN   MORTE   DI   LORENZO   MÀSCHERONi 

Non  rispose  V  Eroe,  ma  trasse  il  brando, 
E  alla  vendetta  del  materno  a£Bamno 
In  Marengo  discese  fiilminando. 

Mancò  alle  stragi  il  campo  ^  V  alemanno 
Sangue  ondeggiava,  e  d'on  sol  dì  la  sorte 
Valse  di  sette  e  sette  lune  il  danno. 

Dodici  rócche  aprir  le  ferree  porte 
In  un  sol  punto  tutte,  e  gUrlandomo 
Dodici  lauri  in  un  sol  lauro  il  Forte. 

Cosi  a  noi  fece  libertà  ritomo.  — 

Libertade?  interruppe   aspro  il  cantore 
Delle  tre  parti  in  che  si  parte  il  giorno: 

Libertà?  di  che  guisa?  ancor  V  orrore 
Mi  dura  deUa  prima,  e  a  cotal  patto 
Chi  vuol  firanca  la  patria,  è  traditore. 

À  che  mani  è  commesso  il  suo  riscatto  ? 
Libera  certo  il  vincitor  lei  vuole. 
Ma  chi  conduce  il  buon  volere  all^atto? 

Altra  volta  pur  volle,  e  fìir  parole^ 
Ghè  con  ugna  rapace  arpie  digiune 
Fero  a  noi  ciò  che  Progne  alla  sua  prole. 

Dal  calzato  aUo  scalzo  le  fortune 
Migrar  fur  viste,  e  libertà  divenne 
Merce  di  ladri  e  furia  di  tribune. 

y^eran  leggi ^  il  gran  patto  era  solenne^ 
Ma  fu  calpesto.  Si  trattò^  ma  franse 
L^asta  il  trattato,  e  servi  ne  ritenne. 

Pietà  gridammo^  ma  pietà  non  transe 
Al  cor  de^ Cinque^  di  più  ria  catena 
Ne  gravamo  i  crudeli,  e  invan  si  pianse. 

Vota  il  popol  per  fame  avea  la  vena; 
E  il  viver  suo  vedea  fuso  e  distrutto 
Da^  suoi  pieni  tiranni  in  una  cena. 

Squallido,  macro  il  buon  soldato,  e  brutto 
Di  polve,  di  sudor,  di  cicatrici 
Chicdea  plorando  del  suo  sangue  il  frutto. 


CANTO   SBCOHDO  287 

Ma  r  ingliiottono  Parche  voratrici 

Di  onnipossenti  duci ,  e  gV  ingordi  alvi 

Di  questori^  prefetti  e  meretrici. 
Or  di:  conte  all^Eroe  che  ancor  n^ha  salvi, 

Son  queste  colpe?  e  rifaran  gP Insubri 

Le  tolte  chiome,  o  andran  più  mozzi  e  calvi? 
Verran  giorni  più  lieti,  o  più  lugubri? 

Ed  egli  il  gran  campione  è  come  pria 

Circuito  da  vermi  e  da  colubri? 
Sai  come  si  arrabatta  csla  gema, 

Che  ambiziosa,  obbliqua  entra  e  penetra, 

E  fora,  e  s^apre  ai  primi  onor  la  via. 
Di  Nemi  il  galeotto,  e  di  Libetra 

Certo  rettile  sconcio,  che  supplizio 

Di  dotti  orecchi  cangiò  V  ago  in  cetra  ^ 
E  quel  sottile  Ravegnan  patrizio 

Si  di  frodi  perito ,  che  Brunello 

Saria  tenuto  un  Mummio  ed  un  Fabrizio , 
Come  in  alto  levarsi,  e  fìir  flagello 

Della  patria  !  Oh  Licurghi  !  oh  Cisalpina, 

Non  matrona,  ma  putta  nel  bordeUo! 
Tacque^  e  V  altro  riprese:  La  divina 

Virtù  che  informa  le  create  cose , 

Ed  infiora  la  valle  e  la  collina , 
D^  acute  spine  circondò  le  rose. 

Ed  accanto  al  frumento  e  al  cinnamomo 

L^  ispido  cardo  e  la  cicuta  pose. 
Vedi  il  rio  vermicel  che  guasta  il  pomo, 

Vedi  misti  i  sereni  alle  procelle 

Alternar  V  allegrezza  e  il  pianto  alP  uomo. 
Penuria  non  fu  mai  d^  anime  felle  ^ 

Ma  dritto  guarda,  amico,  ed  abbondante 

Pur  la  patria  vedrai  d^  anime  belle. 
Ve^  quante  Olona  ne  fan  lieta ,  e  quante 

Val-di-Pado,  Panaro  e  il  picciol  Reno; 

Picciolo  d^onde  e  di  valor  gigante. 


288  IN  MORTE  DI  LORENZO  MASCHERONI 

Reggio  ancor  non  obblia  che  dal  suo  seno 
La  favilla  scoppiò ,  d^  onde  primiero 
Di  nostra  libertà  corse  il  baleno. 

Mostrò  Bergamo  mia  che  puote  il  vero 
Amor  di  patria,  e  lo  mostrò  V  ardita 
Brescia,  sdegnosa  d^ogni  vii  pensiero. 

Né  d^  onorati  spirti  inaridita 

In  Emilia  pur  anco  è  la  semenza^ 
Sterpane  i  bronchi,  e  la  vedrai  fiorita. 

Molti  iniqui  fur  posti  in  eminenza, 

E  il  saran  altri  ancor  ^  ma  chi  gli  estolle 
Forse  è  Quei  che  vede  oltre  all^  apparenza? 

Mira  r  astro  del  di.  Siccome  volle 

n  suo  Fattore,  ei  brilla,  e  solve  il  germe 
Or  salubre,  or  maligno  entro  le  zolle. 

Su  le  sane  sostanze  e  sulle  inferme 
Benefico  del  par  gli  sguardi  abbassa; 
E  s^  uno  al  fior  dà  vita  e  V  altro  al  verme , 

Ciò  vien  dal  seme  che  la  terrea  massa 
Diverso  gli  appresenta:  egli  sublime 
E  discolpato  lo  feconda  e  passa. 

Or  procede  alle  tue  dimande  prime 
La  mia  risposta.  Di  saper  ti  giova 
Se  fia  scevra  d^  affanno  e  senza  crime 

La  nuova  libertade ,  o  se  per  prova 
Sotto  il  sacro  suo  manto  un^  altra  volta 
Rapina,  insulto  e  tirannia  si  cova. 

Dirò  verace.  E  dir  volea;  ma  tolta 
Da  portentosa  vision  gli  fìie 
La  voce  che  dal  labbro  uscia  già  sciolta. 

Il  trono  apparve  dell^ Etemo,  e  due 
Gli  erano  al  fianco  Gherubin  sospesi 
Su  le  penne,  già  pronti  a  calar  giue. 

L^uno  in  sembianti  di  pietade  accesi; 
Si  terribile  F altro  alla  figura, 
Ghe  n^  eran  gli  astri  di  spavento  offesi. 


CANTO    SECONDO  289 

Verde  qual  prona  non  ancor  matura 

Cinge  il  primo  la  stola,  e  qoal  di  cigno 

Apre  la  piuma  biancheggiante  e  pura. 
Ondeggiavano  all^  altro  di  sanguigno 

Color  le  yestimenta ,  e  tinto  avea 

11  remeggio  dell^  ali  in  ferrugigno. 
Quegli  d^  olivo  un  ramoscel  tenea , 

Questi  un  brando  rovente^  e  fisso  i  lumi 

In  Dio  ciascun,  palpebra  non  battea. 
Dal  basso  mondo  alla  città  de^numi 

Voci  intanto  saUan  gridando:  Pace, 

Col  sonito  che  fan  cadendo  i  fiumi. 
Pace  la  Senna,  pace  FElba,  pace 

Iterava  Flbero^  ed  alla  terra 

Rispondean  pace  i  cieli,  pace,  pace. 
Ma  guerra  i  lidi  d^ Albione,  e  guerra 

D^  inferno  i  mostri  replicar  s^  udirò , 

E  r  inferno  era  tutto  in  Inghilterra. 
Sedea  tranquillo  V  increato  Spiro 

Su  r  immobile  trono,  e  tremebondo 

Dal  suo  cenno  pcndèa  V  immenso  empirò. 
La  gran  bilancia,  su  la  qual  profondo 

E  giusto  libra  V  uman  fato,  intanto 

Iddio  solleva,  e  ne  vacilla  il  moiido. 
Quinci  i  sospiri,  le  catene,  il  pianto 

De^  mortali  ponea  ^  quindi  versava 

De^ mortali  i  delitti,  e  a  nessun  canto 
La  tremenda  bilancia  ancor  piegava. 

Quando  due  donne  di  contrario  affetto 

Levarsi,  e  ognuna  di  parlar  pregava. 
Chi  si  fur  elle,  e  che  per  lor  fu  detto , 

Se  mortai  labbro  di  ridirlo  è  degno, 

L^  udrà  chi  al  mio  cantar  prende  diletto 
Nel  terzo  volo  dell'  acceso  ingegno. 


CANTO  TERZO 


Due  virtù  che  nimiche  e  in  un  sorelle 
L^una  grida  rigor,  P altra  perdono, 
Gare  entrambe  di  Dio  figlie  ed  ancelle, 
Ritte  in  pie,  dell^ Etemo  innanzi  al  trono, 
Ecco  a  gran  lite.  Ad  ascoltarle  intenti 
Lascian  Parpe  i  Celesti  in  abbandono. 
Lascian  le  sacre  danze,  e  su  lucenti 
Di  crisolito  scanni  e  di  berillo 
Si  locar  taciturni  e  riverenti. 
D^  ogni  parte  quetato  era  lo  squillo 
Delle  angeliche  tube,  il  tuon  dormiva, 
E  il  fulmine  giacca  freddo  e  tranquillo. 
Allor  Giustizia,  inesorabil  diva, 
Incominciò:  Sire  del  ciel,  che  libri 
Nell^  alta  tua  tremenda  estimativa 
Le  scelleranze  tutte,  «  a  tutte  vibri 
Il  suo  castigo  :  e  fino  a  quando  inulti 
Fian  d^  Europa  i  misfatti ,  e  di  ludibri 
Carco  il  tuo  nume  ?  Ve^  tu  come  insulti 
L'umano  seme  a  tua  boutade,  e  ingrato 
Del  par  che  stolto  nella  colpa  esulti  7 


Di  propria  man  squarciata  intanto  langue 
La  peccatrice  Europa,  ed  Anglia  cruda 
L' onor  ne  compra,  e  coli'  onore  il  sangue. 


IN   MORTE    DI    L.    MASCHERONI,    CINTO    TERZO  VL^l 

Per  lei  Megera  nellMnfemo  suda 

Armi  esecrate,  per  lei  toschi  mesce  ^ 

Suo  brando  è  Poro,  ed  il  suo  Marte,  Giuda. 
Che  di  Francia  direm?  A  che  riesce 

De^suoi  sublimi  scuotimenti  il  fratto  ? 

Mira  che  agli  altri  e  a  sé  medesma  incresce. 
Potea  col  senno  e  col  valor  far  tutto 

Libero  il  mondo,  e  il  fece  di  tremende 

Follie  teatro ,  e  lo  copri  di  lutto. 
Libertà  che  alle  belle  alme  s^ apprende, 

Le  spedisti  dal  ciel,  di  tua  divina 

Luce  adomata  e  di  virginee  bende; 
Vaga  si  che  né  greca  né  latina 

Riva  mai  vista  non  P  avea  giammai 

Di  più  cara  sembianza  e  pellegrina. 
Commossa  al  lampo  di  queMolci  rai 

Ridea  la  terra  intomo,  ed:  Io  t^ adoro, 

Dir  pareva  ogni  core;  io  ti  chiamai. 
Nobll  fierezza,  matronal  decoro , 

Candida  fede,  e  tutto  la  segma 

Delle  smarrite  virtù  prische  il  coro; 
E  maestosa  al  fianco  le  venia 

Ragion  d^  adamantine  armi  vestita 

Con  la  nemica  delP  error  Sofia. 
Allor  mal  ferma  in  trono  e  sbigottita 

La  Tirannia  tremò  ;  parve  del  mondo 

Allor  r  antica  servitù  finita. 
Ma  tutte  pose  le  speranze  al  fondo 

La  delira  Parigi,  e  libertate 

Lì  Erinni  cangiò  ',  che  fìiribondo 
Spiegò  r artiglio,  e  prime  al  suol  troncate 

Gadder  le  teste  de^  suoi  figli ,  e  quante 

Fur  più  sacre  e  famose  ed  onorate. 
Poi  divenuta  in  suo  furor  gigante, 

L^  orribil  capo  fra  le  nubi  ascose , 

E  tentò  porlo  in  ciel  la  tracotante; 


293  DI  MORTE    DI  LORENZO   lUSGHBROEfl 

E  gli  sdegni  imitarne,  e  le  nembose 
Folgori  e  i  tuoni,  e  culto  ambir  divino 
Fra  le  genti ,  d' orror  mute  e  pensose. 

Tutta  allor  mareggiò  di  cittadino 

Sangue  la  Gallia,  ed  in  quel  sangue  il  dito 
Tinse  il  ladro,  il  pezzente  e  P assassino^ 

E  in  trono  si  locò  yile  marito 
Di  più  vii  libertà,  che  di  delitti 
Sitibonda  ruggia  di  lito  in  lito. 

Quindi  proscritte  le  città ,  proscritti 
Popoli  interi,  e  di  taglienti  scuri 
Tutte  ingombre  le  piazze,  e  di  trafitti. 

O  voi  che  state  ad  ascoltar,  voi  puri 

Spirti  del  ciel,  cui  veggio  al  rio  pensiero 
Farsi  i  bei  volti  per  pietade  oscuri; 

Che  cor  fu  il  vostro  allor  che  per  sentiero 
D^  orrende  stragi  inferocir  vedeste 
E  strugger  Francia  un  solo,  un  Robespiero? 

Tacque  ;  e  al  nome  crudel  su  P.auree  teste 
Si  sollevar  le  chiome  agPImmortali, 
Frementi  in  suon  di  nembi  e  di  tempeste. 

Gli  Angeli  il  volto  si  velar  coU^  ali , 
E  sotto  ai  piedi  onnipossenti  irato 
Mugolò  il  tuono,  e  fiammegiàr  gli  strali. 

E  già  bisbiglia  il  ciel,  già  d^ogni  lato 
Grida  vendetta,  e  vendetta  iterava 
Deir  Olimpo  il  convesso  interminato. 

Garca  d^ire  celesti  cigolava 

De^fati  intanto  la  bilancia,  e  Dio, 
Dio  sol  si  stava  immoto  e  riguardava. 

Surse  allor  la  Pietade  ;  e  non  aprio 
Il  divin  labbro  ancor ,  che  già  tacea 
Di  queir  ire  tremende  il  mormorio. 

Gol  dolce  strale  d^  un  sol  guardo  avea 
Già  conquiso  ogni  petto.  In  questo  dire . 
La  rosea  bocca  alfin  sciolse  la  dea: 


CINTO   TERZO  !Xgì 

Alte  in  mezzo  de' giusti  odo  salire 

Di  vendetta  le  grida,  ed  io  domando 

Anch'  io  vendetta,  sempiterno  Sire. 
Anch'io  cacciata  dai  potenti  in  bando 

Batto  indamo  ai  lor  cuori,  e  inesaudita 

Vo  scorrendo  la  terra  e  lagrimando. 
Ma  se  i  regnanti  han  mia  ragion  tradita , 

Perchè  la  colpa  de' regnanti,  o  Padre, 

Negl'innocenti  popoli  è  punita? 
Perchè  tante  perir  misere  squadre 

Per  la  causa  de'  vili  ?  Ahi!  caro  i  crudi 

Fanno  il  sacro  costar  nome  di  madre. 
Peccò  Francia,  gli  è  ver^  ma  spenti  i  drudi 

D' insana  libertà,  perchè  in  suo  danno 

Gemono  ancora  le  nimiche  incudi? 
Dunque  eteme  laggiù  l' ire  saranno  ? 

E  solo  al  pianto  in  avvenir  le  spose, 

Solo  al  ferro  e  al  furor  partoriranno? 
Dunque  Europa  le  guance  lagrimose 

Porterà  sempre?  E  per  chi  poi?  Per  una, 

Per  due,  per  poche  in  somma  alme  orgogliose. 
Taccio  il  nembo  di  duol  che  denso  imbruna 

Tutto  d'  Olanda  il  ciel,  taccio  il  lamento 

Della  prostrata  elvetica  fortuna. 
Ma  l' affanno  non  taccio  e  il  tradimento 

Che  Italia  or  grava ,  Italia  in  cui  natura 

Fé  tanto  di  bellezza  esperimento. 
Duro  il  servaggio  la  premea  ^  più  dura 

Una  sognata  libertà  la  preme. 

Che  colma  de' suoi  mali  ha  la  misura. 
Su  i  cruenti  suoi  campi  più  non  freme 

Di  Marte  il  tuono ^  ma  che  vai,  se  in  pace 

Pur  come  in  guerra  si  sospira  e  geme? 
Prepotente  rapina  alla  vorace 

Squallida  fame  spalancò  le  porte, 

E  chi  serrarle  le  dovea  si  tace. 
Monti.  Poemetti.  19 


'ÌC)\  IN   MORTE    DI   LORENZO   MASCHERONI 

Meglio  era  pur  dal  ferro  aver  la  morte, 
Che  spirar  nudo  e  scarno  e  derelitto 
Tra  i  famelici  figli  e  la  consorte. 

Deh  sia  fine  al  furor ,  fine  al  delitto , 
Fine  ai  pianti  mortali,  e  della  spada 
Pera  una  Tolta  e  de^ tiranni  il  dritto! 

Paghi  di  sangue  chi  vuol  sangue,  e  cada^ 
Ma  r  innocente  viva,  e  dell^ oppresso 
Il  sospiro,  o  Signor,  ti  persuada. 

La  Dea  qui  ruppe  il  suo  parlar,  con  esso 
Le  lagrime  sul  ciglio^  e  chi  per  questa. 
Chi  per  quella  fi-emea  V  alto  consesso  , 

Qual  freme  d^aquilon  chiuso  in  foresta 
Il  primo  spiro ,  allor  che  ciechi  aggira 

I  susurri  forier  della  tempesta. 
Mentre  vario  il  favor  ne^  petti  ispira 

Desì'anze  diverse,  incerto  ognuno 
Qual  fia  vittrice,  la  clemenza  o  Pira; 
Del  ciel  cangiossi  il  volto  e  si  fé  bruno , 
E  caligine  in  cerchio  orrenda  e  folta 

II  trono  avvolse  dell^  Etemo  ed  Uno. 
E  una  voce  n'uscì  che  F ardua  volta 

DelP  Olimpo  intronava.  Attenta  e  muta 
Trema  natura  e  la  gran  voce  ascolta. 

Cieli ,  udite ,  odi ,  o  terra ,  V  assoluta 
Di  Die  parola.  Tu  che  Paho  spegni 
Patrio  delirio,  e  Francia  hai  restituta; 

Tu  che  vincendo  moderanza  insegni 
All'  orgoglio  de'  re ,  cui  tua  saggezza 
Tolse  la  scusa  di  cotanti  sdegni  ; 

Fa  cor:  quel  Dio  che  abbatte  ogni  grandezza, 
Guen*a  e  pace  a  te  fida,  a  te  devolve 
11  castigo  d'  Europa  e  la  salvezza. 

Tu  sei  polve  al  mio  sguardo,  ed  io  la  polve 
Strumento  fo  del  mio  voler.  Qui  tacque 
Colui  che  immoto  tutto  move  e  voi  ve. 


•  \. 


CANTO  TERZO  :àg5 

Qui  sparve  F  alta  yislton  :  poi  nacque 
Per  entro  al  negro  vortice  un  confuso 
Romor  d'ali  e  di  pie  che  di  molt'  acque 

Parca  lo  scroscio.  Ma  repente  schiuso 

Fiammeggiò  quel  gran  bujo ,  e  folgorando 
Due  Cherubini  si  calaro  in  giuso: 

QueMue  medesmi  del  divin  comando 
Esecutori,  che  nel  pugno  aviéno 
L'un  d'olivo  la  fronda,  e  P altro  il  brando. 

Ratti  a  paro  scendean  come  baleno, 
E  due  gran  solchi  di  mirabil  vista 
Paralelli  traean  per  Io  sereno. 

L'  uno  è  pura  di  luce  argentea  lista  ^ 
L'altro  è  turbo  di  fumo  che  lampeggia, 
E  sangue  piove  che  le  stelle  attrista. 

Di  qua  tutto  sorriso  il  ciel  biancheggia^ 

Di  là  son  tuoni  e  nembi ,  e  in  suon  di  pianto 
L'  aria  geme  da  lungi  e  romoreggia. 

Seguian  coli'  ali  del  vedere  un  tanto 
Prodigio  stupefatti  i  due  Lombardi, 
Coli'  altro  spirto  di  che  parla  il  Canto  ^ 

Quando  si  vide  a  passi  gravi  e  tardi 
Dalla  parte  ove  rota  il  suo  viraggio 
La  terra,  e  obbliqui  al  Sole  invia  gli  sguardi^ 

Pensierosa  salir  l'ombra  d'un  saggio, 

Che  il  dito  al  mento  e  corrugata  il  ciglio , 
Uom  par  che  frema  di  veduto  oltraggio. 

Dalla  fronte  sublime  e  dal  cipiglio 
Nobilmente  severo,  si  procaccia 
Testimonianza  il  senno  ed  il  consiglio. 

Come  trasse  vicino  ,  alzò  la  faccia , 
GÌ'  insubri  ravvisò  spirti  diletti^ 
E  mosse,  prima  che  il  parlar,  le  braccia. 

Àllor  si  vide  con  amor  tre  petti 
Confondersi  e  serrarsi,  ed  affollarse 
Gli  uni  su  gli  altri  d'  amicizia  i  detti. 


1C)6  IN   MORTE   DI   LORENZO   1IA8CHERONI 

Lo  stringersi  a  vicenda  e  il  dimandarse 
Tra  quell^alme  finito  ancor  non  era, 
Che  di  note  sembianze  altra  n^ apparse^ 

E  corse  ancV  ella ,  ed  abbracciò  la  schiera 
Goncittadina.  Il  volto  avea  negletto, 
Negletta  la  persona  e  la  maniera. 

Ma  la  fronte ,  prigion  d' alto  intelletto , 
Ad  or  ad  or  s' infosca ,  e  lampi  invia 
Dell^  eminente  suo  divin  concetto. 

Scrisse  quel  primo  Palta  economia 
Che  i  popoli  conserva ,  e  tutta  svolse 
Del  piacer  la  sottile  anatomia. 

Intrepido  a  librar  V  altro  si  volse 
I  delitti  e  le  pene ,  ed  al  tiranno 
L^  insanguinato  scettro  di  man  tolse. 

Poscia  che  le  accoglienze,  onde  si  fanno 
Lieti  gli  amici,  s^ iterar  fra  questi 
Che  fur  primieri  tra  color  che  sanno  ^ 

Disse  Parini:  Perchè  irati  e  mesti 

Son  tuoi  sguardi ,  o  mio  Verri  7  Ed  ei  rispose  : 
Piango  la  patria  :  e  chinò  gli  occhi  onesti. 

E  anchMo  la  piango,  anch^o,  con  sospirose 
Voci  soggiunse  Beccaria:  poi  mise 
Su  la  fronte  la  mano,  e  la  nascose. 

Di  duol  che  sdegna  testimon,  conquise 
Vide  Borda  quell^alme,  e  in  atto  umano 
Disse  a  tutte  :  Salvete  ^  e  si  divise. 

Gol  salutar  degli  occhi  e  della  mano 

Risposer  quelle,  e  in  preda  alla  lor  cura 
Mosser  tacendo  per  P  etereo  piano. 

Come  gli  amici  in  tempo  di  sventura 
Van  talvolta  per  via,  né  alcun  domanda 
Per  temenza  d^  udire  cosa  dura^ 

Tale  andar  si  vedea  quelP  onoranda 
Di  sofi  compagnia,  curva  le  fronti, 
Aspettando  chi  primo  il  suo  cor  spanda. 


CANTO    TBRZO  297 

Luogo  è  d^  Olimpo  su  gli  eccelsi  monti 
Di  piante  chiuso  che  non  han  qui  nome , 
E  rugiadoso  di  nettarei  fonti , 

Gh^  etemo  il  verde  edùcano  alle  chiome 
Degli  odorati  rami ,  e  i  più  bei  fiori 
Di  colei  che  fa  il  tutto ,  e  cela  il  come  ^ 

Poi  cadendo  precipiti  e  sonori 

Tra  scogli  di  smeraldo  e  di  zaffiro 
Scendono  a  valle  per  diversi  errori: 

E  là  danzando  del  beato  empirò 
A  inebbnar  si  vanno  i  cittadini 
Dell^  ambrosia  che  spegne  ogni  desiro. 

A  quest^ermo  recesso  i  peregrini 
Spirti  avviarsi  ^  e  qui  seduti  al  rezzo 
Tra  color  persi,  azzurri  e  porporini, 

Fér  di  sé  stessi  un  cerchio.  O  tu  che  in  mezzo 
Di  lor  sedesti,  olimpia  Dea,  né  Pira 
Temi  del  forte,  né  del  vii  lo  sprezzo, 

Tu  verace  consegna  alla  mia  lira 
L^  alte  loro  parole  ^  e  siano  spiedi 
A  infame  ciurma  che  alle  forche  aspira, 

Né  vale  il  fango  che  mi  lorda  i  piedi. 


CANTO  QUARTO. 


Sacro  di  patria  amor  che  forza  acquista 
Ed  etemo  rivive  oltre  l'avello 
(Cominciò  Paltò  Insubre  Economista  ), 

Desio  ,  che  pure  ne' sepolti  è  bello , 
Di  visitar  talvolta,  ombra  romita, 
Le  care  mura  del  paterno  ostello, 

E  con  gli  affetti  della  prima  vita 
Le  vicende  veder  di  quel  pianeta 
Che  l'alme  al  fango  per  patir  marita, 

Mi  fean  pocanzi  abbandonar  la  lieta 
RegKon  delle  stelle:  e  il  patrio  nido 
Fu  dolce  e  prima  del  mio  voi  la  meta. 

Per  tutto  armi  e  guerrier,  tripudio  e  grido 
Di  libertà^  per  tutto  e  danze  e  canti , 
Ed  altari  alle  Grazie  ed  a  Cupido^ 

E  operose  officine,  e  di  volanti 
Splendidi  cocchi  fervida  la  via, 
E  care  donne  e  giovinetti  amanti , 

Sclamar  mi  fenno  a  prima  giunta:  Oh  mia 
Gentil  Milano,  tu  sei  bella  ancora! 
Ancor  bella  e  beata  è  Lombardia! 

Poi  nell'ascoso  penetrai  (che  fuora 

Sta  le  più  volte  il  riso  e  dentro  il  pianto), 
E  venir  mi  credei  nell' Antenora , 

Nella  Cama,  o  s'altro  luogo  è  tanto 
Maladetto  in  inferno,  ove  raccoglia 
Tutte  insieme  le  colpe  Radamanto. 


IN  MORTE  DI  L.  MASCBBRONI,  CANTO  QUARTO  299 

DelPalbergo  fatai  guardan  la  soglia 

Le  Cabale  pensose  e  Plmpostara, 

Che  per  vestirsi  la  Virtù  dispoglia, 
La  Fraude  che  si  tocca  il  petto  e  giura, 

La  fallace  Amistà  che  sul  tuo  danno 

Piange  e  poi  t^abbandona  alla  ventura. 
Carezzanti  negli  atti  in  volta  vanno 

Le  bugiarde  Promesse,  accompagnate 

Dalle  garrule  Ciance  e  dalPInganno. 
Sta  su  le  valve,  a  pie  profan  vietate, 

Il  Favor  che  bifronte  or  apre,  or  chiude , 

E  dice  all^un:  Non  puossi^  e  alPaltro:  Entrate. 
Su  e  giù  sospinte  le  Speranze  nude 

Van  zoppicando,  e  inseguele  per  tutto 

Colei  che  tutte  le  speranze  esclude. 
Con  umil  carta  in  man,  lurido  e  brutto. 

Grida  il  Bisogno,  e  sua  ragione  apporta^ 

Ma  duro  niego  de'  suoi  gridi  è  il  frutto: 
Che  voce  di  ragion  là  dentro  è  morta, 

E  de'  pieni  scaffali  tra  le  borre 

Dorme  Giustizia  in  gran  letargo  assorta^ 
Né  dall'alto  suo  sonno  la  può  sciorre 

Che  il  sonante  cader  di  quella  piova 

Che  fé  Io  stupro  dell'acrisia  torre. 
Questo  io  vidi  nell'antro  in  cui  si  cova 

Della  patria  il  dolor,  che  con  grand'arte 

Tutto  giorno  si  affina  e  si  rinnova; 
Tal  che,  guasta  il  bel  corpo  d'ogni  parte, 

Trae  già  l'ultimo  fiato,  e  muore  in  culla 

La  figlia  del  valor  di  Bonaparte. 
Circuisce  la  misera  fanciulla 

Multiforme  di  mostri  una  congrèga 

Che  la  sugge,  la  spolpa  e  la  maciulla: 
Il  Furto,  che  al  Poter  fetto  è  collega; 

Tirannia ,  che ,  col  dito  entro  gli  orecchi , 

Scostati,  grida  alla  Pietà  che  prega; 


3 00  Uf  MORTE  DI  LORENZO  MASCHBROHI 

Ignoranza,  che  losca  fi-a  gli  specchi 

Banchetta,  e  Tosso,  che  non  unge,  arcigna 
Getta  al  Merto  giacente  in  su  gli  stecchi. 

E  la  patria  frattanto,  empia  matrigna. 
Nega  il  pane  a^  suoi  figli,  e  a  tal  lo  dona 
Stranier,  cui  meglio  si  daria  gramigna. 

Mossi  più  addentro  il  piede  ^  e  in  logra  zona 
Vidi  Pinferma  che  Finanza  ha  nome, 
Che  scheletro  pareva  e  non  persona. 

Colle  man  disperate  entro  le  chiome 
Guarda  i  vuoti  suoi  scrigni,  e  stupefatta 
Cerca  e  non  trova  dell^empirli  il  come. 

Or  la  Forza  le  invia  fusa  e  disfatta 
La  pubblica  sostanza^  or  la  meschina 
Perdendo  merca,  e  supplicando  accatta. 

Scorre  a  fiumi  il  danaro,  e  la  Rapina, 
Di  color  mille  e  cento  man,  Fingozza 
E  giù  nell^  ampio  ventre  lo  ruìna 

Con  si  gran  fretta,  che  talor  la  strozza 
Tutto  noi  cape,  e  il  vome,  e  vomitato 
Lo  ricaccia  nell^epa  e  lo  rimpozza: 

Né  del  pubblico  sazia,  anco  il  privato 
Aver  divora^  e  il  vede  e  lo  consente 
Suprema  e  muta  Autorità  di  Stato. 

Chiusa  e  stretta  da  Forza  prepotente 

(Dolce  interruppe  allor  Lorenzo  ) ,  e  in  forse 
Di  maggior  danno,  e  inerme  e  dependente. 

Che  far  poteva  Autorità?  Deporse, 
Gridò  fiero  Parini:  e  steso  il  dito. 
Gli  occhi  e  la  spalla  brontolando  torse. 

Strinse  allora  le  labbia  in  sé  romito 
Dei  delitti  il  sottil  ponderatore^ 
E,  Fti  giusto,  poi  disse,  il  tuo  garrito. 

Forza  li  vinse:  e  che  può  Forza  in  core 
Che  verace  virtute  in  sé  raduna? 
Cede  il  giusto  la  vita  e  non  Fonore^ 


CANTO   QUARTO  3oi 

L^onor  su  cui  né  strale  di  fortuna^ 
Né  brando,  né  tiranno,  né  lo  stesso 
Onnipossente  non  ha  possa  alcuna. 

Qual  madre  che  del  figlio  intende  espresso 
Grave  fallo,  si  tace  e  non  fa  scusa, 
Ma  china  il  guardo  per  dolor  dimesso,, 

E  tuttavolta  col  tacer  Fescusa^ 
Tal  si  fece  Lorenzo,  mansueta 
Alma  cortese  a  perdonar  sol  usa. 

Ma  col  cenno  del  capo  il  fier  poeta 
Pianse  a  quel  dir,  che  il  generoso  fiele 
De^  bollenti  precordii  in  parte  acqueta. 

Aprì  di  nuovo  al  ragionar  le  vele 

Verri  frattanto,  e  Non  ancor,  soggiunse, 
Tutto  scorremmo  questo  mar  crudele. 

Poiché  protetta  la  Rapina  emunse 
Del  popolo  le  vene,  e  di  ben  doma 
Putta  sfacciata  il  portamento  assunse  : 

La  meretrice  che  laggiù  si  noma 
Libertà  depurata  iva  in  bordello 
Coi  vizi  tutti  che  dier  morte  a  Roma. 

Alla  fronte  lasciva  era  cappello 
U  berretto  di  Bruto,  ma  di  serva 
Avea  gli  atti,  il  parlare  ed  il  mantello. 

E  la  segma  di  drudi  una  caterva. 
Che  da  questa  d^Italia  a  quella  fogna 
A  fornicar  correa  colla  proterva. 

Altri  perduta  nel  peccar  vergogna, 
Fuggì  la  patria  no,  ma  il  manigoldo^ 
Altri  é  resto  di  scopa,  altri  di  gogna: 

Qual  repe  e  busca  ru£Gianando  il  soldo  ^ 
Qual  é  spia^  qual  il  falso  testimonio 
Vende  pel  quarto  e  men  d^un  Leopoldo. 

Quei  chiede  un  Robespier  che  il  sangue  ausonio 
Sparga,  e  le  funi  e  la  Senavra'  impetra 
Con  questo  che  biscazza  il  patrimonio. 


3o2  Uff  MORTE  DI  LOBEHZO  MASCHEROm 

yPhsL  chi,  ventoso  raschiator  di  cetra, 
Il  pudor  caccia  e  sé  medesmo  in  brago, 
E  segnato  da  Dio  corre  alla  Yetra*. 
ATha  chi  salta  in  bigoncia  dallo  spago, 
Vha  chi  Tersuto  ciarmador  le  quadre 
Muta  in  tonde  figure  e  non  è  mago. 
Disse  rea  d'adulterio  altri  la  madre, 
E  di  vile  semenza  di  convento 
Sparso  il  solco  accusò  del  proprio  padre. 
Altri  è  schiuma  di  prete,  e  fraudolento 
De'  galeotti  aringator,  per  fame 
Va  trafficando  Cristo  in  sacramento. 
Tutto  strame,  letame  e  putridame 
D'intoUerando  puzzo,  e  lo  fermenta 
Tutto  quanto  de'  vizi  il  bulicame. 
E  questa  ciurma  s*  è  colei  che  addenta 
I  migliori,  colei  che  tuona  e  getta 
D'Itala  libertà  le  fondamenta? 
Oh  inopia  di  capestri!  oh  maladetta 

Lue  cisalpina!  oh  patria!  oh  giusto  Iddio! 
Perchè  pigra  in  tua  mano  è  la  saetta? 
Terror  mi  prese  a  tanto;  e  nell'obbho 
Del  mio  stato  immortale,  al  patrio  tetto. 
Per  celarmi,  tremante  il  pie  fuggio. 
Oh  mia  dolce  consorte!  oh  mio  diletto 
Fratello!  Oh  quanto  nell'udir  mi  piacqui 
Da  voi  nomarmi  colPantico  affetto! 
E  ricordar  siccome  amai,  né  tacqui 
La  pubblica  ragion^  sin  che  già  franta 
De'  buon  la  speme,  addio  vi  dissi,  e  giacqui  ! 
Piansi  di  gioia  nel  veder  cotanta 
Carità  della  patria,  e  come  intera 
De'  miei  figli  nel  cor  la  si  trapianta. 
Ed  io  vana  allor  corsi  ombra  leggera, 
E  gli  strinsi,  e  sentii  tutta  in  quel  punto 
La  dolcezza  di  padre,  e  più  sincera. 


CAUTO  QUARTO 

Ma  il  tenero  lor  petto  al  mio  congianto 
Ahi!  quell^amplesso  non  intese,  e  invano 
Vivi  corpi  abbracciai  spirto  defunto. 

Mi  staccai  da^miei  cari:  e  di  Milano 
Ratto  fuggendo,  a  quel  sordo  mi  tolsi 
Delle  lagrime  altrui  gonfio  oceano. 

Città  discorsi  e  campi  ^  e  pria  mi  volsi 
Al  longobardo  piano,  ove  superbe 
Strinser  catene  al  re  de^  Franchi  i  polsi, 

E  il  villan  coll'aratro  ancor  tra  Terbe 
Urta  le  gaUic^ossa,  e  quell^  aspetto 
Par  che  1  natio  rancor  gli  disacerbe. 

Vidi  T  campo  ove  Scipio  giovinetto 
Contro  i  punici  dardi  allo  spirante 
Padre  fé  scudo  del  roman  suo  petto. 

Vidi  Tumil  Agogna  intollerante 
Del  suo  fato  novel:  vidi  la  valle 
Cui  nome  ed  ubertà  fa  la  sonante 

Sesia.  Di  là  varcai  per  arduo  calle 
L^alpe  che  il  nutritor  di  molte  genti 
Yerbano  adombra  colle  verdi  spalle. 

Quindi  del  Lario  attinsi  le  ridenti 
Rive,  e  la  terra  ove  alla  luce  aprirsi 
I  solerti  di  Plinio  occhi  veggenti, 

Ed  or  Podi  di  Volta  insuperbirsi. 
Che  vita  infonde  pe^  contatti  estremi 
Di  due  metalli  (maraviglia  a  dirsi!) 

Nei  membri  già  di  pelle  e  capo  scemi 
Delle  rauche  di  stagno  abitatrici, 
E  di  Galvan  ricrea  gli  alti  sistemi. 

I  placidi  cercai  poggi  felici 

Che  con  dolce  pendio  cingon  le  liete 
Dell^Eupili  lagune  irrigatrici^ 

E  nel  vederli  mi  sclamai:  Salvete 

Piagge  dilette  al  Ciel,  che  al  mio  Panni 
Foste  cortesi  di  vostr^ombre  quete, 


3o3 


3o4  IN  MORTE  DI  LORENZO  MASCHERONI 

E  lui  spiraste  i  numeri  divini , 

Che  sovente  obbliar  fero  ad  Apollo 
I  Tebani  concenti  e  i  Yenosini. 

10  le  mirava,  e  non  venia  satollo 

Mai  del  mirar  ^  che  rapido  il  piacere 
LW  dall^altro  sorgea,  come  rampollo. 

Quando  un  accento  non  lontan  mi  fere , 
Che  il  tuo  nome  suonava.  Disteso 
Donde  quel  suono  uscia  corsi  a  vedere. 

Ed  ecco  in  mezzo  di  ricinto  ombroso 
Sculto  un  sasso  funebre  che  dicea: 

AI  SACRI  MARI   DI   PARIN   RIPOSO. 

Ed  una  non  so  ben  se  donna  o  Dea 

(Tese  Porecchio,  aguzzò  gli  ocdii  il  Vate 
E  spianava  le  rughe  e  sorridea.) 

Colle  dita  venia  bianco-rosate 

Spargendolo  di  fiori  e  di  mortella, 
Di  rispetto  atteggiata  e  di  pietate. 

Bella  la  guancia  in  suo  pudpr^  più  bella 
Su  la  fironte  splendea  Palma  serena, 
Come  in  limpido  rio  raggio  di  stella. 

Poscia  che  dati  i  mirti  ebbe  a  man  piena, 
Di  lauro,  che  parca  lieto  fiorisse 
Tra  le  sue  man,  fé  al  sasso  una  catena^ 

E  un  sospir  trasse  affettuoso  e  disse 
Pace  etema  all^amico:  e  te  chiamando 
I  lumi  al  cielo  si  pietosi  afiSsse, 

Che  gli  occhi  anch'io  levai,  fermo  aspettando 
Che  tu  scendessi:  e  vidi  che  mortale 
Grido  agli  Etemi  non  salia  più,  quando 

11  costei  prego  a  te  non  giunse^  il  quale 
Se  alle  porte  celesti  invan  percote  , 
Per  là  dentro  passar  null'altro  ha  Pale. 

Riverente  in  disparte  alle  devote 
Ceremonie  assistea ,  colle  tranquille 
Luci  nel  volto  della  donna  immote, 


CANTO  quaato  3o5 

Uom  dedita  cortesia,  che  il  ciel  sortille, 

Più  che  consorte,  amico.  Ed  ei  che  yuole 

II  voler  delle  care  alme  pupille, 
Sol  per  farle  contente  eccelsa  mole 

D'attico  gusto  ergea,  su  cui  fermato 

Pai*eami  in  cielo,  per  gioirne,  il  sole. 
E  Amalia  la  dicea  dal  nome  amato 

Di  colei  che  del  loco  era  la  Diva, 

E  più  del  cor  che  al  suo  congiunse  il  fato. 
Al  pietoso  olocausto,  a  quella  viva 

Gara  d'  amor  mirando,  già  di  mente 

Del  mio  gir  oltre  la  cagion  m'usciva. 
Mossi  alfine,  e  quei  colli  ove  si  sente 

Tutto  il  bel  di  natura,  abbandonai, 

L'orme  segnando  al  cor  contrarie  e  lente. 
Vagai  per  tutto  ^  nel  tugurio  entrai 

Dell'infelice,  e  il  ricco  vidi  in  grembo 

Dell'auree  case  più  infelice  assai. 
Salii,  discesi,  e  risalii  lo  sghembo 

Scntier  di  balze  e  fiumi,  e  il  mio  cammino 

Oltre  l'Adda  affrettando  ed  oltre  il  Brembo, 
Alla  tua  patria  giunsi,  o  pellegrino 

Di  Bergamo  splendor,  che  qui  m'ascolti; 

E  mesta  la  trovai  del  repentino 
Tuo  dipartire,  e  lagrimosi  i  volti 

Su  la  morta  di  Lesbia  illustre  salma. 

Che  al  cielo  i  vanni  per  seguirti  ha  sciolti. 
—  Brillò  di  gaudio  a  quell'annunzio  l'alma 

Dell'amoroso  geometra,  e  uscire 

Parve  alcun  poco  dell'usata  calma. 
E  già  surto  partia,  per  lo  desire 

Di  riveder  quel  volto  che  le  penne 

Di  Pindo  ai  voli  gli  solca  vestire; 
Ma  dignitosa  coscienza  il  tenne, 

E  il  narrar  grave  di  quell'altro  saggio, 

Che ,  precorso  un  sorriso,  cosi  venne 


3o6  IN  MORTE  DI  LOMSIIZO   MiSCRBRONf 

Seguitando  il  suo  dir  :  —  Dritto  il  viaggio 
Di  là  volsi  al  terren  che  il  Mella  irriga, 
Ricco  d'onor,  di  ferro  e  di  coraggio. 
Quindi  al  Ben&co  che  dal  vento  ha  briga 
Pari  al  liquido  grembo  d'Amfitrite 
Quando  irato  Aquilon  Pende  castiga. 
Quindi  al  fiume,  ove  tardi  diffinite 
Fur  Fitaliche  sorti,  e  non  del  duce, 
Ma  de^  condotti  il  cor  vinse  la  lite. 
E  TÀdige  seguii  fino  aUa  truce 

Àdria^  ove  stanchi  già  del  lungo  corso 
Trenta  seguaci  il  re  de'  fiumi  adduce. 
Tutto  insomma  il  paese  ebbi  trascorso 

Che  sdla  manca  del  Po  tra  U  mare  e  1  monte 
Sente  de'  freni  cisalpini  il  morso. 
E  di  dolore,  di  bestemmie  e  d'onte 
Per  tutto  intesi  orribili  favelle, 
Che  le  chiome  arricciar  ti  fanno  in  fironte. 
Pianto  di  scarna  plebe  a  cui  la  pelle 
Si  figura  dall'ossa,  e  per  le  vie 
Famelica  suonar  fa  le  mascelle^ 
Pianto  d'orbi  fanciulli  e  madri  pie. 

D'erba  e  d'acqua  cibate,  onde  di  mulse 
E  d'orzo  sagginar  lupi  ed  arpie  ^ 
Pianto  d'attrite  meschinelle,  avulse 
Ai  sacri  asili,  e  con  tremanti  petti 
Di  porta  in  porta  ad  accattar  compulse^ 
Pianto  di  padri,  ahi  lassi!  a  dar  costretti 
L'aver,  la  dote  e  tutto,  anche  le  poche 
Care  memorie  de'  più  sacri  affetti  : 
Cupi  sospiri,  e  voci  or  alte  or  fioche 
Di  tutte  genti,  per  gridar  pietade 
E  per  continuo  maledir  già  roche. 
D'on'or  fremetti^  e  venni  alla  cittade 
Che  dal  ferro  si  noma.  Oh  dalle  Muse 
Abitate  mai  sempre  alme  contrade, 


CANTO  QUARTO  'ÌO'J 

Onde  tanta  pel  mondo  si  dilluse 

L'Itala  gloria,  e  tal  di  carmi  vena 

Che  non  Àscra,  non  Ghio  la  maggior  schiuse! 
D'onor,  di  cortesia  nutrice  arena 

Come  giaci  deserta!  E  dal  primiero 

Splendor  caduta,  e  di  squallor  sol  piena! 
Questi  sensi  io  volgea  nel  mio  pensiero, 

Quando  un'Ombra  m* occorse  alla  veduta 

Mesta  sì,  ma  sdegnosa  e  in  atto  altero* 
Sovresso  un  marmo  sepolcral  seduta 

Stava  l'afflitta,  e  della  manca  il  dosso 

Era  letto  alla  guancia  irta  e  sparuta. 
Ombrata  avea  di  lauro  non  mai  scosso 

La  spaziosa  fronte,  e  sui  ginocchi 

Epico  plettro ,  che  dall'aura  mosso 
Dir  fremendo  parea:  Nessun  mi  tocchi. 

Vèr  lei  mi  spinsi,  e  dissi:  Oh  tu  che  spiri 

Dolor  cotanto  e  maestà  dagli  occhi. 
Soddisfammi  d'un  detto  a'  miei  desirì^ 

Parlami  '1  nome  tuo,  spirto  gentile. 

Parlami  la  cagion  de'  tuoi  sospiri , 
Se  nulla  puote  onesto  prego  umile. 


CANTO  QUINTO 


Non  mi  fece  risposta  qaell^  acerbo , 
Ma  riguardommi  colla  testa  eretta 
A  guisa  di  leon  queto  e  superbo. 

Qual  uomo  io  stava  che  a  scusar  s' affretta 
Involontaria  offesa,  e  più  coll^atto 
Che  col  disdirsi,  umil  fa  sua  disdetta. 

E  lo  spirto  parca  quei  che  distratto 

Guata  un  oggetto,  e  in  altro  ha  Palma  intesa^ 
Finché  dal  suo  pensier  sbattuto  e  ratto 

Gridò  con  voce  d^acre  bile  accesa: 


Tacque  ciò  detto  il  disdegnoso.  I  suoi 
Liberi  accenti,  e  al  crin  gli  avvolti  allori, 
De^  poeti  superbia  e  degli  eroi , 

MTeran  già  del  suo  nome  accusatori, 
All^  intelletto  mio  manifestando 
Quel  grande  che  cantò  V  armi  e  gli  amori. 

Per  cVio,  la  fronte  eU  ciglio  umil  chinando, 
Oh  gran  vate,  sclamai,  per  cui  va  pare 
D'Achille  aU'ba  la  follia  d'Orlando  ! 

Ben  ti  disdegni  a  dritto ,  e  con  amare 
Parole  Italia  ne  rampogni,  in  cui 
Dell'antico  valore  orma  non  pare. 

Ma  dinne,  o  padre:  chi  da' marmi  bui 
Suscitò  l'ombra  tua?  Concittadino 
Amor,  rispose,  e  dirò  come  il  fui. 


nr  MORTE  DI  L.  MiSCHBROin)  CAUTO   QUINTO  3o9 

Fra  i  boati  di  barbaro  latino 

Son  tre  secoli  ornai  ch^io  mi  dormia 
Nel  tempio  sacro  al  Divo  di  Gassino. 
Pietosa  cura  della  patria  mia 

Qui  concesse  più  degna  e  taciturna 
Sede  alla  pietra  che  il  mio  fral  copna. 
Fra  il  canto  delle  Muse  alla  diurna 

Luce  fui  tratto,  e  la  mia  polve  ancb^  essa 
Riviver  parve,  e  s'agitò  nelPuma. 
Ma  desto  non  fossMo,  che  manomessa 
Non  vedrei  questa  terra,  e  questi  marmi 
Molli  del  pianto  di  mia  gente  oppressa! 
Oh!  qualunque  tu  sia,  non  dimandarmi 
Le  sue  piaghe  per  dio ,  ma  trar  m-  aita 
Di  lassù  la  vendetta  a  consolarmi. 
Di  ragion  y  di  pietade  hanno  schernita 
I  tiranni  la  voce ,  e  fu  delitto 
Supplicaire  e  mostrar  la  sua  ferita. 
Fu  chiamato  ribelle  ed  interditto 
Anche  il  sospiro,  e  il  cittadin  fedele 
Or  per  odio  percosso ,  or  per  profitto. 
E  le  preghiere  intanto  e  le  querele 
Derise  e  storpie  gemono  alle  porte 
Inesorate  di  pretor  crudele. 
Mentr'  egli  sì  dicea ,  ferinne  un  forte 
Muggir  di  fiumi ,  che  tolte  le  sponde 
S'avean  sul  corno,  orror  portando  e  morte. 
Stendean  Reno  e  Panar  le  indomit'  onde 
Con  immensi  volumi  alla  pianura: 
E  struggendo  vem'an  le  fiiribonde 
La  speranza  de'  campi  già  matura  : 
Compiangenti  figliuoi  fugge  compreso 
Di  pietade  il  villano  e  di  paura  : 
Ed  uno  in  braccio  e  un  altro  per  man  preso, 
Ad  or  ad  or  si  volge,  e  studia  il  passo , 
Pel  compagno  tremando  e  per  lo  peso; 
MoBTi.  Poemetti,  ao 


3io  IN  MORTE  DI  LORENZO  MASCHERONI 

Ch'  alto  II  flutto  r  insegne ,  e  cou  fracasso , 
Le  capanne  ingoiando  e  i  cari  armenti, 
Fa  vortice  di  tutto,  e  piomba  al  basso. 
Ed  allora  un  rumor  d' alti  lamenti , 
Un  lagrimare,  un  dimandar  mercede, 
Con  voci  cbe  farian  miti  i  serpenti. 
Ma  non  le  ascolta  chi  in  eccelso  siede 
Correttor  delle  cose,  e  con  asperso 
Àuro  di  pianto  al  suo  poter  provvede. 
Mentre  che  d^una  parte  in  mar  converso 
Geme  il  pian  Ferrarese,  ecco  un  secondo 
Strano  lutto  dall^  altra  e  più  diverso. 
In  terra,  in  mare,  e  per  lo  ciel  profondo 
Ecco  farsi  silenzio  ^  il  Sol  tacere 
Air  improvviso,  e  parer  morto  il  mondo. 
Le  nubi  in  alto  on-Ibilmente  nere , 
Altre  stan  come  rupi,  altre  ne  miri 
Senza  vento  passar  basse  e  leggiere. 
Tutti  delVaure  i  garruli  sospiri 

Eran  queti,  e  le  foglie  al  suol  cadute 
Si  movean  roteando  in  presti  giri. 
D'ogni  parte  al  coperto  le  pennute 

Torme  accorrono ,  e  in  tema  di  salvarse 
Empiono  il  ciel  di  querimonie  acute. 
Fiutan  r  aria  le  vacche ,  e  immote  e  sparse 
Invitan  sotto  alle  materne  poppe 
Mugolando  i  lor  nati  a  ripararse. 
Ma  con  muso  atterrato  e  avverse  groppe 
L'una  all'altra  s'addossano  le  agnelle. 
Pria  le  gagliarde,  e  poi  le  stanche  e  zoppe. 
Cupo  regnava  lo  spavento  ;  e  in  quelle 
Meste  sembianze  di  natura  il  core 
L' appressar  già  sentia  delle  procelle. 
Quando  repente  udissi  alto  un  rumore , 
Qual  se  a' tuoni  commisto  giù  da' monti 
Vien  di-  molte  e  spezzate  acque  il  fragore. 


CANTO   QiriNTO  3ll 

Quindi  un  grido  :  Ecco  il  turbo  :  e  mille  fronti 
Si  fan  bianche,  e  le  nebbie  e  le  tenèbre 
Spazza  il  vento  si  ratto,  che  più  pronti 

Vanno  appena  i  pensier.  Sbalza  di  crebre 
Stipe  un  nembo  e  di  foglie  e  di  rotata 
Polvere  che  serrar  fa  le  palpebre. 

Mugge  volta  a  ritroso  e  spaventata 
Dell^  Eridano  V  onda ,  e  sotto  i  piedi 
Tremar  senti  la  ripa  afiaticata« 

Ruggiscono  le  selve,  ed  or  le  vedi 
Come  fiaccate  rovesciarsi  in  giuso, 
E  innabissarsi,  se  allo  sguardo  credi: 

Or  gemebonde  rialzar  diffuso 

L'enorme  capo,  e  giù  tornarlo  ancora, 
Qual  pendolo  che  fa  V  arco  alPinsuso. 

Batte  il  turbo  crudel  Pala  sonora, 
'Schianta,  uccide  le  messi  e  le  travolve^ 
Poi  con  rapido  vortice  le  vora  ^ 

E  tratte  in  alto  le  diffonde  e  solve 

Con  immenso  sparpaglio.  Il  crin  si  straccia 
Il  pallido  villan,  che  tra  la  polve 

Scorge  rasa  de' campi  già  la  faccia, 
E  per  V  aria  dispersa  la  fatica 
Onde  ai  figli  la  vita  e  a  sé  pi^oeaccia. 

E  percosso  l'ovil,  svelta  Paprica 

Vite  appiè  del  marito  olmo ,  che  geme 
Con  tronche  braccia  su  la  tolta  amica. 

Oh  giorno  di  dolor!  giorno  d'estreme 
Lagrime!  e  crudo  chi  cader  le  vede, 
E  non  le  asciuga,  ma  più  rie  le  spreme  ! 

E  chi  le  spreme?  chi  in  eccelso  siede 
CoiTettor  delle  cose,  e  con  ór  lordo 
Di  sangue  e  pianto  al  suo  poter  provvede. 

Poi  che  al  duol  di  sua  gente  ogni  cor  sordo 
Vide  il  cantore  della  gran  folha, 
E  di  pietà  sprezzato  ogni  ricordo, 


3ia  or  MORTE  di  lohenzo  mascheroni 

Mise  un  grido  e  sparì.  Mentre  foggia, 
Si  percotea  V  irata  Ombra  la  testa 
Gol  chiuso  pugno,  e  mormorar  studia. 

Già  il  Sol  cadendo ,  raccogliea  la  mesta 
Luce  dal  campo  della  strage  orrenda, 
Ed  io  ,  com^  uom  che  pavido  si  desta  , 

Né  sa  ben  per  timor  qual  via  si  prenda , 
Smarrito  errava,  e  alla  città  giungea 
Ghe  spinge  obliqua  al  ciel  la  Garisenda. 

Gercai  la  sua  grandezza;  e  non  vedea 

Ghe  mestizia  e  squallor,  tanto  che  appena 
n  memore  pensier  la  conoscea. 

Ne  cercai  V  ardimento;  e  nella  piena 
De^  suoi  mali  esalava  ire  e  disdegni 
Ghe  parean  di  lion  messo  in  catena. 

Ne  cercai  le  beli'  arti ,  e  i  sacri  ingegni 
Ghe  alzar  sublime  le  £Bu;ean  la  firopte, 
E  toccar  tutti  del  sapere  i  segni; 

Ed  il  Felsineo  vidi  Ànacreonte 

Gacciato  di  suo  seggio,  e  da  pro&ni 
Labbri  inquinato  d'eloquenza  il  fonte. 

Vidi  in  vuoto  Liceo  spander  Palcani 
Del  suo  senno  i  tesori,  e  in  tenebroso 
Giel  la  stella  languir  di  Ganterzani. 

E  per  la  notte  intanto  un  lamentoso 
Ghieder  pane  s'udia  di  poverelli, 
Ghe  agli  orecchi  toglieva  ogni  riposo. 

Giacean  squallidi ,  nudi ,  irti  i  capelli , 
E  di  lampe  notturne  al  chiaror  tetro 
Larve  uscite  parean  dai  muffi  avelli. 

Batte  la  Fame  ad  ogni  porta,  e  dietro 

Le  vien  la  Febbre ,  e  l'Angoscia,  e  la  Dira 
Ghe  locato  il  suo  trono  ha  sul  feretro. 

Mentre  presso  al  suo  fin  l'egro  sospira. 
Entra  la  Forza,  e  grida:  Gittadino, 
Muori ,  ma  paga  :  e  il  miser  paga  e  spira. 


CAUTO   QUINTO  3l3 

Oh  virtà  !  Come  crudo  è  il  tuo  destino  ! 

Io  80  ben  che  più  bello  è  mantenuto 

Pur  dai  delitti  il  tuo  splendor  divino: 
So  che  sono  gli  afianni  il  tuo  tributo^ 

Ma  perchè  spesso  al  cor  che  ti  rinserra, 

Forz^  è  il  blasfema  proferir  di  Bruto? 
Con  la  Sventura  al  fianco  su  la  terra 

Dio  ti  mandò,  ma  inerme  ed  impotente 

De'  tuoi  nemici  a  sostener  la  guerra. 
E  il  reo  felice  e  il  misero  innocente 

Fan  sull'eterno  provveder  pur  anco 

Del  saggio  vacillar  dubbia  la  mente. 
Come  che  intomo  il  guardo  io  mova  e  il  fianco, 

Strazio  tanto  vedea,  tante  mine, 

Che  la  memoria  fiigge,  e  il  dir  vien  manco. 
Langue  cara  a  Minerva  e  alle  divine 

Muse  la  donna  del  Panar,  né  quella 

Più  sembra  che  fu  invidia  alle  vicine  : 
Ma  sul  Grostolo  assisa  la  sorella 

Freme ,  e  F  ira  premendo  in  suo  segreto , 

Le  sue  piaghe  contempla,  e  non  favella. 
Freme  Emilia,  e  col  fianco  irrequDieto 

Stanca  del  rubro  fiumicel  la  riva, 

Che  Cesare  saltò,  rotto  il  decreto* 
E  de' gemiti  al  suon  che  il  ciel  feriva 

D'ogni  parte,  iracondo  e  senza  posa, 

L'Adriaco  flutto  ed  il  Tirren  muggiva. 
Ripetea  quel  muggir  l'Alpe  pietosa, 

E  alla  Senna  il  mandava,  che  pentita 

Dell'  indugio  pareva  e  vergognosa. 
E  spero  io  ben  che  la  promessa  aita 

Piena  e  presta  sarà,  che  la  parola 

Di  lui  che  diella ,  non  fu  mai  tradita  : 
Spero  io  ben  che  il  mio  Melzi ,  a  cui  rivola 

Della  patria  il  sospiro E  più  bramava 

Quel  magnanimo  dir*,  ma  nella  gola 


3l4  >N  MORTE  Di  LORENZO  MASCHERONI 

Spense  i  detti  una  voce  che  gridava  : 

Pace  al  Mondo:  e  quel  grido  un  improvviso 
Suon  di  cetere  e  d^  arpe  accompagnava. 

Tttttoquanto  V  Olimpo  era  un  sorriso 
D' amor  ^  né  dirlo  ,  né  spiegarlo  appieno 
Pur  lingua  lo  potria  di  paradiso. 

Si  rizzar  tutte  e  quattro  in  un  baleno 

L^  alme  Lombarde  in  piedi  ^  o^  ver  la  plaga  , 
Donde  il  forte  venia  nuovo  sereno. 

Con  pupilla  cercar  intenta  e  vaga 
Quest^  atomo  rotante,  ove  dell'ire 
E  degli  odii  si  caro  il  fio  si  paga. 

E  largo  un  fiume  dalla  Senna  uscire 
Vider  di  luce,  che  la  terra  inonda, 
E  ne  fa  parte  al  ciel  nel  suo  salire. 

Tutto  di  lei  si  fascia  e  si  circonda 
Un  Eroe,  del  cui  brando  alla  ruina 
Tacea  muta  T  Europa  e  tremebonda. 

Ed  ei  V  amava  :  e  nella  gran  vagina 
Rimesso  il  fen*o  offii  V  olivo  al  crudo 
Avversario  maggior  della  meschina. 

E  col  terror  del  nome  e  coli' ignudo 
Petto  e  col  senno  disarmoUo,  e  pose 
Fine  al  lungo  di  Marte  orrido  ludo. 

Sovra  il  libero  mar  le  rugiadose 

Figlie  di  Dori  uscir ,  che  de'  metalli 
Fluttuanti  il  tonar  tenea  nascose: 

Drimo ,  Nemerte  j  e  Glauca ,  de'  cavalli 
Di  Nettuno  custode ,  e  Toe  vermiglia , 
Di  zoofiti  amante  e  di  coralli. 

Galatea,  che  nel  sen  della  conchiglia 

La  prima  perla  invenne,  e  Doto  e  Proto, 
E  tutta  di  Nereo  1'  ampia  famiglia , 

Tra  cui  confuse  de'  Tritoni  a  nuoto 

Van  le  torme  proterve.  In  mezzo  a  tutti 
Dell'  onde  il  re  ,  da'  gorghi  imi  commoto , 


CAWTO    QUINTO  3l5 

Sporge  il  capo  divino,  e  al  carro  addutti 

Gli  alipedi  immortali,  il  mar  trascorre 

Su  le  rote  volanti ,  e  adegua  i  flutti. 
Cade  al  Commercio,  che  ritorte  abborre^ 

n  britannico  ceppo ,  e  per  le  tarde 

Vene  la  vita,  che  languia,  ricorre. 
Al  destarsi,  al  fiorir  delle  gagliarde 

Membra  del  nume,  la  percossa  ed  egra 

Europa  a  nuova  saniti  riarde. 
Nuova  lena  le  genti  erge  e  rintegra  : 

E  tu  di  questo,  o  patria  mia,  se  saggio 

Farai  pensiero,  andrai  più  d^ altri  allegra. 
E  le  piaghe  tue  tante,  e  Tallo  oltraggio 

Emenderai,  che  férti  anime  ingorde 

Di  libertà  più  ria  che  lo  servaggio^ 
Ànime  stolte,  svergognate  e  lorde 

D^  ogni  sozzurra.  Or  fa  che  tu  ti  forba 

Di  tal  peste,  e  il  passato  ti  ricorde. 
E  Voi  che  in  questa  procellosa  e  torba 

Laguna  di  dolore  il  piò  ponete. 

Onde  il  puzzo  purgarne  che  n^ ammorba^ 
Voi  che  alla  mano  il  temo  vi  mettete 

Di  conquassata  nave  (e  tal  vi  move 

Senno  e  valor,  che  in  porto  la  trarrete); 
Voi  della  patria  le  speranze  nuove 

Tutte  adempite ,  e ,  di  giustizia  il  telo 

Animosi  vibrando,  udir  vi  giove 
Che  disse  in  terra,  e  che  poi  disse  in  cielo 

Lo  scrittor  dei  delitti  e  delle  pene: 

Ei  di  parlarvi ,  e  Voi ,  rimosso   il  velo  , 
D'  ascoltar  degni  il  ver  che  v'  appartiene. 


3i6 


FRAMMENTO  DEL  CANTO  QUARTO 

sul  monumento  dì  Giuseppe  Parùu  nella  Villa  Amalia  presso 
Erba,  pubblicato  in  Brescia  nel  1808  insieme  coi  Sepolcri 
di  Foscolo  e  di  Pmdemonte  ^ 


I  placidi  cercai  poggi  felici, 

Che  con  dolce  pendio  cingon  le  liete 

"DtìVEupili  lagone  irrigatrici*; 
£  nel  yederli  mi  sclamai:  Salyete, 

Piagge  dilette  al  Giel,  che  al  mio  Parini 

Foste  cortesi  di  yostr' ombre  quete; 
Quando  ei  fabbro  di  numeri  diyini 

L'acre  bile  fé  dolce,  e  la  yestia 

Di  tebani  concenti  e  yenosini. 
Parca  de' carmi  tuoi  la  melodia 

Per  quell'aure  ancor  yiya,  e  l'aore  e  l'onde 

£  le  selye  eran  tutte  un'armonia. 
Parean  d'intorno  i  fior,  l'erbe,  le  fronde 

Animarsi,  e  iterarmi  in  suon  pietoso: 

Il  cantor  nostro  oy'è?  chi  lo  nasconde? 
£d  ecco  in  mezzo  di  ricinto  ombroso 

Sonito  un  sasso  funebre  che  dicea: 

Ai  8ACB1  MAHi  DI  Pauii  Biroso. 
£  donna  di  beltà  che  dolce  ardea 

(  Tese  r  orecchio ,  e  fiammeggiando  il  Vate 

Alzò  l'arco  del  ciglio >  e  sorridea) 
Colle  dita  yenia  bianco-rosate 

Spargendolo  di  fiori  e  di  mortella, 

Di  rispetto  atteggiata  e  di  piotate. 

*  Credo  di  doTer  qui  ristampare  questo  brano  eotl  eomo  trorasi 
nella  edizione  bresciana,  attese  le  molte  e  belle  yarìazloni  die  in 
quella  occasione  yi  fece  il  Monti.  L'Editobb. 


DI  MORTB  N  LOBENKO  MASCHERONI,  |IC.        ìl'J 

Bella  la  guancia  in  sno  pndor;  più  bella 

Sa  la  fronte  splendea  Talma  serena 

Come  in  limpido  rio  raggio  di  stella. 
Poscia  che  dati  i  mirti  ebbe  a  man  piena , 

Di  lauro  che  parca  lieto  fiorisse 

Tra  le  sue  man ,  fé  al  sasso  una  catena. 
E  un  sospir  trasse  aflettuoso,  e  disse 

Pace  etema  all'Amico:  e  te  chiamando, 

I  lumi  al  cielo  si  pietosi  affisse, 
Che  gli  occhi  anch'io  levai,  certa  aspettando 

La  tua  discesa.  Ah  qual  mai  cura,  o  quale 

Parte  d'Olimpo  ratteneati,  quando 
Di  que'bei  labbri  il  prego  erse  a  te  l'ale? 

Se  questa  indarno  l'udir  tuo  percuote, 

Qual  altra  ascolterai  yoce  mortale? 
Riyerente  in  disparte  alle  devote 

Geremonie  assistea,  colle  tranquille 

Luci  nel  volto  della  Donna  immote, 
Uom  d'alta  cortesia*,  che  il  Ciel  sortille 

Più  che  consorte,  amico.  Ed  ei  che  vuole 

n  voler  delle  care  alme  pupille, 
Ergea  d'attico  gusto  eccelsa  mole 

Sovra  cui  d'ogni  nube  immaculato 

Raggiava  immemor  del  suo  corso  il  Sole. 
E  Amalia  la  dicea  dal  nome  amato 

Di  costei,  che  del  loco  era  la  Diva, 

E  pia  del  cor,  che  al  suo  congiunse  il  fato  '. 
Al  pio  rito  funebre,  a  quella  viva 

Gara  d'amor  mirando,  già  di  mente 

Del  mio  gir  oltre  la  cagion  m'usciva. 
Mossi  alfine,  e  quei  colli,  ove  si  sente 

Tutto  il  bel  di  natura,  abbandonai, 

L'orme  segnando  al  cor  contrarie  e  lente. 


M» 


r. 


NOTE 


ALLA   MASCHERONIANA 


NOTE  AL  CANTO  PRIMO 


DELLA  MA8CHER0N1ANA 


Pag«  377. 

*  Invito  a  Lesbia  Gidonia.  Questo  eleganUtsimo  poemetto,  di  cui  ab- 
biamo più  edizioni^  non  è  cbe  la  descrizione  de*  musei  di  PaTta.  Sono 
le  Grazie  medesime  cbe  parlano  profonda  fllosoOa. 

Ivi. 

•  E  noto  cbe  i|  gran  Galileo  dopo  le  sue  scoperte  astronomiebe  di- 
venne cieco. 

Ivi. 

3  Arcbimede  fu  il. primo  cbe  trovò  la  quadratura  della  parabola,  e 
i  rapporti  della  sfera  col  cilindro.  Della  quale  ultima  scoperta  egli 
alesso  compiacquesi  tanto,  cbe  la  volle  incisa  sul  suo  sepolcro;  Io  che 
serri  dMnclizio  a  Cicerone  per  {scoprirlo,  siccome  egli  stesso  racconta 
nelle  Tnsculane,  L.  Vj  §  a3. 

Ivi. 

4  Filolao  nativo  della  Magna  Grecia  e  discepolo  di  Pitagora.  Fu  il 
primo  a4  insegnare  il  sistema  ora  detto  Copernicano. 

Ivi. 

5  Cassini,  chiamato  l'oracolo  del  Sole,  diede  una  teoria  completa 
sul  movimento  delle  macchie  solari,  e  parlò  più  sensatameute  d'ogni 
altro  della  paralasse  del  Sole,  elemento  principale  di  tutta  l'astronomia. 

Pao.  378. 

C  La  teoria  del  nuovo  pianeta  Urano,  stampata  in  Milano  del  1789, 
in  conosciuta  a  Parigi  dai  più  distinti  astronomi  e  geometri.  Ma  per- 
chè il  modesto  Oriani  non  la  presentò  all'Accademia  delle  scienze, 
l'astronomo  Delambre  profittò  senza  scrupolo  delie  scoperte  altrui, 
e  le  sue  tavole  pubblicate  due  anni  dopo  ottennero  un  premio  ad 
altri  dovuto. 

Ivi. 

7  Bartolommeo  Borda,  celebre  matematico  francese,  intimamente 
legato  d'amicizia  col  nostro  Mascheroni,  il  quale  su  la  di  lui  morto 
compose  un'elegia  latina  degna  del  secolo  d'Augusto. 


NOTA  AL  CANTO  TERZO 


DELLA  MàSGHERONlANA 


Pag.  391. 
*  Ecco  la  libertà  che  ho  Unto  vilipesa  nella  Bassvilliana.  La  Cod- 
▼entione  nazionale  era  in  quei  miseri  tempi  una  congrega  non  d'uo- 
mini, ma  di  furie,  e  la  Francia  tutta  un  inferno.  Spento  Robespierre! 
spenti  quei  codardi  che  spinsero  al  patibolo  i  più  generosi,  la  Francia 
mutò  fisonomia  e  la  cantica  fu  interrotta.  Ed  ora  che  il  mondo  sem- 
bra finalmente  tornato  alla  saggezza ,  ora  che  la  Francia  altamente 
detesta  ciò  ch'io  prima  ho  esecrato,  vi  sarà  chi  pur  tragga  da  quel 
poema  il  pretesto  di  calunniare  la  fermezza  de*  miei  principii?  Oh 
imbecilli!  Chi  siete  voi  che  tacciate  di  schiavo  il  libero  autore  del- 
l'Aristodemo?  Lo  conoscete  voi  bene?  Sapete  voi  che  al  pari  della 
tirannide  che  porta  corona,  egli  abborre  quella  che  porta  berretto? 
Ho  sospirato,  e  sospiro  ardentemente  il  bene  dell'Italia,  ho  ri- 
spettato in  tutti  i  miei  versi  religiosamente  il  suo  nome ,  ho  consa- 
crato alla  sua  gloria  le  mie  vigilie,  ed  ora  le  consacro  coraggiosamente 
me  stesso,  gridando  in  nome  di  tutti  la  verità.  Cicerone  e  Lucano, 
Dante  e  Maclriavelio  si  sono  abbassati  all'  adulazione  necessaria  a'  lor 
tempi.  EU' era  più  necessaria  a  quelli  ne'  quali  io  scriveva:  ma  ne' 
secoli  carrotU  la  ptrià  è  sottenuta  dai  f^ùUi,  e  il  delitto  apre  la  strada 
alle  magnanime  imprese,  O  tu  che  accusi  la  mia  debolezza ,  che  por 
non  fu  dannosa  ad  alcuno,  perchè  poi  non  imiti  il  mio  coraggio  che 
può  riuscire  a  vantaggio  comune?  Sei  dunque  tu  il  vile,  non  io.  Or 
va,  miserabile;  e  invece  di  predicar  la  libertà  di  Catone  coli' anima 
di  Tersite,  va  a  banchettare  alle  cene  di  Ecate  per  non  morir  di  fame 
sul  trivio. 


NOTE  AL  CANTO  QUARTO 


DELLA  MASCHERONIàNA 


Pao.  Sol 
>  Luogo  poco  fuori  di  Milano  ove  si  custodiscono  i  paxzi. 

Pio.  3oa. 
'  Luogo  in  Milano  ove  in  que'  tempi  si  giustiziavano  i  malfattori 


NOTE  AL  FRAMMENTO  DEL  CANTO  QUARTO 


Pao.  3i6. 

I  G)Ui  beati  e  placidi, 

Cha  il  rago  Eu|n]i  mio 
Cingete  ooa  dolcÌMÌnao 
Imeniilal  pendio,  ec. 

Paiuxi»  nell'Ode  in  la  Vita  nuiiea. 

Pao.  317. 
*  11  consigliere  Rocco  Marliani,  uomo  amico  alle  lettere  ed  ai  Ict* 
terati^  che  segnalò  l'amor  suo  verso  il  Parini  con  questo  monumento. 

Ivi. 
3  Ecco  l' iscrizione  che  leggesi  su  quella  villa  dal  cons.  Marliani  fab- 
bricata nel  luogo  ov*  era  una  volta  un  convento  di  Cappuccini  : 

BOGBVS  PBTai  F.   MABLIAWS 

DOMO  MBDIOLAIIO 

CQIICOBII  VBTBKJS    OPBBIBVS   A   SOLO    AMPLI ATIS 

VILLAM   BXTBVXIT  OBBAVIT 

AKALIAM 

BX   OORIVOIS   KABISSIKAB   NOMIBB   APPBLLABOAM 

ARIO  MDCCCI. 

L'EUtore. 


IL  BARDO 


DELLA    SELVA   NERA 


POEMA  EPICO-URICO 


{1806) 


(waAmmnn) 


Morti.  Poemetti.  at 


»' 


ALLA  MAESTÀ  IMPBEIALB  B  UBALE 


DI 


NAPOLEONE  IL  GRANDE 


IMPKRATORK  DE>  FRANCESI  E  RK  D'ITAUA 


V.  MONTI 

ISTOBIOOBArO  DBL  UOVO  D*ITAIU,  CAT.  DlU'oUim  DILLA  COBOIlA  DI  WEBMÙ, 
IMO  DILLA  LiaiOV  D*OVOII  I  DILL*  ISTITUTO  IT  ALIAVO. 


Sire 


Le  arpe  de^  Bardi  accompagnarono  un  cU  le  armi  di 
Garlomagno^  allorché  daUe  rive  Aquitaniche  o  dagli  ul- 
timi Pirenei  volava  a  punire  il  Sassone  ribellato ,  o  la 
perfidia  di  Tassiglione  ^  e  le  arpe  de^  Bardi,  non  ancora 
mute  del  tutto,  si  sono,  o  Sire,  destate  allo  strepito  delle 
vostre  vittorie,  e  ne  hanno  segm'to  il  rapido  volo  su  quelle 
contrade  medesime  ove  Carlo  precipitava  dal  trono  i  re 
vinti,  e  ne  accumulava,  sul  proprio  capo  i  diademi,  e 
Napoleone  il  grande  ne  fa  dono  agli  amici,  e  più  moderato 
e  magnanimo  li  restituisce  alla  fironte  dei  principi  debel- 
lati. E  veramente  un  Conquistatore  che  a^suoi  nemici 
abbattuti  non  lascia  altro  segno  della  conquista,  che  la 
memoria  delle  sue  virtù,  e  li  punisce  col  perdonare  e 


3a8 

forzarli  a  far  sénno  per  V  avvenire,  nn  siffiitto  e  6nora 
inaudito  Conquistatore  non  poteva  non  eccitare  a  grande 
entusiasmo  le  lire  poetiche  d^  ogni  suono,  precipuamente 
quelle  de^  Bardi,  nate  in  mezzo  alle  armi,  e  consecrate 
soltanto  alla  lode  de  Valorosi. 

Verrà  tempo  che  una  nuova  mitologia,  divinizzando  le 
vostre  imprese ,  come  già  quelle  di  Ercole ,  di  Bacco  e 
di  Teseo ,  porgerà  alle  postere  fantasie  abbondante  ma« 
teria  di  pura  ed  alta  Epopea:  la  quale  non  potendo  sus- 
sistere senza  la  poetica  maraviglia  (intendo  dire  senza 
la  favola),  ha  bisogno  che  la  maraviglia  storica  non  op- 
prima troppo,  siccome  ora  fa,  la  poetica.  Perciocché  ove 
la  presenza  dei  veri  prodigi  esclude  V  intervento  dei  fa- 
volosi, e  la  poesia,  frenata  dallo  splendore  dei  primi, 
non  può  sottometterli  né  sagrificarli  liberamente  ai  se- 
condi, per  modo  che  la  grandezza  dell^Eroe  sia  più  opera 
del  poeta  che  dello  storico  (come  Orlando,  Goffredo, gii 
eroi  d^  Omero  e  Virgilio,  e  tutti  in  somma  i  protagonisti 
dell^ Epopea),  avverrà  che  si  corra  sempre  il  pericolo 

di  Lucano ,  il  cui  poema,  perchè  scarso  di  effetto  sopran- 
naturale, ossia  di  favola,  é  stato  meritamente  escluso 
dalla  classe  degli  epici,  e  giudicato  nulP  altro  che  una 
sentenziosa  ed  ampollosa  storia  in  esametri. 

In  tanta  luce  di  opprimente  istorica  verità  disperato  il 
caso  dell^  Epopea ,  né  potendo  questa  giovarsi  molto  della 
pagana  mitologia,  a  cui  è  mancato  presso  noi  il  fonda- 
mento della  religione  che  la  santificava,  ed  essendo  ces- 
sata quella  delle  Fate  e  degP incantesimi,  che  pure  per 
qualche  tempo  potè  supplh*e  alla  prima,  era  forza  ricor- 
rere  ad  un  genere  di  poesia,  la  ^ale  ponesse  in  salvo  i 
diritti  della  favola  senza  nuocere  alla  dignità  della  storia. 


329 
La  poesia  Bardita,  riunendo  e  temperando  Tono  coll^altro 
il  doppio  carattere  dell^  epica  e  della  lirica,  mi  è  sem- 
brata, o  Sire,  se  non  la  sola,  almeno  la  più  acconcia  ad 
ordire  una  qualche  tela  poetica  dei  portenti  per  Voi  ope- 
rati: tanto  più  che  il  Bardo  della  Selva  Nera^  il  quale 
abbandona  i  suoi  boschi  per  seguire  le  vostre  armate,  e 
confondere  il  suono  gueiriero  della  sua  arpa  col  fragore 
dei  caimoni  di  Austerlitz,  alla  qualità  di  poeta  aggiugne 
quella  pur  di  profeta.  Così  eglr,  presago  di  avrenimenti 
ancora  più  strepitosi,  e  collocato  su  Porlo  dellMmmenso 
avvenire  che  voi  andate  creando,  si  sta  già  pronto  ad 
accompagnarvi  sott^ altro  cielo  a  nuovi  trionfi,  più  solenni 
anche  de^  primi.  Ed  egli  spera  di  recitarvi  presto  il  bel- 
V  inno  che  il  suo  antenato  Cadwallo  cantò  a  Carlomagno, 
allorché  Leone  UI  gli  pose  sul  capo  la  corona  dell^  Occi- 
dente: inno  ignorato  dagli  eruditi,  ma  pervenuto  di  padre 
in  figlio  al  vostro  Bardo  per  tradizione,  e  pieno  di  va- 
ticinii^  de^  quali  penso,  o  Sire,  che  voi  solo  abbiate  la 
chiave. 

Queste,  ed  altre  più  degne  cose,  che  per  ora  è  bello 
il  tacere ,  va  divisando  nel  segreto  della  sua  mente  la 
Musa  del  nuovo  Bardo  per  onorarvi^  ma  tutti  andranno 
vani  i  suoi  lodevoli  divisamenti,  ove  la  M.  V.  I.  e  R.  non 
li  soccorra  di  uno  sguardo  confortatore.  E  questo  egli 
spera,  ben  consapevole  che  fra  i  grandi  elementi  della 
vostr^  anima  non  è  F  ultima  la  Clemenza. 


IL   BARDO 

DELLA  SELVA  NERA 


CANTO  PRIMO 


/  VATiaNJ 

Quando  al  teno  di  Marte  orrido  ludo 
Dal  Britaimico  mar  sul  congiurato 
Istro  discese  fulminando  il  Sire 
Delle  battaglie,  e  d^atro  nembo  avvolta 
Al  fianco  gli  venia  la  provocata 

ira  del  cielo, 

Senti  dall^  alta  Eìrcinia  la  procella 
De^  volanti  guerrieri  il  Bardo  UUino^ 
UUin  germe  di  forti,  ed  animoso 
Gantor  de^  forti,  e  dello  spirto  erede 
DellMndovina  vergine  Velleda, 
Cui  r  antica  paura  incensi  offiia 
Nelle  selve  Brutere,  ove  implorata 
L^  aspra  donzella  con  responsi  orrendi 
Del  temuto  avvenire  aprìa  F  arcano. 

Sopra  una  vetta  che  d'Albecco  e  d^  Ulma 
Signoreggia  la  valle  e  i  cristallini 
Bei  meandri  dell^ Istro  in  lontananza, 
Salia  tutto  raccolto  in  suo  pensiero 
L^  irto  poeta,  e  dietro  gli  recava 
L'  arpa  Cherusca  la  gentil  Malvina^ 


332  IL  BARDO  DELLA  SELVA  NERA 

Alle  cui  rosee  dita  il  dolce  tocco 

Insegnò  della  lira  Ullino  istesso^ 

E  dilettoso  il  suon  delle  sue  corde, 

Più  che  quello  del  padre,  al  cor  scendea. 

Nuda  il  veglio  ha  la  fronte,  e  su  la  fronte 

Gli  tremula  canuto  il  crin,  siccome 

Onda  di  nebbia  che  il  ciglion  lambisce 

Di  deserto  dirupo ,  e  V  occhio  invita 

Del  viandante  a  contemplar  la  brulla 

Maestà  de^  suoi  fianchi.  Antica  e  rozza 

Di  sua  stirpe  divisa,  dalle  terga 

Pende  il  bardo  cuculio.  Ispido  e  stretto 

Da  croceo  cinto  sul  confin  dell^anca 

Gli  discende  al  ginocchio,  e  appena  il  tocca, 

n  germanico  saio.  Era  P  aspetto 

Nobilmente  severo;  era  P  incesso 

Grave;  e  seco  nel  cor  venia  volgendo 

L^  inique  e  turpi  di  cotanta  guerra 

Rivelate  cagioni  ;  e  il  vii  di  sangue 

Anglico  patto,  e  la  più  vile  assai 

Ragion  di  Stato  che  ne  tolse  il  prezzo. 

Ciò  pensando,  mettea  lungo  la  via 

Sospir  profondi,  e  gli  scaldava  il  petto 

L^  ira  un  giorno  bollente  nelle  vene 

Del  fiero  Bardo,  che  PArvonie  rupi 

Fé  d'  acerbi  sonar  carmi  tremendi , 

Quando  alle  Furie  consecró  del  primo 

Edoardo  la  stirpe.  Per  dirotto 

Faticoso  sentier  giù  dall'alpestre 

Balza  di  Snowdon  conducea  le  folte 

Sue  piumate  falangi  a  ingiusta  guerra 

L'orgoglioso  tiranno;  e  ritto  intanto 

Sovra  uno  scoglio  che  P  acuta  fronte 

Su  gli  spumanti  vortici  protende 

Del  muggente  Gonway,  vestito  a  bruno 

Stava  il  bieco  profeta  e  rimirava. 


CASTO  Fimo  333 

Insanguinate,  su  le  nubi  assise 

Gli  fean  cerchio  le  truci  ombre  gementi 

DegP inulti  fratelli^  e  il  vate  ordiva 

Su  le  corde  dell'arpa  dolorosa 

Di  regali  sventure  e  di  delitti 

Una  terribil  tela,  a  cui  le  Dire 

Porgean  le  jfila  nel  sangue  tu&te 

De' Britannici  re  ^  mentre  all'  orrendo 

Lavor  placate  sorridean  le  lunghe 

Larve  fraterne,  e  su  i  deserti  letti 

Cessava  il  pianto  delle  Gambrie  spose. 
Giunto  UUino  su  l'erta,  il  guardo  spinse 

Giù  nella  valle,  e  ritto  in  piedi,  e  l'arco 

Spalancando  del  ciglio  e  palpitando. 

D'armi  vide  e  d'armati  tuttaquanta 

Ondeggiar  la  pianura,  e  starsi  a  fronte 

Già  minacciosi,  già  parati  al  cozzo 

Gli  eserciti  rivali  3  e  li  movea 

Non  eguale  virtù.  Guatava  il  veglio 

Le  Germaniche  file;  e  poiché  l'ebbe 

Corse  e  ricorse  :  Oh  sventurati  1  ci  disse. 

Voi  non  venite  a  giusta  pugna  :  io  veggo 

Passar  veloce  su  le  vostre  fronti 

Una  mano  di  fuoco,  che  con  negro 

Stile  vi  scrive  una  fatai  sentenza. 

Qual  rio  s' è  fatto  qui  di  voi  mercato , 

Sventurati  fratelli  !  E  si  dicendo 

Torse  lo  sguardo  inorridito,  e  pianse. 
Si  volse  poscia  aUe  contrarie  schiere. 

Che  miglior  causa  e  Dei  migliori  all'armi 

Spingean.  Sereno  su  que'  volti  tutti 

Lampeggiava  il  coraggio,  e  quella  franca 

Securtà  di  valor ,  che  pria  del  fatto 

Ài  cor  ti  dice:  Il  vincitore  è  questi. 

Venian  siccome  a  nuzì'al  carola 

I  valorosi,  e  dalle  dense  usciva 


334  ^   BARDO   mSLLk   SBLTÀ    NEItÀ 

Mobili  selve  de^  tacenti  ferri 
Lampi  intorno  e  panre.  Alto  tremava 
Sotto  Pugna  de^ fervidi  cavalli 
La  terra;  e  chiose  ne^ romiti  alberghi 
Di  Vertinga  le  madri  e  di  Gunsburgo 
Si  stringean  trepidando  i  figli  al  seno. 
Stette  immoto  alcun  tempo  a  rignardarli 
L^ attonito  cantor.  L'avida  vista, 
Senza  batter  palpebra,  or  da  quel  lato, 
Or  da  questo  inviava:  e  per  la  mente 
Scorrean  frattanto,  e  s'accendean  veloci 
Le  profetiche  vampe.  Alfin  rapito 
Da  sùbito  furore  alla  seguace 
Vergin  si  volse,  e:  Porgimi,  le  disse, 
Porgimi  Tarpa  de' guerrieri,  o  figlia; 
Che  un  Dio  per  mezzo  a  quegli  armati  io  veggo  j 
Un  terribile  Dio ,  che  li  conduce , 
E  pentiti  farà  nel  suo  disdegno 
I  giurati  Potenti.  Incontanente 
Pose  Malvina  nelle  man  del  padre 
n  fatidico  legno.  Ed  ci,  gli  arguti 
Nervi  scorrendo  col  maestro  dito, 
Sposò  la  voce  al  suon  delle  percosse 
Fila,  seguaci  della  calda  mente  : 
Porgete  attente 

L' orecchie  ;  e  il  fato , 

Che  vi  sta  sopra, ....  udite. 

Dell'  innocente 

Sangue  versato 

In  scellerata  guerra 

Conta  il  cielo  le  stille,  e  le  schernite 

Lagrime  tutte  della  stanca  terra. 
Lassù,  dov'anco 

n  muto  arriva 

Gemer  del  verme  che  calcato  spira, 

Del  Nume  al  fianco 


cìuto  primo  335 

Siede  ima  Diva, 

Che  chiusa  in  negro  ammanto 

Scrìve  i  delitti  coronati,  e  all^ira 

Di  Dio  presenta  delle  genti  il  pianto. 
Ed  ella  il  carco 

Degniti  strali 

Feneo  turcasso  agli  omeri  sospeso, 

Scende^  e  dall^arco 

Fischiar  fa  Pali 

Dell^ultrìce  saetta. 

Vanno  in  polve  i  diademi,  e  dell'offeso 

Popol  si  sfrena  la  fatai  vendetta; 
Ghè  su  gli  scossi 

Troni  s'asside 

Inesorata  ;  e  sul  castigo  e  V  onte 

De' re  percossi 

Fiera  sorrìde. 

Poi  rifatto  in  sembianza 

Più  bella  il  solio,  su  vi  scrìve  in  fronte  : 

Re  caduti,  lasciate  ogni  speranza. 

A  che  poni  tua  speranza 

Nel  crudel  feroce  Scita? 

Perde  il  nome  la  Possanza, 

Che  di  barbarì  s'aita: 

Vile  è  il  trono,  a  cui  sostegno 

Son  quell'armi,  ed  onta  il  regno. 
Ahi  demenza  !  i  cervi  imbelli 

Congiurati  assalto  han  mosso 

Al  lion  che  arruffa  i  velli. 

Al  lion  che  ancora  ha  rosso 

Di  lor  strage  il  forte  artiglio, 

E  la  morte  ha  nel  cipiglio. 
Ei  già  rugge:  fuggite,  fuggite. 

Sconsigliati;  le  frasche  sentite 

Ruinose  con  alto  fracasso 

Atterrarsi,  e  dar  loco  al  suo  passo. 


336  IL  BARDO  BELLA  SELVA  HERA 

Vedi ,  vedi,  egli  spira  dagli  occhi 
Fiamme  oirende:  nessuno  lo  tocchi 
Che  signor  delle  selve 
Valor  lo  fece ,  '  ed  arbitro 
Dell'  altre  belve. 

Tale  il  Bardo  proluse,  in  sacra  nebbia 
Avvolgendo  gli  accenti.  Ardea  frattanto 
In  vai  d'Istro  la  pugna.  E  qual  tra  vili 
Minuti  augelli  piomba  la  grifagna 
Degli  strali  di  Giove  arrecatrice  ; 
Tal  si  scaglia  per  mezzo  alla  nemica 
Folta  il  Francese  combattente  j  e  armato 
Più  di  cor  che  di  ferro,  altro  non  teme 
Che  gir  secondo  ad  incontrar  perigli. 

Già  fulminava  di  Vertinga  i  campi 

Procelloso  un  Guerrier,  che  della  prima 
Strage  Alemanna  sanguinando  il  piano, 
Del  primo  arringo  si  cogliea  gli  onori, 
E  le  schiere  rompea^  pari  al  veloce 
D' ogni  gagliardo  domator  Pelide , 
Quando  tutti  di  Grecia  alla  vendetta 
Precoirendo  gli  eroi  stirpe  di  Numi, 
Per  le  Frigie  contrade  orrendamente 
Facea  Pugna  sonar  di  Balio  e  Xanto, 
Immortali  destrieri.  Emula  corre 
Di  Teutonico  lauro  a  ghirlandarsi 
Degli  altri  duci  la  virtù.  D' EUchinga 
E  di  Gunsburgo  su  i  tremendi  ponti 
Già  batte  la  novella  Aquila  i  vanni 
D'  ostil  sangue  roranti ,  e  nell'  antica 
Figge  ardita  così  V  ugna  sovrana. 


Che  fuggitiva  a  rimpiattarsi  d'IHma 
Ne'  mal  chiusi  ripari  la  costrigne.  ^ 
La  vincitrice  intanto  a  maggior  preda 
Sovra  il  balzo  d'Albecco  apre  V  artiglio. 


CANTO   PRIMO  337 

Ivi  in  pugna  crudel  prodigio  apparve 
D^  infinito  valor.  Contra  se^  mila 
Impetuoso  e  quattro  volte  tanto 
Gombattea  PAlemanno,  e  non  lasciava 
Dubbia  la  speme  V  inegual  conflitto. 
Ma  numero  che  vai  contra  virtude? 
Veder  la  numerosa  oste,  e  primieri 
Assalirla,  spezzarla,  e  sgominarla, 
E  far  cbe  molti  mordano  la  polve. 
Molti  cedano  il  ferro , 

Fu  per  que' pochi  eletti  un  breve  affiamo. 
Anzi  un  tripudio  ^  che  i  perigli  sono 
La  danza  degli  eroi.  Vide  il  bel  fatto 
n  £ardo  spettator  daUa  sua  rupe , 
E  le  nobili  piaghe  a  mezzo  il  petto 
Del  vincitore  le  vide,  e  su  le  pronte 
Corde  sonore  fé  volar  quest^inno  : 
Oh  illustre  pugna!  oh  splendide 

Ferite  generose , 

Alle  ferite  simili. 

Che  le  Laconie  spose 

Baciar  sul  largo  petto 

Dei  trecento  allo  Stretto! 
Raccogli,  amor  di  patria. 

Quel  sacro  sangue,  e  al  ciglio 

De' giovinetti  mostralo 

Nel  marzial  periglio. 

Da  mortai  vena,  il  giuro , 

Mai  non  usci  il  più  puro. 
Vedrai  repente  accendersi 

Tal  ne'  garzoni  ardire  , 

Tal  nella  mischia  fervere 

Di  gloria  un  bel  desire , 

Che  sorriso  del  forte 

Diventerà  la  morte. 


338  H-   BARDO   DELLA   SELVA   EIEllA 

Valle  d^Albecco,  i  tremoli 
Vegliardi  un  di  col  dito 
'P  insegneranno^  e  il  postero 
Di  santo  orròr  colpito 
Ricercherà  la  fossa, 
Che  degli  eroi  tien  Possa. 
Coprirà  Perba  e  il  tribolo 
Le  mute  spoglie ,  ed  irti 
Per  le  notturne  tenebre 
Vagoleran  gli  spirti , 
Che  morti  ancor  daranno 
Spavento  all'Alemanno. 
Ma  Paltò  ardire,  ond' inclito 
Suona  d'Albecco  il  campo , 
No,  non  fia  sol.  Già  folgora 
D' emule  spade  il  lampo, 
Già  in  Gremsa  si  rinnova 
La  memoranda  prova. 
Fragor  percuotemi 
D'armi  terribile: 
Veggo  di  barbari 
Immenso  un  nugolo , 
Che  in  Diemestéino 
Su  pochi  intrepidi 
Piomba.  Ne  tremano 
Di  Gremsa  i  colli^ 
Ma  non  i  Gallici 

Brandi,  che  agognano 
Andar  di  Getico 
Sangue  satolli. 
Ecco,  già  brillano 
Nudi,  già  al  sonito 
Guerrier  s*  abbassano , 
Già  van,  già  rapidi 
Fan  piaga,  e  perdono 


CANTO   PRIMO  339 

Dentro  le  perfide 

Vene  del  truce 

Scita  la  luce. 
Scita  crudel,  di  Tauride  non  sono, 
Della  Vistola,  no,  queste  le  prode , 
Ove  usurpasti  fira^  turbanti  e  un  trono 
Da  tre  percosso  del  valor  la  lode.' 
Qui  t^  hai ,  mal  giunto ,  quelle  spade  al  petto , 
Che  due  volte  fér  tristo  il  tuo  destino, 
Quando  atterrato  e  di  catene  stretto 
Il  fiatavo  ti  vide  e  il  Tigurino. 

Questi  all^  arpa  fidava  il  Bardo  austero 
Vaticini  sdegnosi,  e  confondea 
L^ arcano  canto  col  firagor  del  fiume, 

Pallido  intanto  su  TAbnobie  rupi 
Il  Sol  cadendo ,  raccogliea  d^  intorno 
DaUe  cose  i  colori,  e  alla  pietosa 
Notte  del  Mondo  concedea  la  cura. 
Ed  ella  del  regal  suo  velo  etemo 
Spiegando  il  lembo  raccendea  negli  astri 
La  morta  luce ,  e  la  spegnea  sul  volto 
Degli  stanchi  mortali.  Era  il  tuon  queto 
De^  fulmini  guerrieri,  e  ne  vagava 
Sol  per  la  valle  il  fumo  atro,  confiiso 
Colle  nebbie  de^ boschi  e  de^ torrenti: 
Eran  quete  le  selve ,  eran  dell^  aure 
Queti  i  sospiri^  ma  lugubri  e  cupi 
S^  udian  gemiti  e  grida  in  lontananza 
Di  languenti  trafitti,  e  un  calpestio 
Di  cavalli  e  di  &nti ,  e  sotto  il  grave 
Peso  de^  bronzi  un  cigoh'o  di  rote , 
Che  mestizia  e  terror  mettea  nel  core. 


CANTO  SECONDO 


ìL  FERITO  nfALBECCO 

Disse  a  Malvina  allor  commosso  UUiiio  : 
Odi,  figlia,  laggiù  que^  dolorosi 
Gemiti?  gli  odi?  Il  fier  lamento  è  quello 
Del  valor  moribondo.  Or  senti.  AncV  io 
Trattai  nel  fiore  delle  forze  il  brando 
In  crudeli  battaglie,  e  a  me  pur  anco 
Splende  di  belle  cicatrici  il  petto. 
Infelice  a  far  mia  degP  infelici 
La  sventura  imparai.  Scendiamo,  o  figlia, 
Scendiam  ^  cbè  grata  al  ciel,  né  indamo  spesa 
In  beneficio  del  valor  che  geme , 
Fia,  lo  spero,  laggiù  la  nostra  afta. 

Sbigottì ,  SGolorossi  a  tanto  invito 
La  non  awezxa  a  sanguinosi  obbietti 
Timidetta  donzeOa,  e,  in  lui  gli  sguardi 
Fissi  e  fermi,  tacca.  Poi  dal  paterno 
Esortar  fatta  più  secura ,  e  punta 
Dallo  strai  di  pietà,  che  ardite  e  pronte 
Fa  neU^uopo  d^onor  T anime  belle: 
Padre,  disse,  scendiamo;  e  coraggiosa 
L^orme  del  veglio  a  seguitar  si  mise. 
Van  per  mezzo  alla  strage,  e  non  gli  arresta 
H  terror  cb^esce  dalle  tronche  membra, 
E  dal  sangue  e  dall^  armi  orribilmente 
Sparse  e  confuse^  che  sostienli  e  guida 


IL   BARDO  DELLA   SELVà  NERA^   CAUTO    SECONDO  34 1 

La  virtù  che  fa  Paom  negli  ardui  tempi 
Più  pensoso  d^  altrui  che  di  sé  stesso. 
L^  andar  dei  due  pietosi  illuminava 
Tacita  e  pura  la  sorgente  luna, 
Che  per  veder  sì  santa  opra  scopria 
Tutto  il  vergine  volto,  e  rimovea 
U  invido  velo  delle  nubi.  Ed  ecco 
Per  V  orrendo  sentier  gli  attenti  sguardi    - 
Ferir  d^  Ullino  a  un  tempo  e  di  Malvina 
Giovin  guerriero ,  che  fra  molti  uccisi 
Giace  in  lago  di  sangue ,  e ,  stretta  in  pugno 
La  rubiconda  spada,  ancor  respira. 
L^  alta  strage  che  il  cinge ,  il  minaccioso 
Tener  del  brando,  ed  il  purpureo  nastro, 
Che  argomento  d^  onor  gli  fregia  il  petto , 
Fanno  invito  alla  vista.  Era  il  sembiante 
Fiero ,  ma  bello ,  e  su  la  nuda  fronte 
Della  luna  scendea  si  dolce  il  raggio, 
Che  rapito  ti  senti  a  riguardarla 
Di  pietade  e  d^amor,  e  qual  sia  primo 
O  non  r  intende  o  non  sa  dirlo  il  core. 

Vide  il  bel  volto  del  garzon  ferito 

La  tenera  Malvina,  e  pria  che  il  piede, 
Corse  r  alma  in  aiuto  all'  infelice , 
Che  di  questo  s*  accorse ,  e  colP  alzata 
Languida  mano  e  co'  natanti  lumi 
Le  rendea  la  mercè  che  colla  voce 
Nonpotea.  Molte,  né  però  mortali, 
Gli  solcavano  tutta  la  persona, 
E  a  poco  a  poco  gli  rapian  la  vita 
Le  ferite^  ed  uscia  di  ciascheduna 
In  un  col  sangue  una  segreta  voce 
Che  al  cor  parlava  di  Malvina.  Ond'ella 
Sciolte  ratto  dal  fianco  a  dalle  chiome 
Le  caste  bende,  con  Ullin  si  diede 
À  fasciarle  veloce^  e  della  piaga, 

MoRTL  Poemetti»  33 


3/^2  IL  BARDO  ÒELUl   SELVA  HBRA 

Che  occulto  strale  già  le  apria  nel  seno, 
La  meschinella  ancor  non  s^accorgea. 

E  già  lo  spirto  che  fuggia  col  sangue, 

Le  vie  del  cor  ripiglia,  e  per  le  membra 

Diffuso  riede  ai  consueti  officL 

Già  si  folce  sul  cubito,  già  sorge, 

Già  in  pie  sostiensi  il  Cavaliero,  e  puote 

Coli' aita  de'  duo  che  al  fianco  infermo 

Gli  fan  colonna ,  imprimer  V  orme ,  e  lento 

Movere  il  passo.  Non  sorgea  lontano 

D' Ullin  r  umile  tetto,  e  non  fu  lungo 

Del  venirvi  lo  stento.  Ivi  gioiosi 

Sovra  non  ricco  letticciuol,  ma  tutto 

Bella  spirante  pastoral  mondezza, 

n  corcar  mollemente.  E  ciò  che  Puopo 

Ghiedea  dell'  arte  ,  apparecchiato  ,  e  messo 

Di  medich'erbe  un  suo  tal  sugo  in  pronto, 

A  lavar  diessi  coli'  esperta  mano 

Ogni  piaga  il  buon  vecchio ,  ad  irrigarle 

Di  sanatrici  stille,  a  farle  tutte 

Innocenti  e  sicure.  In  mezzo  all'  opra 

Le  guardava  il  ferito  e  sorridea, 

E  colla  mano  coraggiosa  e  ferma 

Le  misurava,  e  gli  brillava  il  viso 

Come  raggio  di  Sol  che  dopo  il  nembo 

Ravviva  il  fiore  dal  furor  battuto 

D'  aquilon  tempestoso.  E  in  quel  gioire 

Il  cor  sospinse  i  suoi  purpurei  rivi 

Novellamente  a  risvegliar  le  rose 

Delle  pallide  guance^  e  nelle  vene 

Tornò  più  lieta  a  circolar  la  vita. 

Sciolse  allor  quell'  intrepido  la  voce  , 
E  con  guardo  sereno,  e  con  parole 
Che  sul  labbro  gì'  invia  la  conoscenza 
Del  ricevuto  beneficio ,  disse  : 
Generoso  mortai,  che  al  fato  estremo 


CASTO   SECONDO  343 

Mi  togli  9  e  tanta  dalla  nobil  fronte 
Riverenza  m^  inspiri ,  e  tu  che  mostri 
D^  angelo  il  volto,  e  la  pietosa  cura 
Con  lui  dividi,  amabile  fanciulla, 
Dite,  se  onesto  è  il  mio  pregar,  chi  siete? 
Di  che  gente  ?  Saper  di  chi  m^  ha  salvo 
Giovami  il  nome,  e  il  cor  lo  chiede,  il  core 
Che  non  ingrato  mi  fu  posto  in  seno. 
La  mercede  che  scarsa  io  vi  potrei 
Render  di  tanto,  vi  fia  larga  e  intera, 
Pria  dal  Ciel  che  le  belle  opre  corona , 
Poi  dal  possente  mio  Signor  renduta^ 
Che  liberal ,  magnanimo  ,  cortese 
Del  par  che  invitto  è  de' Francesi  il  Sire, 
E  nel  far  lieta  la  virtude  esulta. 
Guerrier,  rispose  Ullino,  il  tuo  coraggio, 
La  tua  ne' mali  alacrità  già  detto 
IVr  avean  la  patria  tua.  Io  dell'averti 
Tolto  a  morte,  e  servato  al  tuo  Signore 
Sento  letizia,  eh'  ogni  detto  eccede. 
Ma  tu,  figlio,  tu  fai  misero  e  vile. 
Promettendo  mercede,  il  beneficio. 
Sta  qui  dentro  il  mio  premio ,  in  questo  petto , 
Premio  che  darmi  né  tu  puoi,  né  il  Grande , 
Per  cui  combatti.  Né  però  disdegno 
Del  tuo  cor  grato  i  sensi,  e  mi  fia  dolce 
(  Ecco  tutto  che  bramo  )  il  saper  vivi 
Nella  tua  rimembranza  il  Bardo  Ullino, 
E  costei,  che  pietosa  in  tuo  soccorso 
Volò  primiera,  ed  è  la  speme,  il  raggio 
Dell'  inclinato  viver  mio.  Nel  fine 
Di  questo  detto  caramente  ei  prese 
La  fanciulla  per  man,  che  compiaciuta 
Chinò  i  begli  occhi  verecondi ,  e  tosto 
Gli  alzò  furtivi  e  timidetti  al  volto 
Del  già  caro  garzone^  ed  ei  la  stava 


344  n.  BABDO   lALLà  SELVA  HBU 

Già  contemplando,  e  P ultime  parole 

Del  buon  canuto  ripetea  nel  core. 

Si  scontraro  gli  sguardi,  e  negli  sguardi 

L^alme  sospinte.  In  lei  beossi,  e  ferma 

La  vista  ei  tenne:  di  color  cangiossi 

L^  altra ,  e  atterrò  V  oneste  luci.  Il  veg^o 

L'abbracciava,  e  seguia:  Questo  diletto 

Di  santbsimi  nodi  unico  fimtto 

(Nodi  troppo  per  tempo,  ohimè!  recisi, 

Ma  troppa ,  o  cielo  •  ti  parca  la  gioja 

De' sereni  miei  di!),  questa  gentile 

Tenera  pianta,  come  valgo ^  all'aura 

Della  virtude  coltivando  io  vegno, 

E  in  lei  comincia,  in  lei  tutta  finisce 

La  mia  cura,  il  mio  regno.  EUa'm'é  tutto, 

E  la  man  cara  della  mia  Malvina, 

Questa  mano  innocente,  allor  che  morte 

Chiamerà  la  mia  polve  entro  la  tomba, 

I  lumi  in  pace  chiuderammi.  Aperse 

À  que'  detti  Malvina  ambe  le  braccia. 

Intenerita  le  ricinse  al  collo 

Dell'amato  vegliardo,  e  su  lui  tutta. 

Senza  veruna  profferir  parola. 

Cadde  col  capo  in  abbandono,  e  pianse. 

A  quell'  atto  d'  amor  tanto ,  a  quei  volti 

Dolcemente  confusi,  a  quelle  mute 

Lagrime  alterne,  si  senti  sul  ciglio 

Correr  pur  esso  una  segreta  stilla 

n  sospeso  guerriero,  e  per  le  membra 

H  dolor  tacque  delle  sue  ferite^ 

Ma  non  già  tacque  il  cor,  che  il  molto  affetto 

Dicea  con  gli  occhi  rugiadosi  e  fissi. 

Ruppe  alfin  quella  dolce  estasi  Ullino, 

E  rasciutta  la  guancia,  amicamente 

AU'  estatico  disse  :  Io  satisfeci , 

Sconosciuto  Francese,  al  tuo  desire. 


curro  sBCORDo  345 

Mi  nomai  Bardo  ^  e  in  questo  nome  apeni 

Tutto  che  sono.  Per  te  stesso  or  sai 

Ch^  io  son  de^  buoni  e  in  un  de'  forti  amico, 

In  solitaria  povertà  non  vile, 

Ricco  di  cor,  di  pace  e  di  contento. 

Né,  perchè  Bardo,  argomentar  che  rozzo, 

Qual  già  piacque  armici  prischi,  e  scevro  in  tutto 

Da  civile  dolcezza  il  tenor  sia 

Di  mia  vita^  che  care  a  me  pur  sono 

Le  virtù  cittadine ,  e  precettori 

Nella  somma  de'  carmi  arte  divina 

Non  mi  fur  sole  le  tempeste  e  i  nembi, 

I  torrenti,  la  luna,  e  le  pensose 

Equitanti  le  nubi  ombre  de' padri; 

Ma  i  costumi  ben  anco  e  le  dottrine , 

E  gli  affetti,  e  i  bisogni,  e  le  vicende 

Dell' uom,  cui  nodo  social  costringe; 

Che  eulta  ancora  la  natura  è  bella. 

Ben  fu  stagion  che  maestosa  e  diva. 

Non  che  bella  m'  apparve ,  innanzi  a  quella 

De' vostri  vati,  la  natura  espressa 

Ne' bardi  carmi,  e  grande  io  si  l'estimo 

In  suo  rozzo  vestir.  Ma  fantasia 

Sempre  avvolta  di  nembi,  e  sempre  al  lampo 

Delle  folgori  accesa,  ed  al  ruggito 

D'uniformi  procelle,  a  lunga  prova 

La  bramosa  di  nuove  dilettanze 

Alma  nel  petto  mi  stancava;  e  dentro, 

Si  qui  dentro  sentii  che  d'qn  sol  fiore 

Ir  contenta  non  può  questa  divina 

Nostra  farfalla.  Allor  vid'  io  che  il  Bardo 

Pittor  non  era  si  fedel,  qual  sembra. 

Di  natura;  che  varia  ella  e  infinita 

Nell'opre  sue  rlsplende;  e  circoscritta 

Sotto  i  bardi  pennelli  è  ognor  la  stessa. 

Non  che  il  mio  stato,  ti  fei  chiari,  o  figlio, 


346  IL   BÀBDO   IIELLA    SELVA    HKRA 

Quali  in  petto  li  serro  j  i  miei  pensieri. 
Or  piacciati  cortese  a  me  tu  pure 
Nomarti,  e  dime  i  genitori.  E  qaesto 
L^  interrogar  che  primo  esce  del  labbro 
De^  vegliardi,  e  mi  so  che  dolce  in  petto 
Di  buon  figlio  risnona*  Come  poscia 
Tua  salute  11  consenta,  di  più  lungo 
Desire  antico  mi  farai  contento. 
Guerrier  mi  giova  de'  guerrieri  udire 

I  magnanimi  affanni;  e  del  tuo  Duce, 
Che  tutta  del  suo  nome  empie  la  terra, 
E  ne  libra  i  destini,  è  tempo  assai 
ChMo  solingo  di  selve  abitatore 

Molto  udir  bramo.  E  molto  udrai,  rispose 
Sollevando  la  testa  il  Cavaliero; 
Ch'io  su  gl'Itali  campi,  ove  le  penne 
Al  primo  volo  la  sua  fama  aperse, 
E  sul  barbaro  Nilo ,  e  fi*a  F  eteme 
Nevi  dell'Alpi  il  seguitai  fedele, 
E  tutte  del  suo  brando  e  del  suo  senno 
L'opre  vidi  e  conobbi,  e  nel  volume 
Tutte  le  porto  della  mente  impresse. 
Medicina  sarammi  all'egro  fianco 

II  narrarle.  S'  appaghi  intanto  il  primo 
Tuo  dimando.  Terigi  è  il  nome  mio. 
D'Itala  madre  mi  produsse  in  riva 
Dell' umil  Varo  genitor  Francese, 

Un  di  que' prodi  che  passar  fur  visti 
Su  generose  antenne  alla  vendetta 
Dell'oltraggiato  American.  Me  privo 
Del  morto  padre  in  povera  fortuna. 
Ma  in  non  bassi  pensieri  e  sentimenti 
Nudri  la  madre  coraggiosa.  E  (piando 
La  non  ben  nota,  né  raccesa  ancora 
(  Come  fulmin  che  dorme  entro  la  nube  ) 
Virtù  del  magno  Bonaparte  scese 


CANTO    SECONDO  347 

Nell^ Italico  piano,  arse  d^un  bello 

Desio  di  gloria  il  giovanil  mio  petto , 

Né  della  patria  la  chiamata  attesi, 

Ma  volontario  mi  proffersi.  ÀI  seno 

Mi  serrò  la  dolente  genitrice, 

Dolente  sì,  ma  non  tremante,  e,  alzate 

Le  luci  al  cielo ,  benedisse  il  figlio , 

Con  queste ,  che  profonde  mi  riposi 

Nel  più  sacro  dell^  alma ,  alte  parole  : 

Figlio,  tu  corri  a  guerreggiar  la  terra 

Che  mi  die  vita.   Non  odiar  tu  dunque 

La  patria  mia,  che  tua  divien,  che  nullo 

Fece  oltraggio  alla  vostra.  I  suoi  tiranni 

V  oltraggiaro ,  non  ella ,  che  cortese 

Arti  diewi  e  scienze ,  ed  or  bramosa 

V^apre  le  braccia,   e  a  sé  vi   chiama,  e  spera 

Dal  Francese  valor,  non  danno  ed  onta, 

Ma  presidio  e  salute,  e  delP antico 

Suo  beneficio  la  mercè.  Calcando 

L^  Itala  polve ,  ti  rammenta  adunque 

Che  tutta  è  sacra  ^  che  il  tuo  pie  calpesta 

La  tomba  degli  eroi  \  cV  ivi  han  riposo 

L'  ombre  de'  forti ,  e  che  de'  forti  i  figli 

Hanno  al  pie  la  catena,  e  non  al  core^ 

Che  in  que'cor  non  mori,  ma  dorme  il  foco 

Dell'  antica  virtù  ^  dorme  il  coraggio  ^ 

Dormon  le  grandi  passioni.   Oh  sorga. 

Sorga  alfine  alcun  Dio  che  le  risvegli , 

Che  la  reina  delle  genti  al  primo 

Splendor  ritomi,  ed  il  sepolto  scettro 

Della  Terra  rialzi  in  Campidoglio! 

Questi  voti  al  valor  consacro,  o  figlio. 

Dell'  auspicato  Bonapartc.  Il  fiero 

Spirto  che  ferve  in  quel  profondo  petto , 

È  dell'  Italo  Sole  una  scintilla , 

E  1'  ai^dir  delle  prische  alme  Latine 


348  n.  BÀADO  DELLA  SELVA  NERA 

Sul  SUO  brando  riposa.  Or  tu  fra  rarmi 
Duce  seguendo  di  cotanta  speme, 
Possa  tu ,  figlio ,  meritarti  il  grido 
Di  buon,  di  prode,  di  leal  guerriero, 
E  tornar  salvo  ad  asciugarmi  il  pianto 
Che  mi  lasci  partendo.  E  qui  troncaro 
Le  lagrime  la  voce.  H  cielo  io  cbiamo 
In  testimonio,  e  te,  cara  e  sovente 
Del  mio  sangue  bagnata  Ausonia  terra. 
Che  della  madre  io  fui  fedele  ognora 
Ai  santi  avvisi ,  e  rispettai  le  tue 
Maestose  sventure,  e  qual  seconda 
Patria  t^  amai  ^  che  ben  di  senso  è  privo 
Chi  ti  conosce ,  Italia ,  e  non  t^  adora. 
E  voi  di  Dego  e  Montenotte  orrendi 
Dirupi ,  e  voi  dell^ Adige  e  del  Mincio 
Onde  battute,  fatemi  voi  fede. 
Che  né  disagio,  né  periglio  alcuno 
Schivai  d^  armi ,  né  fui  pugnando  avaro 
Della  mia  vita.  Si  commosse  Ullino, 
Si  commosse  Malvina  a  quel  pietoso 
Racconto,  e  i  moti  fea  del  cor  palesi 
L^  alta  eloquenza  del  tacer.  Quetato 
Degli  affetti  il  tumulto,  si  riscosse 
n  Bardo ,  e  disse  :  Nella  tua  favella 
Una  forte  risplende  alma  sublime. 
Valoroso  Terigi  ^  e  T  ascoltarti 
£  gioia  che  si  sente  e  non  si  parla. 
Ma  di  qmete  or  le  tue  piaghe  bau  d^uopo 
D^  alta  quiete  :  e  il  sanator  di  tutte 
Cure,  r amico  degli  afflitti,  il  sonno. 
Tempo  è  che  scenda  a  riparar  le  spente 
Tue  forze.  Avremo  alle  parole  assai 
Ore  acconce  altra  volta.  In  questo  dire 
Surse  il  veglio,  abbracciollo^  e  su  le  labbri 
Ponendo  in  atto  di  silenzio  il  dito, 


CAUTO   SECONDO  34g 

Allontanossi.  Taciturna  e  lenta 

D  segoia  la  donzeUa,  e  un  guardo  indietro 

DaUa  soglia  piegò  con  un  sospiro 

Che  dicea:  parte  il  pie,  ma  resta  il  core. 


CANTO  TERZO 


LÀ  PRESA  DI  ULMA 


Mentre  d^Ullino  nei  riposti  alberghi 
Tacitamente  Amor  un  suo  leggiadro 
Colpo  prepara ,  e  la  Virtù  gli  è  duce  , 
Due  di  Virtù  nemiche ,  e  d'  ogni  bello 
Senso  d'onor,  Paura  e  Codardia, 
Nella  stretta  d^  assedio  Ulma  turrita 
Tale  ordiscono  turpe  opra  di  guerra , 
Che  della  più  non  sarà  mai  che  parli 
Vergognando  la  fama.  AUor  che  fìnitto 
D' infernale  imeneo  la  tenebrosa 
Deir  Èrebo  consorte  etema  Notte 
L^ Angoscia  partorì,  Tlnsidic,  il  Pianto, 
La  malvagia  Fatica,  e  la  Menzogna, 
E  con  le  bieche  rubiconde  Risse 
Delle  leggi  il  Disprezzo,  e  la  deforme 
Consigliera  di  colpe  orrida  Fame , 
Cognati  tutti   e  spaventosi  aspetti^ 
La  negra  madre  con  nefando  parto 
La  Codardia  produsse  e  la  Paura  ^ 
Luridi  mostri,  che  di  Giove  il  senno 
Fé  di  Marte  ministri.  Ed  ei,  siccome 
Più  gli  talenta,  a  sbigottir  li  manda 
Le  percosse  città ,  di  falsi  empiendo 
Rumor  gli  orecchi,  e  di  sgomento  i  petti. 
Or  tu ,  Diva  del  canto  ,  a  cui  palesi 
De'  mortali  son  F  opre  e  degli  Dei , 


IL   BARDO   DELLA   SELVA   NERA,    CANTO    TERZO  35 1 

E  ti  ragiona  ei  pure  i  suoi  segreti 
n  Fato  9  di  cui  trema  ogni  altro  Iddio , 
Tu,  che  dentr^  Ulma  oprar  le  nequitose 
Torve  sorelle  mi  «racconta,  e  adempi, 
Libera  e  vera  saettando  i  vili, 
La  vendetta  de'  forti.  E  primamente 
Narrami  di  che  loco  al  turpe  fatto 
La  Paura  volò.  Sola  e  disgiunta 
Dalla  sozza  sirocchia  (  che  non  sempre 
Di  Codardia  compagna  è  la  Paura), 
Stava  la  Dira  sul  Britanno  lido 
Seminando  il  terror  delle  Francesche 
Armi ,  e  destando  d'  ogni  lato  in  fretta 
Le  difese  e  T  offese.  Era  ne' porti 
Un  sobbuglio,  una  pressa,  una  faccenda 
Mirabile  a  vedersi.  Altri  devolve 
Dai  fervidi  arsenali  in  mar  gli  abeti , 
Che  van  su  V  onde  a  rinnovar  co'  venti 
L' antica  lite ,  e  i  cavi  seni  han  gravidi 
Di  tradigion,  di  ferro  e  di  coraggio. 
Altri  il  fianco  ristoppa  alle  sdruscite 
Navi,  e  sarte  rintégra,  e  monche  antenne, 
E  lacerate  vele.  Altri  ai  ridotti 
E  alle  bastite  orribile  ghirlanda 
Fan  de' concavi  bronzi  imitatori 
Del  fulmine  celeste.  E  per  le  vie 
Brulicanti  frattanto,  e  per  le  prode 
Tale  un  gemer  di  rote,  im  incessante 
Picchiar  d' incudi  e  di  martelli ,  un  sempre 
Ire  e  redir  di  ciurme  e  di  soldati, 
D'  armi ,  di  carri  e  di  navali  arnesi , 
Che  1'  udire  e  il  veder  mettean  nelF  alma 
In  un  solo  sentir  confusi  e  misti 
Terror,  diletto  e  maraviglia.  A  tanta 
Provvidenza  di  mezzi,  a  tanta  mole 
Di  travaglio  assistente  è  la  Paura, 


35a  IL  bJlbdo  dbllà  osl^l  hbra 

Che  per  tatto  discorre  e  tutto  osserva, 
Tutto  esamina  attenta,  e  mai  non  posa. 

Poi  quando  su  le  dure  opre  mortali 
Stende  il  velo  la  notte,  alto  s^ estolle 
Su  le  nubi  la  Furia,  e  con  lugubre 
Lungo  ululato  orrendamente  grida: 
Bonaparte.  Si  svegliano  al  tremendo 
Nome  gli  azzurri  addormentati,  e  corrono 
Alle  vedette  rabbu&ti  e  pallidi. 
Notano  da  che  parte  il  vento  spiri, 
E  del  mar  su  le  fosche  onde  la  vista 
Intendendo  e  V  orecchio ,  ad  ogni  fiotto 
Temon  V  arrivo  delle  Franche  antenne. 
Svegliasi  ancV  esso  di  Windsor  su  V  ebre 
Piume  il  deliro  Coronato,  e  corre 
Con  la  mano  a  cercar  su  V  irta  chioma 
In  gran  sospetto  il  regal  serto,  e  pargli, 
Pargli  il  trono  veder  che  crolla  e  fiigge. 

Ma  imperturbato  il  regnator  ministro, 
Che  sonno  non  permette  alla  pupilla. 
Né  si  scuote  a  quel  grido,  né  sembiante 
Fa  di  temerlo.  Àllor  furtiva  e  queta 
A  lui  viene  la  Dira,  e  nelle  chiuse 
Arcane  stanze  gli  ritrova  al  fianco 
Orrenda  compagnia.  Vi  trova  il  vile 
Tradimento,  che  strigne  nella  dritta 
Pugnale  acuto,  e  stende  F  altra  al  prezzo 
Delle  scoppiate  indamo  in  su  la  Senna 
Polveri  infeme^  e  più  felici  colpe 
Feroce  e  bieco  vantator  promette. 
La  sannuta  vi  trova  e  ardimentosa, 
D'  ogni  onorato  e  degli  eroi  flagello. 
Svergognata  Calunnia  con  le  piene 
Man  di  libelli ,  in  cui  la  ria  distilla 
I  pagati  veleni.  Evvi  V  avara , 
Che  d^  oberato  senator  gli  vende 


CAUTO   TERSO 

n  sufiragio  e  la  voce.  Eyyì  abbracciato 
Con  la  Perfidia  il  rompitor  de^  patti 
Falso  Interesse,  cbe  del  patrio  amore 
Ha  la  larva  sul  ceffo.  Evvi  di  tatte 
La  più  nera,  colei  che  al  conio  suda 
De^  falsati  metalli,  e  di  mentito 
Stigma  imprime  le  carte,  a  cui  di  tutti 
La  sostanza  è  creduta.  Han  le  medesme 
Figlie  d^Avemo  orror  di  questa  iniqua^ 
Ewi  ancor  V  esquisito  empio  Diletto 
Delle  lagrime  altrui^  ewi  l'Orgoglio 
Dei  sublimi  delitti^  ewi  la  Rabbia 
Delle  vane  congiure,  e  degli  errati 
Calcoli,  ed  altre  d'esecrato  aspetto 
Tartaree  forme  ^  e  tutte  intomo  al  capo 
Dell'arbitro  Britaimo  un  mormorio 
Fan  conftiso  e  feral,  quale  ne' boschi 
Del  Gargaro  racchiusi  e  già  vicini 
A  far  tempesta  i  venti:  il  rombo  n'ode 
L'arator  da  lontano,  e  sul  periglio 
Della  già  bionda  spiga  impallidisce. 
Tale  e  più  rauco  è  il  susurrar  là  dentro 
Delle  spietate  in  quella  vasta  e  scura 
Di  misfatti  officina^  e  or  l'una,  or  l'altra 
Va  consultando  e  carezzando  il  macro 
Degli  Angli  correttor,  mentre  alle  porte. 
Che  Crudeltà  tien  chiuse,  inesaudito 
Batte  il  Pianto  d'Europa.  In  mezzo  a  tanta 
Tenebrosa  congrèga,  la  Paura 
Comparisce  improvvisa,  e  le  raccolte 
Negre  sorelle  di  spavento  agghiaccia^ 
Gli  occhi  immobile  affigge  su  lo  smorto 
Anglo,  il  contempla,  e  non  fa  motto.  Alfine 
Dalle  chiome  spiccando  una  fischiante 
Cerasta,  al  petto  glie  l'appicca,  e  grida: 
Guarda  e  trema.  In  quel  dir  sciogliesi  tutta 


353 


354  ^   BAADO    DELLA    SELVA   HBRÀ 

In  levissimo  fumo,  e  per  le  nari 

E  per  la  bocca  gli  discende  al  core. 

Guarda  il  misero,  e  vede,  oh  che  mai  vede? 

Squarciato  vede  e  sanguinoso  il  petto 

Di  larga  piaga  al  fiero  e  non  mai  vinto 

Yincitor  d^Àbukire^  e  alla  caduta 

Del  truculento  EIroe  pargli  che  tutto 

D^Albìon  cada  il  vanto  e  la  speranza. 

Vede  lui  stesso  atroce  ombra  rabbiosa 

Su  gli  Atlantici  flutti  perseguire 

Dell^  Ispano  e  del  Franco  i  galleggianti 

Cadaveri  9  ed  il  morso  empio  su  quelli 

Rinnovar  di  Tideo.  Vede  all'  orrendo 

Atto  fuggir  le  vinte  ombre  atterrite  y 

Ed  ode  in  quella  un'esultante  voce, 

Che  su  i  campi  Moravi  la  vendetta 

Del  Franco  nome  a  contemplar  le  chiama. 

Ode  poscia  un  lamento,  un  suon  confìiso 

Di  molte  voci  di  dolore  e  d' ira , 

Che  d'ogni  parte  lo  percuote^  e  vede 

Da  quei  gridi  invocata  e  taciturna 

A  gran  passi  venir  la  domatrice 

D'ogni  possanza  e  d'ogni  rio,  la  Morte. 

E  la  vede  egli  si,  che  già  ne  sente 

Ne'pobi  il  gelo 5  e  nel  morir,  più  eccelso 

Mira  innalzarsi ,  ahi  vista  !  e  più  temuto 

Del  guerreggiato  suo  nemico  il  trono, 

E  al  pie  di  lui  preganti  con  le  rotte 

Corone  in  mano  i  re  venduti  e  vinti. 

Al  crudele  spettacolo  d'un  freddo 

Sudor  si  bagna  il  disperato ,  un  guardo 

Gitta  smarrito  alle  bilance  infami 

Compratrici  de' regi:  ed  ahi!  le  mira 

Traboccanti  di  sangue,  e  le  man  sangue 

Grondano ,  e  al  pie  gli   sgorga  e  bolle  un  fiume 

Di  sangue  che  ognor  cresce,  e  alfin  l'affoga. 


CANTO   TERZO  355 

Questi  oprava  la  Dea  strani  terrori 
Ne^  Britanni  cerébri.  Si  diparte 
A  iniqua  provocato  ingiusta  guerra 
Ratto  qual  lampo  dal  Piccardo  lido 
Il  Guerrier  de'  guerrieri ,  e  al  suo  partire 
Si  toglie  ancV  essa  d'Albìon  la  Dira  , 
Precorrendo  V  eroe.  Piomba  su  V  Istro 
Tacitamente^  sMntromette  occulta 
Nel  Teutonico  campo ,  e  de'  suoi  geli 
Tutto  lo  sparge 

Da  due  tante  d'onore  awersatrici 
Posseduto ,  incalzato ,  esagitato  y 
Che  farà  V  infelice  ?  Àrduo  torreggia 
Ed  aspro  tutto  di  fulminee  bocche 
n  muro  che  lo  serra,  e  par  che  debba 
Da  tutti  assalti  assicurai^lo.  Gravi 
Gemon  di  molta  cerere ,  e  per  molte 
Lune  provvista  le  riposte  celle. 
Nulla  è  che  manchi  a  qual  sia  uopo.  Al  fianco 
Gli  stan  tre  volte  dieci  mila  intatte 
Spade ,  e  assai  prodi ,  a  cui  morir  più  giova , 
Che  patteggiar  la  vita,  ed  incruente 
Ceder  Farmi.  Che  più?  Pugnan  per  lui 
I  venti  e  l'onde.  Impetuosa  pioggia 
L'assediante  flagella.  Irato  inonda 
L' Istro  il  vallo  Francese.  E  qual  già  sotto 
Le  fatali  di  Troia  inclite  mura 
Di  Teti  al  figlio  oppor  si  vide  il  Xanto 
I  divini  suoi  flutti ,  e  del  gran  d' ilio 
Ritardar  la  caduta^  non  diverso 
Contra  il  Gallico  Eroe  le  violente 
Onde  solleva  il  regnator  superbo 
De'  Germanici  fiumi ,  e  d' Ulma  i  tiùsti 
Fati  pur  tenta  difierh*.  Ma  indarno 
Per  lo  vii  duce ,  che  lì  tolse   in  cura , 


356  a.  BÀADO   DBLLi    8BLTA   NERA 

D^iin  Dio  combatte  la  possanza.  Antica 
Sua  compagna  fedel  la  Codardia, 
Ogni  favilla  di  valor  gli  ammorza 
Nell^  attonito  petto.  E  quando  i  lumi 
Gli  occupa  il  sonno ,  la  schifosa  assume 
Gli  atti 9  r andar,  la  voce,  il  portamento 
Della  Diva  Prudenza,  e  a  lui  sul  capo 
Librandosi,  e  raggiando  di  gran  luce. 
Cosi  prende  a  parlar:  Macco,  tu  dormi? 
Tu  diletto  mio  figlio?  E  in  qual  ti  stai 
Rischio  orrendo  non  badi?  Il  Franco  ardilo 
L^  erte  intomo  già  tiene ,  e  signoreggia 
La  non  forte  città.  Cadde  Memminga, 
Cadde  Gunsburgo:  d^ogni  parte  rotti 
Fuggono  i  tuoi:  le  Russe  armi  son  lungi, 
E  il  saranno^  nessuna  in  tanto  estremo 
Speme  rimanti  di  soccorso:  e  ancora 
Fai  dimore  alla  resa,  e  Tire  inaspri 
Del  vincitor?  Che  attendi?  H  rio  macello 
Forse  ignori  di  Jaffa,  e  che  crudele 
Spesso  diventa  la  pietà  schernita? 
Sorgi,  e  fa  senno  dermici  detti,  il  senno 
Che  un  di  nel  campo  Capùan  ti  fece 
La  rossa  abbandonar  vinta  bandiera 
Prigionier  fortunato,  e  poi  di  nuovo 
Più  fortunato  fuggitivo.  Il  vulgo 
Quell^  abbandon  vii  disse,  e  quella  fiiga^ 
Ma  ti  die  laude  di  scaltrito  il  saggio, 
E  PÀnglo  t^ ammirò,  FÀnglo  che  volle 
De^  congiurati  eserciti  commesso 
ÀI  tuo  saper  il  carco  e  la  fortuna. 
Renditi  dunque,  renditi,  son  io 
Che  di  ciò  ti  consiglio,  io  che  il  passato 
Dell^  avvenir  fo  speglio.  Se  più  tardi. 
Passa  il  momento  del  perdon  :  furente 
Entra  il  Franco  d^ assalto,  e  tu  con  tutti, 


J 


CAUTO    TERZO  35^ 

Tu  se^  morto.  Dispaire  in  questo  dire 

Con  un  guizzo  di  luce  la  mentita 

Diva,  e  tornò  nel  primo  volto.  Allora 

Sul  cor  tutta  gli  stende  la  Paura 

La  man  firedda,  e  lo  strìgne,  e  della  suora 

La  vile  opra  sigilla.  Esterrefatto 

Balza  il  misero  in  piedi.  Udir  già  pargli 

DegP  ignivomi  bronzi  il  tuono,  e  il  grido 

Dell^ assalto^  veder  pargli  divelta 

Dai  fondamenti  la  cittade,  e  sopra 

La  fervida  mina  alto  apparire 

n  gran  guerrier,  che  inesorato  invia 

D'  ogni  intomo  la  morte.  Alla  pensata 

Vista  feral  confuso,  istupidito 

Pensa,  volge,  rivolge.  Ira,  rimorso, 

E  furore,  e  vergogna  in  un  raccolti 

L'avvampano,  ma  tutti  in  cuor  gli  estingue 

Delle  paure  tutte  la  più  cruda, 

Napoleon.  Da  tanto  nome  oppresso 

Cede  Parme  il  meschin,  cede  un  integro 

Esercito  captivo^  e,  col  terrore 

Sol  del  nome,  incruente  e  stupefatte 

Cittadi  e  regni  il  mio  Si^or  conquista. 


Morti.  Poemetti,  a3 


CANTO  QUARTO 


IL  RIPOSO 


Su  le  Noriche  nevi  alta  già  sparge 
Le  sue  rose  P Aurora,  e  saltellante 
Di  ramo  in  ramo  il  passer  mattutino 
In  suo  garrire  la  saluta ,  e  cliiama 
Alle  cure  campestri  il  yillanello. 
Surge  Ullin^  ma  d^amor  punta  la  figlia 
Già  vegliava  infelice,  e  del  languente 
Terigi  tutta  notte  avea  portato 
Nel  pensier  le  ferite  e  le  parole. 
Trovolla  il  padre  su  le  soglie  assisa 
Della  stanza,  ove  giace  il  giovinetto, 
Guardiana  pietosa,  ad  ogni  lieve 
Rumor  d^aura  mettendo  alle  socchiuse 
Valve  r orecchio,  e  palpitando.  E  quegli, 
Fatto  sicuro  della  vita,  e  vinto 
Dal  soave  sopor,  che  nelle  stanche 
Membra  si  grato  la  natura  infonde, 
Del  perduto  vigor  prendea  ristauro 
In  dolcissimo  obbho.  Sereno  intanto 
L^almo  dlperìon  lucido  figlio 
Su  le  Pannonie  cime  i  rugiadosi 
Destrier  sferzando  lampeggiava  il  puro 
Fulgido  riso  allegrator  del  Mondo, 
E  su  le  vinte  d^  Ulma  eccelse  miura 
Di  tremoli  baleni  illuminava 
Lo  sventolante  tricolor  vessillo. 
Dalle  propinque  rupi  stupefatto 


IL  BARDO  DELLA  SELVA  NERA,  CANTO  QUARTO      SSq 

Il  Tedesco  Io  vide,  e  de^  futuri 
Danni  presago  ne  tremò.  L^  accorto 
Tirolese  lo  vide,  e  su  la  speme 
Di  destino  miglior  sorrise  e  tacque, 
n  Bavaro  Io  vide,  ed  alto  un  grido 
Di  giubilo  mandò,  che  T adorato 
Suo  Prence  richiamava,  e  i  rai  divini 
Della  Vergine  stella  adomatrice 
Del  Vindelico  cielo,  e  non  sapea 
Che  ciel  più  bello  glie  Favria  rapita. 
Yid^  egli  pur  la  vincitrice  insegna 
Dal  romito  suo  tetto  il  Bardo  Ullino, 
E  al  piagato  Guerrier,  che  al  dì  novello 
In  quellMstante  i  lumi  aprià,  ne  porse 
Esultando  V  avviso.  Ed  ei  F  infermo 
Fiai^co  sul  letto  sollevando,  e  tutto 
Tremante  di  piacere:  Oh!  chMo  la  vegga, 
GVio  la  vegga,  gridava.  E  sì  parlando 
Barcollante  si  leva,  alla  fidata 
SpaUa  si  folce  del  buon  vecchio,  e  il  passo 
Move^  e  di  forze  povertà  non  sente: 
Tanto  puote  la  gioia.  In  rusticano 
Acconcio  seggio  lo  compose  UUino 
Sul  varco  della  soglia,  e  dirimpetto 
GoU^accennar  del  dito  il  trionfante 
Vessillo  gli  mostrò.  Corse  al  Guerriero 
Tutta  Palma  negli  occhi  a  quell'aspetto. 
Gli  tolse  il  gaudio  le  parole^  e  V  atto 
Della  bocca,  del  ciglio  e  della  fronte, 
E  tutta  la  sembianza  era  un  sorriso 
Del  cor  che  lieto  per  la  vista  uscia. 
Da  quel  dolce  spettacolo  rimossi 

Ancor  Terlgi  non  avea  gli  sguardi, 
Quando  cupo  da  lungi  e  ognor  più  spesso 
Di  bellicosi  bronzi  un  tuon  sentissi, 
Ghe  deir  Istro  muggir  facea  le  rive 


36o  U.  BÀBDO  DELLA  SELVA  NERA 

Con  lugubre  rimbombo^  a  cui  gementi 
Scotendo  il  peso  delle  bianche  brume 
Con  sordo  echeggio  rispondean  le  selve. 
Eran  pugne  noveUe,  che  ne^  campi 
Di  Neresemo  e  Langenò  novelli 
Rapidi  lauri  raccoglieanó  al  crine 
Del  Magno  Bonaparte,  a  cui,  se  pure 
Altro  resta  da  farsi,  il  fatto  è  nulla. 
Qua  finisce  un  conflitto,*  e  là  comincia 
L^ altro;  e  veloci  d^un  sol  capo  al  cenno 
Per  diverso  sentiero  alla  vittoria 
Yolan  dovunqiie  delle  Franche  armate 
I  magnanimi  duci:  a  quella  guisa 
Che  delP  alto  Gottardo  i  fragorosi 
Liquidi  figli  dal  paterno  fianco 
Con  orrendo  fracasso  si  devolvono 
Per  quattro  pai*ti,  e  sbarbicate  e  lacere 
Giù  rotando  le  selve  a  quattro  pelaghi 
Portano  le  sorelle  onde  velivole 
A  nudrir  di  Nettuno  il  vasto  imperio, 
E  le  procelle  risonanti  e  i  turbini. 
Come  intese  Terigi  il  tuon  de^cavi 
Fulminanti  metalli,  indizio  certo 
Di  calda  zuffa,  fiammeggiò  nel  viso, 
Erse  il  capo,  gli  prese  il  corpo  tutto 
Una  smania,  un  tremor:  quale  il  Pugliese 
Generoso  destrier,  che  delle  tube 
Lo  squillo  udito  e  delle  spade  il  cozzo*, 
Vibra  incontro  al  romor  gli  acuti  orecchi 
Con  erto  collo  e  scintillanti  sguardi; 
Scalpita  la  sonante  ugna  il  terreno, 
Spiran  foco  le  nari,  e  alla  battaglia 
Par  che  sul  dorso  il  cavaliero  inviti. 
Tal  si  fece  Terigi.  Ed  ecco,  ci  grida 
Fieramente  animoso,  ecco  sanate 
Le  mie  ferite:  datemi,  rendete 


CANTO    QUARTO  36 

Al  mio  fiimco  V  acciar  :  vola  il  coraggio 
De' miei  fratelli  a  nuove  palme,  ed  io, 
Io  qui  resto?  io  che  tutto  ancor  non  diedi 
ÀUa  patria  il  mio  sangue,  al  mio  Signore? 
A  me  Tarmi,  su  via,  Farmi.  Ed  in  questa 
Si  rizzò,  ricercò  con  gli  occhi  il  brando, 
E  verso  quello  la  man  stesa,  il  passo 
Vacillante  tentò  ^  ma  non  rispose 
L'infermo  piede  alla  virtù  del  core. 
Posto  a  giacer  di  nuovo,  e  in  lui  sedato 
Quel  non  saggio  desio,  grave  lo  prese 
Per  la  mano  il  vegliardo,  e  così  disse: 
Figlio  ,  mal  serve  al  Prence  suo  chi  troppo 
Di  servirlo  s'adopra.  Arsa  di  vero 
Zelo  hai  tu  Palma  pel  tuo  Re?  fa  stima 
D' una  vita  a  lui  sacra*  I  suoi  guerrieri 
Sono  i  suoi  figli:  sue  pur  anco  adunque 
Le  tue  ferite.  E  tu  le  sprezzi?  e  vanto. 
Folle!  pretendi  di  fedel  soldato? 
Figlio,  a  che  questo  intempestivo  ardore. 
Questo  delirio  di  valor?  Perduto 
Temi  forse  il  momento  di  far  chiara 
La  tua  prodezza?  Della  patria  tutti 
Giaccion  forse  i  nemici?  Odi  vicina 
Rimuggir  la  Sarmatica  procella. 
Odi  il  pianto  de'  campi,  odi  le  grida. 
L'ulular  de' fumanti  arsi  paesi, 
E  V  alta  delle  genti  ira  che  chiede 
Alle  Galliche  spade  memoranda 
La  vendetta  d'  Europa ,  la  vendetta 
Della  eulta  ragion  venuta  a  zuffa 
Con  la  barbarie.  Allor  ben  mostro  e  speso 
Fia  l'ardir  che  t'accende,  allor  ben  dato 
n  sangue.  Or  pensa  a  rintegrarlo,  e  in  vana 
Guerresca  furia  non  gittar  l'avanzo 
D'  una  vita  non  tua.  Dimesso  e  mesto 


362  IL  BAADO  della  SKLVk   NERA 

Ghino  le  ciglia  a  quel  parlar  Teri^, 
Errò  col  guardo  su  le  sue  ferite, 
Le  tentò  con  la  mano,  e  dal  cor  pieno 
Ruppe  un  sospir,  che  lo  disciolse  in  pianto. 
M^  ebbe  il  Bardo  pietà;  furtivo  un  cenno 
Fé  degli  occhi  a  Malvina,  che  dell'arpa 
Lieye  lieve  si  pose  fira  le  dita 
Le  dolcissime  corde,  e  sul  dolore 
DelFamato  garzon  sciolse  il  concento: 

Piagato  e  languido 
Giace  il  guerriero, 
Dal  muro  pendere 
Vede  il  cimiero; 
Fitta  al  suol  mira 
L'asta,  e  sospira. 

Repente  scuotelo 
n  marzio  carme; 
L'invito  intendere 
De' prodi  all'arme 
Fargli ,  e  impedito 
Freme  il  ferito. 

Ma  ve' che  recagli 
Il  già  mertato 
Lauro  la  Gloria, 
Ed  al  suo  lato 
Dolce  s'asside: 
L'  eroe  sorride. 

Sorride,  e  memore 
Dei  di  felici 
Racconta  agli  avidi 
Pendenti  amici 
Di  Marte  orrende 
Alte  vicende. 


cAint)  QOARTO  363 

Natra  dell'  Itale 
Pugne  gli  aflPanni, 
Del  Nilo  domiti 
Narra  i  tiranni, 
E  Fornai  spenta 
Patria  redenta. 

Alle  magnanime 
Narrate  imprese 
L'  orecchio  tendono 
L'alme  sospese^ 
E  qualche  core 
Batte  d^  amore. 

Chinò  i  begli  occhi  al  fin  di  sue  parole 
L^  infiammata  donzella,  e  sa  le  gote 
Le  si  diffuse  del  pudor  la  rosa, 
Che  nata  appena  impallidì.  La  vide 
L'accorto  padre,  nel  cor  imo  scese 
Della  fanciulla,  e  tutta  ne  conobbe 
La  ferita.  Né  già  d' ira  fé  segno 
Né  di  dolor  ^  che  i  puri  occhi  del  cielo 
Cosa  non  ponno  contemplar  più  bella 
D^  amor  compagno  d' onestate.  In  lui 
Posa  de' padri,  la  speranza^  ei  dolci 
Rende  i  tormenti  della  vita^  ei  porge 
All'  arso  labbro  de'  mortali  il  sorso 
DeUa  celeste  voluttade,  e  tutta 
Gli  sorride  natura.  E  anch'ei  sorrise 
n  discreto  buon  vecchio,  e  nel  pensiero 
Antiveggente  l'avvenir,  rifulse 
Un  santo  nodo  già  nel  cielo  ordito^ 
Ma  neUa  mente  lo  si  chiuse,  e  tacque. 

Che  cor  fu  il  tuo,  Terigi,  che  consiglio 
Allor  che  aperto  balenar  vedesti 
Tanto  arcano  d'amor?  Fra  l'armi  e  l'ire 
Crescesti,  è  ver^  ma  di  Gradivo  i  duri 


364  I^   BkKDO    DELLA    SELVA    IffEHA 

Stadj  non  fero  al  cor  bennato  oltraggio. 
Valor  da  bella  cortesia  disgiunto 
Resti  al  sozzo  ladron ,  cbe  dagli  etemi 
Ghiacci  d^ Arturo  a  desolar  le  belle 
Nostre  spiagge  calò^  resti  al  crudele 
Che  ne  comprò  le  mercenarie  spade  ^ 
Resti  d^  Europa  all^  assassino.  Orgoglio 
Di  francese  guerriero  è  un  cor  gentile. 
Come  gli  accenti,  che  stupor,  rispetto, 
Desio,  speme,  timor  gli  avean  rapito, 
Potè  la  lingua  ripigliar,  si  volse 
Il  garzon  generoso  alla  donzella^ 
E  con  quel  dolce  favellar,  che  care 
Fa  le  parole  e  il  parlator,  si  disse: 
Celeste  al  par  deUuoi  begli  occhi  è  il  canto 
Del  tuo  labbro,  Malvina^  ed  efficace 
Ineffabil  dolcezza  su  Tamaro 
Dermici  pensieri  diffondesti.  Assai, 
Assai  m^  è  grave  udir  di  Marte  il  grido , 
Saper  ch^  altri  si  coglie  eteme  palme 
In  illustri  perigli,  ed  io  qui  starmi. 
Lasso!  inutile  peso.  Or,  poi  che  tolto 
Emmi  il  gran  Duce  seguitar ,  né  posso , 
Per  lui  pugnando  e  per  la  patria,  un  qualche 
Lauro  io  pure  intrecciarmi  a  questo  crine, 
Seguirallo  il  cor  mio,  dolce  mi  fia 
Raccontarne  F  imprese,  e  far  piti  mite, 
Ragionando  di  lui,  la  mia  sventura. 
Ma  che  prima  dlronne,  e  che  dappoi? 
Che  tutto  nell^Eroe,  tutto  è  portento 
Di  fortezza,  di  senno  e  di  coraggio^ 
E  i  di  son  meno  che  i  portenti,  e  il  vero 
SI  di  menzogna  le  sembianze  acquista, 
Che  per  fede  ottener,  forza  gli  è  spesso 
La  sua  luce  scemar.  Luce  di  vivo 
Limpido  Sole.  P interruppe  Ullino, 


CANTO  QXrARTO  365 

Fa  cieco  il  guardo,  uè  sostienla  il  ciglio , 

Se  la  man  noi  soccorre,  o  temperanza 

Di  frapposti  vapori.  E  tal  pur  anco 

A  noi  sfavilla  la  virtù  di  questo 

Ammirando  mortai,  che  P  infinita 

Di  lassù  provvidenza  in  travagliosi 

Tempi  concesse  al  declinato  Mondo 

Per  emendarlo ,  e  agli  arbitri  scettrati 

Della  terra  insegnar  la  già  perduta  ,^ 

O  ceduta  a^  malvagi  arte  del  regno. 

DelPardue  cose  per  lui  fatte  il  grido 

A  qual  non  venne  orecchio  ?  e  chi  narrarle 

Puote  od  udirle,  e  serbar  freddo  il  petto  7 

Ben  io  molte  n"*  intesi  insin  d' allora 

Che  deir  alpestre  Mondo  vi  comparso 

Su  le  balze  tremende  i  primi  allori 

Giovinetto  mietea  strappati  al  crine 

Di  canuti  nemici.  E  a  me  pur  anco 

D^ogni  tumulto  cittadin  diviso, 

A  me  pur  giunse  il  suon  della  mina, 

Che  sul  Lombardo  piano  si  diiluse, 

E  d^Arcoli  al  fatai  ponte  percosse 

La  Tedesca  fortuna.  Oh  che  ricordi? 

Interruppe  Terigi.  Arcoli?  oh  nome, 

CVogni  cor  Franco  allegri,  e  il  mio  confondi! 

Oh  d^ Arcoli  crudel  notte!  tu  splendi 

Nel  mio  pensiero  etema:  le  tue  sacre 

Ombre  fur  conscie  del  mio  fallo,  e  in  uno 

Del  sacramento  che  giurai  di  tutto 

Espiarlo  col  sangue:  e  tutto  ancora 

Noi  satisfeci.  Risvegliar  gue^  detti 

Curioso  un  desio  nelP  ascoltante 

Bardo,  e  Malviua  palpitò.  Ma  ninno 

Fame  osava  dimanda,  e  si  tacea. 

Allor  riprese  il  Gavalier:  Porgete, 

Miei  cari,  orecchio;  e  quale  e  quanto  affetto, 


366  IL  BARDO  DSLLl  SELVA  NERA 

Quanta  fede  legar  debba  d^  etemo 
Nodo  quest^abna  al  mio  Signore ,  udite. 
Altri  in  mezzo  alle  pugne  ^  o  fra  P  eccelse 
Cure  del  trono,  il  grande  animo  cerchi 
Di  Bonaparte^  io  vo^  mostrarne  il  core. 
La  notte  cbe  segui  d^Arcoli  il  duro 

Conflitto,  a  me  del  lungo  pugnar  lasso 
Fu  commessa  una  scolta.  Di  yergogna 
Nel  rimembrarlo  avvampo,  e  la  parola 
Baccontando  mi  fogge.  La  stanchezza, 
Ch'anche  in  mezzo  al  ruggir  delle  tempeste 
Addormenta  il  nocchier,  vinse  me  pure, 
SI  che  posto  in  vedetta,  immantinente 
ì/r  occupa  il  sonno,  e  tutti  in  un  profondo 
Obblio  sommerge  i  travagliati  spirti. 
Ma  r  indefesso  Bonaparte,  a  cui 
Par  che  tempra  di  membra  il  ciel  conceda 
D'ogn'uopo  intatta  di  mortai  natura, 
Scorrea  tacito  ,  solo,  ed  in  vestire 
Di  gregario  guerrier,  P  addormentato 
Campo,  n  nemico  non  lontan  rendea 
Perigliose  le  veglie,  e  più  la  mia. 
Che  più  dappresso  lo  spiava.  Ed  ecco 
Vien  Torà  delle  mute.  Un  improvviso 
Scuotemi  e  desta  calpestio  di  piedi. 
Eran  le  guardie  successive.  I  lumi 
Apro,  nel  sonno  ancor  natanti;  cerco 
L'  arme  caduta ,  e  non  la  trovo.  In  giro 
Meno  gli  sguardi  stupefatti,  e  veggo 
Ritto  starsi  ed  armato  alla  vedetta 
Vigilante  in  mia  vece  altro  guerriero. 
M'accosto,  il  guato,  il  riconosco:  è  desso. 
Desso  il  gran  Duce.  Me  perduto!  io  grido, 
E  bramai  sotto  i  piedi  una  vorago 
Che  m' inghiottisse.  Ma  con  tale  un  detto 
Di  bontà,  che  più  dolce  unqua  sul  labbro 


CASTO  QlUftTO  367 

Né  eli  padre  8^  udì,  né  di  firatéllo: 
Non  temer,  qael  Magnammo  riprese^ 
Dopo  lunga  fatica  ad  un  gagliardo 
Ben  lice  il  sonno,  e  a  me  vegliar  pel  mio 
Figlio  e  compagno.  Ma  tu  scegli,  amico, 
Meglio  altra  volta  i  tuoi  momenti.  E  sparve. 
Muto,  tremante,  attonito,  siccome 
Uom  cui  cadde  la  folgore  vicina, 
Mi  restai  lunga  pesza.  Alfin  del  fadlo 
La  conoscenza  e  del  perdon  mi  fece 
Impeto  al  core:  aleai  le  palme,  al  suolo 
Mi  prostrai  su  i  ginocchi,  e  per  P orrore 
Della  notte  gridai:  Dio,  che  passeggi 
Per  quest^alte  tenèbre,  e  de' mortali 
Miri  le  colpe  e  le  virtù,  gran  Dio, 
Dammi  che  un  dì  per  lui  morire  io  possa. 
Ecco  il  cor  del  mio  Duce.  Anzi  d' un  nume. 
Riprese  UUino^  né  stupir  più  voglio 
Se  tu  r  adori,  ed  ogni  faccia  ai&onta 
Per  Lui  di  rischio  in  campo  il  suo  soldato. 
Or  m' odi.  ÀUor  che  dissipati  e  spersi 
Quattro  possenti  eserciti,  al  nemico 
Fé  tremar  la  corona  in  Leobéno, 
Àrsi  io  pur  del  desio  di  veder  questa 
Di  valor  maraviglia,  e  del  cospetto 
D' un  sì  famoso  satisfar  la  vista. 
Bramai  Farmi  seguirne,  e  con  quest'occhi 
L'  opre  mirar  della  sua  spada,  e  poscia 
Bellicoso  cantor  porle  su  P  arpa 
Etematrice  degli  eroi^  che  tale 
È  di  Bardo  poeta  il  ministero. 
Ma  troncò  Pali  a  quella  calda  brama 
Carità  di  costei,  che  pargoletta 
Mal  potea  le  paterne  orme  seguire. 
Volò  frattanto  quel  Tremendo  a  nuova 
Audacissima  impresa^  e,  liberando 


368  IL   BARDO   DEXXl   SKLTA   NERA,   CAIITO  QUARTO 

Dal  terror  delle  Franche  armi  Lamagna, 

Piombò  del  Nilo  su  le  sponde,  e  in  forse 

Mise  d'Asia  il  destin.  Ma  incerta  e  poca 

Di  si  bel  fatto  a  me  giunse  la  fama. 

Or  tu  verace  testimon  di  tutto , 

Tu  lo  mi  conta,  e  qual  fortuna,  o  Dio 

Dalle  Libiche  riye  a  salvamento 

n  ridusse  alle  vostre  ^  e  come  poscia 

Campò  la  patria  inferma,  e  la  rapita 

Itala  figlia  al  rapitor  ritolse. 

n  Sol,  vedi,  a  rincontro  ti  sorride, 

E  il  raggio  sanator  lungo  la  sponda 

T' invia  del  letto  a  rallegrar  la  mente, 

E  porge  al  labbro  narrator  la  lena. 


CANTO  QUINTO 


L4  SPEDIZIONE  JT  EGITTO 

Tacque  il  Bardo,  ciò  detto,  e  più  vicina 
Fece  r  orecchia  ad  ascoltar.  Vezzosa 
Dall^  altra  sponda  la  gentil  Malvina 
Della  bocca  alcun  poco  apri  la  rosa, 
£  coli'  alma  dal  petto  peregrina 
Il  bel  viso  sporgea,  desiderosa 
D'udir  gli  accenti  di  quel  labbro  amato, 
Su  cui  tutto  già  vola  il  cor  piagato. 

Allor  Terigi  incominciò:  Gran  cose, 
Egregio  veglio,  a  raccontar  m'inviti. 
Come  in  sua  forza  Bonaparte  pose 
L'Egizia  terra  co' suoi  pochi  arditi; 
E  qnal  propizio  Nume  a  più  famose 
Prove  salvo  il  ridusse  ai  nostri  liti, 
Ove  i  furori  della  patria  spense 
Tutti,  e  d'Italia  il  rio  destin  redense. 

Ma  chi  spinger  potrà  securo  e  solo 
Per  tanto  mar  la  temeraria  antenna  ? 
n  valor  di  che  parlo,  è  di  tal  volo. 
Che  noi  può  seguitar  vela  né  penna. 
Stanca  è  la  tuba  deUa  Fama,  e  solo 
Qualcun  de' fatti  memorandi  accenna; 
E  si  lamenta  che,  ognor  schietta  e  vera, 
Le  più  volte  tenuta  è  menzognera. 


SjO  IL  BARDO  DELLA  SELVA  NERA 

Già F  Alemanno  avea  piegato 

Dinanzi  al  Franco  sull'  Isonzo  il  ciglio  j 

E  r  Insubre  paese  trionfato 

Nuove  leggi  reggean,  nuovo  consiglio; 

Mentre  ruggendo  e  a  miglior  di  serbato , 

n  Veneto  L'ion  perdea  V  artiglio  ; 

Ed  Europa,  che  pace  ai  re  chiedea, 

Già  le  sue  piagbe  ristorar  parca. 

Sol  del  sangue  d' Europa  e  del  suo  pianto 
Cresciuta  sempre,  e  sempre  sitibonda, 
Anglia  feroce  dell'ulivo  al  santo 
Ramo  insultava  su  FÀtlantic'onda, 
E  comprava  delitti,  e  sol  dì  tanto 
Si  dolca,  che  non  fosse  ancor  feconda 
Di  tradimenti  assai  la  disleale 
Quant'  era  di  valor  la  sua  rivale. 

Questa  di  ferro  e  di  sublime  ardire. 
Quella  d^oro  e  di  fraudi  era  possente. 
Vide  il  grande  Guerriero  che  ferire 
Fea  bisogno  la  cruda  in  Oriente, 
E  all^avara  su  Flndo  inaridire 
Dell^auro  corruttor  la  rea  sorgente; 
Che  su  F  Indo  inesausta  ed  infinita  , 
Non  sul  Tamigi,  è  di  costei  la  vita. 

Chiude  Falto  pensier  nel  suo  gran  seno , 
Fa  di  forti  un'  eletta,  e  al  mar  s*  affida. 
Non  si  tosto  sul  dorso  hallo  il  Tirreno, 
Che  giunto  al  Nilo  già  la  fama  il  grida. 
Salvo  uscito  sul  Libico  terreno, 
L'  esercito  si  volse  alF  onda  infida  : 
Guatò  F  immensa  liquida  pianura , 
E  ricordossi  delle  patrie  mura. 


CANTO   QUINTO  ijl 

AUor  pronto  le  sckiere  a  parlamento 
Raccobe  il  Magno,  e  la  serena  vista 
Girando  intomo,  con  quel  forte  accento 
Ch'ogni  volere  al  suo  volere  acquista: 
Soldati,  ei  disse,  a  illustre  esperimento, 
A  famosa  io  vi  guido  alta  conquista. 
Che  costtuni,  virtù,  commercio  abbraccia, 
E  di  quest'  orbe  cangerà  la  faccia. 

Voi  ferirete  a  morte  V  infedele 

Anglia,  cui  tanto  il  nostro  danno  alletta. 
Di  qua  si  passa  al  cor  della  crudele, 
Di  qua  vassi  di  FVancia  alla  vendetta^ 
Qua  vi  chiamano  i  pianti  e  le  querele 
D' un  altro  Mondo  che  soccorso  aspetta. 
Al  fulgor  della  Gallica  bandiera 
L' Indo  da  lungi  alza  la  fronte ,  e  spera. 

Soldati,  Europa  vi  contempla,  e  grande. 
Grande  è  il  destino  che  adempir  vi  resta. 
Rischi,  affanni,  fatiche,  e  memorande 
Pugne,  la  danza  a  cui  vi  meno  è  questa. 
Ma  parlo  ai  forti,  a  cui  già  le  ghirlande 
D'Arcoli  e  Dego  coronar  la  testa  ^ 
Parlo  al  Franco  guerrier,  parlo  a'  miei  figli 
Nello  stento  esultanti  e  ne'  perigli. 

Molto  voi  fèste  per  la  patria ,  molto 

Per  la  gloria,  per  me.  D'assai  più  ancora 
Farete  adesso  ;  eh'  io  vi  scorgo  in  volto 
Già  la  fiamma  d' onor  che  vi  divora^ 
Già  il  suon  dell'armi,  già  le  voci  ascolto 
Accusatrici  d'ogni  vii  dimora. 
Ma  chi  vii  può  mostrarsi  in  questo  lido. 
Ove  ancor  suona  d'Alessandro  il  grido  7 


iya  IL  BARDO  DELLA  SELVA  NERA 

Quella  che  incontro  torreggiar  si  mira , 
È  città  da  quel  Magno  un  di  fondata. 
Colà  dentro  la  grande  Ombra  sospira 
Dal  molle  abitator  dimenticata. 
Or  la  sdegnosa,  raddolcendo  Pira, 
Da  que^ merli  contenta  ella  ne  guata, 
E  impaziente  a  vendicar  ci  chiama 
L^  onor  prisco  già  spento ,  e  la  sua  fama. 

Qui  molte  troveremo  orme  profonde 
Dell^  antico  valor.  Chiaro  il  Romano' 
Su  questo  suol  fu  spesso  e  su  quesf  onde  , 
Né  fl  Franco  andrà  da  quello  oggi  lontano. 
L^  emulaste  finora^  or,  se  risponde 
L' usato  ardir ,  V  eguaglierete.  Invano 
Noi  vi  prometto.  Ditelo,  se  mai, 
Promettendo  vittoria ,  io  v^  ingannai. 

Pur  ignei  dardi  al  sen  queste  parole: 

Armi  ognun  grida,  alParmi  ognun  si  sprona. 
L' ali  al  pie ,  r  ali  al  cor,  primo  esser  vuole 
A  por  ne' rischi  ognuno  la  persona. 
Tragge  lampi  e  terror  dai  ferri  il  Sole: 
L*  allegro  canto  de'  guerrieri  intuona 
L'esercito  volante,  e  si  confonde 
L' inno  di  Marte  col  fragor  dell'  onde. 

Animoso  di  ratte  orme  l'arena 

Venia  stampando  innanzi  a  tutti  il  Duce. 
Non  macchiava  vapor  l'aria  serena^ 
Schietta  e  larga  dal  ciel  piovea  la  luce: 
Quando  repente  (a  me  medesmo  appena 
Il  credo,  e  il  vidi  con  quest'  occhi  )  tm  truce 
Prodigio  apparve.  Tu  l'ascolta,  e  al  vero 
Darà  fede  in  segreto  il  tuo  pensiero. 


CINTO    QUINTO  3^3 

Mugge  il  mar  senza  vento,  e  sopra  il  mare 
Da  prestissimi  vortici  sospinta 
Negra  una  nube  di  lontano  appare 
Di  vivo  sangue  tempestata  e  tinta. 
Dal  fosco  grembo  ad  or  ad  or  traspare 
Una  forma  terribile  indistinta. 
Dritta  vèr  noi ,  veloce ,  alta ,  tremenda 
Venia  dall^Àsia  Fapparenza  orrenda. 

Dalla  parte  onde  il  nembo  a  noi  procede, 
Tutto  è  il  ciel  buio^  dalla  nostra  è  un  riso 
Di  purissima  luce.  Il  guardo  vede 
Quinci  un  inferno,  e  quindi  un  paradiso. 
Giunta  là  dove  nel  mar  bagna  il  piede 
Degli  Arabi  la  torre,  all'  improvviso 
Tuona  la  nube,  squarciasi,  e  fuor  caccia 
Immenso  spettro  con  aperte  braccia. 

L'alto  capo  toccar  gli  astri  parca. 
Ma  il  pie  sotterra  s' inabissa.  Stende 
Su  l'Africa  una  man,  l'altra  spandea 
Su  l'Asia,  e  parte  ancor  d'Eiuropa  oifende. 
Al  fianco  il  brando,  al  fronte  l'elmo  avea, 
E  sotto  l'elmo  dell'aitar  le  bende. 
Scosse  un  gran  libro,  e  il  libro  che  s'aprio, 
Scritto  in  fronte  mostrò:  Voce  di  Dio. 

Schifosa,  oscena,  e  per  gran  piaghe  impura 
Tutta  appar  la  persona.  Ha  la  sembianza 
Garca  di  duol,  smarrita  e  mal  sicura, 
Quasi  senta  mancar  la  sua  possanza. 
Mette,  e  par  che  riceva  la  paura 
Ghe  al  tini  dai*  cerca.  Gavemosa  stanza 
Di  rance  zanne  la  livida  bocca 
Pestifera  mefite  intorno  scocca. 

MonTi.  Poemetti.  a  4 


3^4  li*  BARDO  DELLA  SBLTA  HBAA 

Girò  SU  noi  Fonìbil  guardo,  e  foco 

Dagli  occhi  dardeggiò,  ma  smorto  e  tetro; 
Digrignò  i  denti  spaventosi,  e  roco 
Muggì,  come  spezzata  onda,  lo  spetro; 
E  udir  mi  parve  questo  tuon:  Si  poco 
Temuta  è  dunque  la  mia  possa?  Addietro, 
Addietro,  gente  dell^ altrui  bramosa. 
La  più  di  tutte  audace  e  perigliosa. 

Se  con  la  spada  e  co^  pensieri  ardite 
Tradurre  al  culto  di  ragion  la  terra 
Che  in  mal  punto  attingeste,  e  alle  meschite 
Ed  ai  costumi  chMo  fondai ,  far  guerra , 
E  turbar  Pozio  del  mio  regno,  udite 
Ciò  che  nel  grembo  all^  avvenir  si  serra; 
Franchi,  udite  e  tremate:  mille  porte 
Per  tutti  esterminarvi  apre  la  morte. 

Alti*!  in  dure  battaglie,  altri  di  stento 
E  di  squallido  morbo,  altri  trafitto 
Sotto  il  ferro  cadrà  del  tradimento; 
Faran  bianco  le  vostre  ossa  P  Egitto. 
Le  vele  che  portar  tanto  ardimento, 
Fulminate  dall^Anglo  in  rio  conflitto , 
D^Abukir  lasceranno  infame,  e  bruna 
Di  Franca  strage  la  fatai  laguna. 

Mi  fèr  r  orrende  profezie  fremire. 

Volsi  gli  occhi  al  gran  Duce,  e  su  la  fiera 
Fronte  gli  vidi  folgorar  P ardire; 
Li  rivolsi  allo  spettro,  e  più  non  v^era. 
Ben  di  lampi  e  di  fumo  in  Abukire 
Una  striscia  mirai,  che  densa  e  nera 
Tra  le  Galliche  antenne  in  frettolose 
Rote  nel  mar  tuffossi,  e  si  nascose. 


TANTO    QUINTO  3^5 

Scarco  di  quel  funesto  ingombro  il  cielo 
Tornò  sereno,  e  tornar  lieti  i  petti. 
D^un  cor  medesmo  e  d^  un  medesmo  zelo 
Moviam  rapidi ,  queti  e  circospetti. 
E  già  quanto  d^ae  volte  è  un  trar  di  telo, 
In  ordinanza  militar  ristretti, 
D^Alessandro  siam  sotto  alla  cittade 
Scossa  al  baleno  delP  ignote  spade. 

Qui  Tardua  cominciò  Niliaca  impresa. 

Chi  fia  cbe  tutta  a  mano  a  man  la  dica? 
Il  di  primiero  combattuta  e  presa 
Cadde  d^  Egitto  la  reina  antica. 
Munir  le  mura  e  il  porto  di  difesa 
Fu  del  secondo  rapida  fatica*^ 
Norma  si  diede  e  provvidenza  alFuopo 
De^  cittadini  il  terzo  e  P  altro  dopo. 

In  Rosetta  nel  quinto,  in  Damanuro 
Brillò  nel  sesto  di  nostr^  arme  il  lampo. 
L'altro  fé  Rammama,  T altro  fé  scuro 
D'Araba  strage  di  Gebrissa  il  campo. 
De'  re  alle  tombe  ne'  seguenti  un  duro 
Conflitto  arse:  vincemmo^  e  senza  inciampo 
Del  fortunato  Bonaparte  al  piede 
L'Egizie  sorti  il  di  ventesmo  vede. 

Dietro  il  volar  di  sue  vittorie  è  lento 
Della  parola  e  del  pensiero  il  corso. 
Ancor  Cinzia  col  bel  carro  d'argento 
Tre  giri  integri  non  avea  trascorso, 
Che  sottomesso  ogni  nemico  o  spento, 
MenG  sentia  del  Franco  impero  il  morso 
Dal  Pelusiaco  seno  alle  rimote 
Spiagge,  ove  <britta  il  pie  l'ombra  percuote. 


3y6  IL   BARDO  DRU^A    SRT.YA.    IVEKÀ 

E  sagge  fiiro  e  salutari  e  dive 

Del  vlncitor  le  leggi,  e  dolce  il  fireno. 
Sovente  conquistar  T  Egizie  rive 
L^Àrabo,  il  Perso,  il  Turco,  il  Saraceno^ 
Ma  fu  crudo  il  concjuisto,  e  ancor  lo  scrive 
Colma  d^orror  la  storia,  che  sereno 
Farà  il  sembiante ,  e  allegrerà  gP  inchiostri 
L^opre  narrando  del  Cimeo  Sesostri. 

Oltre  Gaza  respinti,  oltre  Siene 

Del  Canopo  i  tiranni,  a  far  beati  ^ 

Gli  abitatori,  a  sciome  le  catene 

I  pensier  tutti  delF  Eroe  fur  dati. 

I  santi  dritti^  ond^  esce  il  comun  bene, 

I  costumi,  le  cui*ie,  i  magistrati 
Restituisce^  e  pien  di  maraviglia 

L^  uomo  dell^  uom  la  dignità  ripiglia. 

Con  severa  bilancia  ripartito 

Regola  il  carco  che  la  patria  impone^ 
Frange  i  ceppi  al  commercio,  che  fiorito 
L^arti  risveglia,  a  cui  la  pace  è  sprone. 
Per  le  vie,  per  le  case  al  dolce  invito 
LMndustria  ferve:  ogni  s(juaUor  depone 

II  già  cangiato  Egitto,  e  sente  a  prova 
La  presenza  del  Dio  che  lo  rinnova. 

Vita  di  tutto  Ei  tutto  osserva,  e  saggio 
Dispon  delPopra  il  mezzo  e  la  maniera. 
Tale  il  re  delle  pecchie,  allor  che  il  raggio 
Del  monton  sveglia  V  alma  primavera , 
À  riparar  del  rio  verno  P  oltraggio 
Desta  al  lavor  del  miele  e  della  cera 
LMndustri  ancelle,  e,  osservator  severo. 
Le  fatiche  ne  scorre  e  il  magistero. 


CANTO  QUINTO  877 

Altre -intendono  ai  fari,  altre  la  manna 
Van  de^  fiori  a  predar  cupide  e  snelle. 
Qual  le  compagne  a  scarìcar  s'affanna, 
Qual  del  dolce  licore  empie  le  celle. 
Queste,  tratti  i  pungigli,  la  tiranna 
Torma  de^  fuchi  caccian  lungi  ^  e  quelle 
Castigano  le  pigre.  Un  odor  n^esce 
Che  ti  ristaura,  e  il  lavorìo  più  cresce. 

Con  infinita  provvidenza  il  senno 

De'  suoi  sofi  comparte  il  sommo  Duce. 
Altri  r  ombra  del  punto  fissar  denno, 
Che  rompe  all'arco  meridian  la  luce. 
Altri  i  portenti  investigar,  che  fenno 
Chiaro  l'Egitto,  ovunque  ne  traluce 
L'orma  aVicor  maestosa,  alla  cui  vista 
Il  pensiero  stupisce,  e  il  cor  s'attrista. 

Quei  dell'alcali  indaga  e  de'  metalli 
I  segreti  covili,  arcano  obbietto 
Di  maraviglia^  per  deserte  valli 
Questi  raccoglie  il  peregrino  insetto. 
Qual  pe'  freschi  del  Nilo  ampi  cristalli 
Del  muto  abitator  turba  il  ricetto 
Ittologo  bramoso,  e  qual  procura 
Nuove  piante  all'amor  della  natura. 

Ai  lenti  ceppi  di  tenace  arena 

Altri  toglie  i  canali^  e  quando  i  colti 
Chieggon  del  Nilo  la  feconda  pieiia. 
Corregge  i  flutti  vagabondi  e  sciolti. 
Altri  all'  aura  le  late  ali  disfrena 
Di  ventoso  molino^  altri  per  molti 
Gorghi  in  severo  idraulico  travaglio 
Getta  nell'onde  il  tentator  scandaglio. 


ijS  a.  BARDO  DELLA  SELVA  NERA 

Sagaci  intorno  al  chimico  fornello 
Sudano  intanto  d^  E^culapio  i  figli  9 
Che  de^  morbi  a  frenar  V  atro  flagello 
D'  erbe  e  nitri  facean  dotti  perigli. 
La  schiava  al  fato  stirpe  d^Ismaello 
L^arte,  che  a  morte  sa  troncar  gli  artigli, 
Stupita  impara,  e  vede  alfin,.che  dove 
LVom  si  guarda,  il  destin  Turna  non  move. 

Cosi  Palme  scienze  ricondotte 
Alla  terra  natia  per  mano  amica, 
Dopo  r  orror  di  lunga  iniqua  notte , 
Salutar  liete  la  lor  cuna  antica. 
E  di  saper  più  ricdie  ed  incorrotte, 
E  con  fronte  più  casta  e  più  pudica, 
Il  delitto  espiar  d^un  esecrando 
Timor  del  Vero,  che  le  spinse  in  bando. 

Bello  il  vederle  ai  porti,  alle  bastitc 

Girar  ti*a  spade  e  bronzi,  e  con  le  pure 
Man  le  seste,  gli  squadri  e   le  matite 
Oprar  tranquille  in  mezzo  alle  paure. 
Bello  il  veder*  le  vie  coperte  e  trite 
Di  guerrieri  e  di  sofi:  e  le  secure 
Ganoplc  genti  intanto  dappertutto 
Raccor  delibarmi  e  della  pace  il  frutto. 

Securo  punge  il  suo  cammei,  uè  teme 
DalFÀrabo  ladrone  onta  e  rapina 
Il  viator:  libera  il  dorso  preme 
L^  Indica  merce  alP  Eritrea  marina. 
Di  Bonaparte  è  F  occhio  ovunque  è  speme 
Deir utile,  o  del  meglio:  in  sua  divina 
Mente  Ei  lo  volge  ad  ognMstante,  e  il  piede 
Move  rapido  e  franco  ove  lo  vede. 


CANTO    QUINTO  879 

Tatto  discorre  il  Delta,  ed  ogni  passo 
È  un  beneficio.  Intento  a  ciò  che  giova, 
Ode,  osserva,  provvede,  uè  mai  lasso, 
O  nascendo  o  morendo  il  Sol,  lo  trova. 
E  se  talvolta  di  vigor  già  casso. 
Lo  spirto  no,  ma  chiede  il  corpo  nuova 
Di  forze  emenda,  di  veder  ti  pensa 
Giove  in  riposo  all^  Etiopia  mensa. 

Che  pari  a  Giove  Ei  pur  talor  discende 
Alla  dolcezza  d^  ospitai  convito. 
N^ esulta  in  cor  T Egiziano,  e  pende 
Da  quelle  labbra  di  stupor  rapito. 
Se  in  lui  veder  nelle  battaglie  orrende 
Credette  il  divo  d^  Iside  marito , 
Or  n^  udendo  il  sublime  almo  sermone, 
Pittagora  ascoltar  pargli  e  Platone. 

De^  suoi  giravi  di  senno  alti  pensieri 
Fa  tesoro  la  Fama^  e  sì  voi  pure 
Moli  eteme  di  Céope  e  di  Meri 
Li  parlerete  coll^  età  future, 
n  maggior  de^  Potenti  e  de^  guerrieri 
Qui,  direte,  s^ assise,  e  le  mature 
Sentenze  svolse  dal  profondo  petto, 
E  fu  degno  di  cedro  ogni  suo  detto. 

Gli  occhi  alzando  di  Céope  al  sublime 
Monumento,  dell'arte  immenso  afianno, 
Contra  cui  le  già  stanche  e  mute  lime 
Del  tempo  vorator  dente  non  hanno: 
Venti  secoli  e  venti  dalle  cime 
.  Di  quella  mole  a  contemplar  ci  stanno^ 
Sclamò  r  Eroe.  L'udì  la  Fama,  e  disse: 
Cadrà  quel  massoy  non  quel  detto.  E  scrisse. 


1 


38o  n.  BARDO  DELLA  SELVA  NE&A 

Giunto  là,  dove  Neco  il  gran  tragitto 
Fece  aUe  Rubre  nelle  Libich^onde, 
Con  lieto  grido  saluta  P Invitto, 
Sceso  a  bearle ,  quelle  chiare  sponde. 
Ma  sdegnoso  delF  istmo  il  derelitto 
Mar  vermiglio,  agitò  le  rubiconde 
Spume,  e  cercò,  sentendo  il  fato  amico, 
Pien  di  nuova  speranza  il  varco  antico. 

Tutto  guardando,  e  tutto  in  sé  romito 
Il  Magnanimo  intanto  esaminava 
L^  acque,  le  prode,  il  ben  acconcio  sito 
Che  le  porte  al  commercio  Ihdo  dischiava. 
Del  Bgliuol  di  Psammitico  V  ardito 
Genio  il  segm'a  dappresso,  e  gli  mostrava 
L^orme  ancor  vaste  del  canal  che  spinse 
L^orto  air  occaso,  e  in  un  due  Mondi  avvinse. 

E  ben  la  fiamma  al  cor  gli  s^accendea 
DeU^  emula  virtù,  ben  nell^ audace 
Pensicr  gli  lampeggiò  la  grande  idea, 
Che  forse  ancora  nell'  Eroe  non  tace. 
Ma  diverso  lassù  fato  volgea. 
Già  nuove  palme  gli  prepara  il  Trace 
Stretto  coirAnglo,  a  cui  la  Franca  sorte, 
Arbitra  fatta  dell^ Egitto,  è  morte. 

Sul  mar  di  Siria  e  in  Acri,  ove  Fortuna 
Sfida  a  conflitto  la  virtù  Francese, 
Ondeggia  al  vento  con  la  Turca  luna, 
Ahi  vile  accordo!  il  leopardo  Inglese. 
Di  Joppe  e  Gaza  la  campagna  è  bruna 
Di  barbari  già  pronti  a  inique  offese. 
Ma  tante  torme  e  tante  armi  son  polve 
Dinanzi  a  quel  valor  che  tutto  solve« 


CAUTO  QDIHTO  38 1 

Vide  il  costoro  orribile  macello 

n  monte  che  T  Ebreo  sacra  ad  Elia. 
L'umil  terra  lo  vide,  u' Gabriello, 
Siccome  è  scritto,  salutò  Maria. 
E  tu  il  vedesti,  tu  che  d^Israello 
Apristi  all^arca  trionfai  la  via, 
Retrogrado  Giordano,  e  la  seconda 
Fuga  tentasti  con  la  trepid^  onda. 

E  fora  il  muro  al  suol  caduto  alfine 

Che  in  Acri  il  sommo  Vincitor  rattenne^ 
E  avrfa  rimesso  la  Fortuna  il  crine 
Alla  mano  che  stretto  ognora  il  tenne  ^ 
Ma  il  Ciel,  che  a  più  mirande  e  peregrine 
Prove  il  chiamava,  all^alto  ardir  le  penne 
Precise,  il  Ciel  che  a  più  levarlo  inteso  , 
Due  gran  fati  al  suo  brando  avea  sospeso. 

D^Asia  il  fato  e  d^  Europa  era  pendente 
Da  quella  spada,  e  trepidava  il  Mondo. 
Librò,  credo,  amendue  V  Onnipossente, 
E  ponderoso  in  giù  scese  il  secondo. 
Sparve  l'altro  più  lieve,  e  nella  mente 
Si  rinchiuse  di  Dio,  che  nel  profondo 
bel  suo  consiglio  or  forse  il  fa  maturo, 
Né  par  che  molto  restar  debba  oscuro. 

S'oiFerse  agli  occhi  allor  di  Bonaparte 

Grande  un  prodigio ,  e  qual  vulgossì,  occulto. 
Noi  vi  terrò ^  ch'egli  è  d'eterne  carte 
Degno,  né  debbe  rimaner  sepulto. 
Già  d'Acri  a  terra  rovinose  e  sparte 
Cadeau  le  mura^  del  superbo  insulto 
Già  il  fio  pagava  l'Ottoman,  cui  resta 
Solo  un  riparo,  e  mal  potea  far  testa. 


38-2  IL  BARDO  DBLLA  SELVA  NERA 

Tacita  liscia  daUe  GimmeriQ  girotte 
La  nemica  del  dl^  ma  non  del  Duce 
Tacca  la  cura,  che  per  V  alta  notte 
In  mille  parti  il  suo  pensier  traduce. 
Ed  ecco  balenando  aprir  le  rotte 
Ombre  a^  suoi  sguardi  un^  improvvisa  luce  ; 
Ek:co  stargli  davanti  eccelsa  e  ritta 
L^  augusta  immago  della  Patria  afflitta. 

Àvea  lacero  il  crin,  smorto  il  bel  viso  y 
E  su  la  guancia  lagrime  e  squallore. 
Guatò  muta  il  Guerriero,  e  il  guardo  fiso 
Parca  sul  volto  gli  cercasse  il  core. 
Indi  un  sospir  dal  petto  imo  diviso: 
Mi  conosci  tu  ?  disse  :  al  suo  dolore 
Non  ravvisi  la  madre  ?  e  il  suo  periglio 
Dunque  ancora  non  parla  al  cor  del  figlio? 

Tu  fra  barbare  genti,  inutil  vanto, 
Cogli  d^Àsia  gli  allori^  e  il  fero  Scita, 
Giunto  coll^Unno,  al  crin  mi  sfronda  intanto 
Quei  che  lasciasti  nella  tua  partita. 
Né  questa  è  tutta  la  cagion  del  pianto, 
Lassa!  né  sola  è  questa  la  ferita 
Che  mi  dà  morte.  I  figli,  i  figli,  ahi  stolti! 
Spengon  la  madre  in  ree  discordie  avvolti. 

Grande,  felice,  e  di  valor  precinta 
.  Feci  io  tutti  tremar.,  mentre  fui  teco. 
Or  giaccio  oppressa,  disprezzata  e  vinta ^ 
Che  Bonaparte  mio  non  è  più  meco. 
Il  tuo  lasciarmi ,  il  tuo  partir  m^  ha  spinta  , 
]\rha,  misera!  sommersa  in  questo  cieco 
Di  mali  abisso,  e  dclP uscirne  è  vano 
Ogni  sforzo,  se  lungi  è  la  tua  mano. 


/ 


CANTO    QUINTO  383 

Torna.,  deh!  toma  a  me,  figlio,  mia  speme, 
Mia  speranza,  mio  tutto.  A  che  ti  stai 
Cercando  pur  su  queste  rive  estreme 
Gloria  minor  del  tuo  coraggio?  e  il  sai. 
Salvar  la  patria  che  t^ invoca  e  geme, 
Pensaci,  è  gloria  più  solenne  assai. 
Deh  non  patir  ch^  empio  ladron  ne  tolga 
La  vita,  e  il  pugno  in  queste  chiome  avvolga. 

« 

Non  patir  che  la  bella  Itala  figlia 
Usurpator  Sarmatico  t^inyoli. 
Piange  in  barbari  ceppi,  e  si  scapiglia 
LMnfelice,  e  non  è  chi  la  consoli. 
A  te  le  sue  catene,  a  te  le  ciglia 
Alza,  pregando  che  a  scamparla  voli, 
n  promettesti,   lo  giurasti,  e  flb'o 
Sempre  d^  un  Dio  la  tua  promessa  e  il  giuro. 

Vieni  dunque,  e  ne  salva.  Delle  genti 
In  te  gli  occhi  son  fissi.  Il  mormorio 
Del  mar  che  fireme,  è  carco  deUamenti 
Che  ti  manda  PEuropa  \  odi ,  per  dio  ! 
Se  firapponi  al  soccorso  altri  momenti, 
Tu  più  patria  non  hai.  Disse,  e  spano 
Come  baleno  \  e  per  la  via  che  prese  , 
DI  gemiti  suonar  P  aria  s^  intese. 


N 


CANTO  SESTO 


TL  XTX  BRUMÀtRE 

Amor  di  patria,  amor  di  gloria  un  fiero 
Fan  certame  nel  Duce^  e  d^armi  instrutto 
Prepotenti  è  ciascun.  Vince  il  primiero. 
In  magnanimo  cor  la  patria  è  tutto. 
Sol  di  questa  il  dolor  gli  empie  il  pensiero: 
Arde  già  di  partir ,  già  sopra  il  flutto 
Vola  il  ^o  spirto 9  già  le  rive  afferra, 
Già  vendica  V  onor  della  sua  terra. 

D^Acri  gli  allori  su  P  infranto  muro 
Gli  mostrava  la  Gloria,  e  gli  dicea: 
Vieni,  prendi,  son  tuoi,  monta  securo: 
Ed  Ei  voltate  già  le  spalle  avea. 
Un  lauro  più  d^assai  bello  e  più  puro 
Di  qua  dal  mare  il  suo  pensier  vedea^ 
Di  questo  solo  Ei  vuol  la  fronte  adoma. 
Francia,  t'allegra^  Italia,  sorgi:  Ei  torna. 

Ma  senza  memoranda  alta  vendetta 
Non  fia,  no,  dell'Invitto  il  dipartire. 
Intégi*a  e  degna  dell'Eroe  P  aspetta 
De' prodi  il  sangue  estinti  in  Abukire^ 
E  tal  l'ebbe.  Su  l'onda  maladetta 
Le  Gallich' ombre  si  placaro  e  l'ire. 
Di  Turca  strage  il  mar  crebbe,  e  l'ondosa 
Faccia  spari  da  tanti  corpi  ascosa. 


IL   BARDO  DEIXiL  SELYi    NERi,    CANTO    SESTO  385 

Spente  le  forze  de^ nemici,  e  ogn^uopo 
Dell^  armata  provvisto ,  al  lido  aduna 
I  suoi  più  fidi  il  Duce,  e  dal  Canopo 
Salpa  *^  e  nòcchiera  in  poppa  ha  la  Fortuna. 
Né  fragil  prora  vi  fu  pria,  né  dopo 
Mai  r  onde  ne  vedranno  altra  veruna 
Di  tanto  carco.  Il  cor  cui  poco  é  il  mondo, 
Quel  cor  si  cela  in  quelFangusto  fondo. 

Gontra  le  vele  del  fatai  naviglio, 

Consci  forse  del  Dio  cVei  porta  in  grembo, 
Non  osano  di  far  lite  e  scompiglio 

I  venti:  dorme  la  procella  e  il  nembo. 
Solo  increspa  con  placido  bisbiglio 
Dolce  un  Levante  alla  marina  il  lembo: 

E  Tonda  intanto:  Chi  è  Costui,  dir  pare, 
A  cui  V  aria  obbedisce,  e  serve  il  mare? 

E  certo  il  mar  sentia  che  su  quel  legno 
Navigava  il  valor  che  al  fier  Britanno 
Farà  caro  costar  dell^  onde  il  regno, 
Finché  ne  spezzi  lo  scettro  tiranno. 
Quindi  parve  d^  uman  senso  dar  segno 

II  tremendo  elemento,  e  un  bello  inganno 
Fatto  air  Inglese  insecutor  schernito , 
Pose  il  vindice  suo  salvo  sul  lito. 

Come  giunto  s'udì  Fàlto  Guerriero, 
Di  giubilo  delire  a  lui  davante 
Si  versar  le  città  lungo  il  sentiero  : 
Mise  a  tutti  il  piacer  Pali  alle  piante. 
Ognun  s'affretta  e  incalza,  ognun  primiero 
Esser  vuole  a  gioir  del  suo  sembiante. 
Bonaparte  gridare  i  vecchi  padri. 
Iterar  Bonaparte  odi  le  madri. 


386  IL  BARDO  DELLA  SELVA  NERA 

Bonaparte  i  fanciulli,  Bonaparte 

Rispondono  le  valli  ^  e  nell'  ebbrezza 

Di  tanto  nome,  al  vento  inani  e  sparte 

Van  le  memorie  d^ogni  ria  tristezza. 

Nel  tripudio  ognun  corre  ad  abbracciarte , 

Sia  nemico ,  od  amico  :  V  allegrezza 

Non  distingue  i  sembianti^  un  caro  errore 

Dona  gli  amplessi,  e  negli  amplessi  il  core. 

Francia  tutta  del  Magno  alla  venuta 
Rizzossi^  ne  tremò  PAIpe,  e  T  avviso 
Dienne  all^  Itala  Donna.  L^  abbattuta 
In  mezzo  al  pianto  lampeggiò  d^  un  riso , 
E  serenossi.  Ma  in  pie  surta  e  muta 
Di  maraviglia,  Europa  il  guardo  fiso 
Su  la  Senna  converse,  ove  sentia 
Che  alfin  soluto  il  suo  destino  andria. 

Qual,  pria  che  fosse  il  mar,  la  terra,  il  cielo, 
Del  caos  T orrenda  apparve  atra  mistura, 
Ove  Tumido,  il  secco,  il  caldo,  il  gelo 
Fean  pugna,  e  muta  si  tacca  natura*, 
Che  tal,  rimosso  alla  menzogna  il  velo, 
Fusse  di  Francia  il  volto  ti  figura , 
Quando  il  Magno  a  camparla  dal  Ciel  fisso, 
Venne ,  quale  già  Dio  sovra  V  abisso. 

E  Pabisso  in  che  Pegra  era  sepolta. 
Tutto  il  vide  Egli  si.  Vide  il  Delitto 
Passeggiar  venerato,  e  per  istolta 
Potenza  fatto  probitate  e  dritto. 
La  Virtù  vide  di  gramaglie  avvolta, 
Atterrati  gli  altari,  Iddio  proscritto. 
La  Giustizia  mercato,  e  disciplina 
Generosa  la  Frode  e  la  Rapina. 


CAUTO  SESTO  387 

Vide  in  bisso  il  codardo,  e  nudo  il  petto 
Del  forte,  il  petto  ancor  del  sàngue  brutto 
Per  la  patria  versato^  e  a  rio  banchetto 
Di  sue  ferite  divorato  il  frutto^ 
E  spinte  al  cenno  di  vii  duce  inetto 
Al  macello  le  schiere,  e  ornai  già  tutto 
Morto  il  bellico  onor,  morta  la  scuola 
De^ prodi,  e  viva  P arroganza  sola. 

Fremè  d^  orrore  e  di  pietade  al  diro 
Spettacolo  PEroe.  Tutte  discorre 
Fra  sé  le  vie,  le  guise,  onde  al  martiro 
Di  tanto  scempio  alfin  la  patria  tórre. 
Vede,  ovimque  gli  sgu;'*di  Ei  volga  in  giro. 
Di  colpe  orrendo  intreccio,  e  che  a  disciorre 
Cotanto  nodo  il  taglio  mestier  fea, 
Che  del  re  Frigio  il  groppo  un  di  sciogliea. 

Dopo  molte  vegliate  in  questa  cura 
Torbide  notti,  alfin  die  calma  al  vago 
Pensier  quel  Dio  che  queta  ogni  rancura 
Col  ramo  che  di  Lete  intinse  al  lago. 
Ed  ecco  in  sogno  manifesta  e  pura 
Tornargli  innanzi  la  medesma  immago 
Che  gli  apparve  in  Sona.  Mesta  del  letto 
Su  la  sponda  s^  asside,  e  con  affetto 

Cosi  prende  a  parlar:  Figlio,  il  crudele 
Mio  stato  il  miri.  A  che  ti  stai  ?  Sol  una 
È  la  via  di  salute,  ed  Infedele 
AlPalme  dubitose  è  la  fortuna. 
In  che  mar  di  misfatti  abbia  le  vele 
Spinto  il  poter  de^  molti,  e  chq  nessuna 
Esser  può  libertade  ove  son  tutti 
Liberi,  il  vedi:  e  assai  n'ha  il  fatto  istrutti. 


388  IL  BARDO  DELLi  SELVi  NERA 

hirogej  ch'ella  è  unMmpossibil  cosa 
In  vasto  stato;  arroge  F opulenza, 
E  lo  splendor  de^izj,  e  la  sdegnosa 
Di  tutte  leggi  popolar  licenza. 
Arroge  la  ribelle,  imperiosa 
Forza  dell^uso,  cui  né  violenza 
Non  doma,  né  lusinga;  e  in  questo  suolo 
L^uso  comanda  il  comandar  d'un  solo. 

Sorgi  dunque,  e  novello  e  più  temuto 
Rialza  e  premi  il  necessario  Trono. 
Re  codardo  che  fugge,  ed  ha  potuto 
Ne' perigli  lasciarmi  in  abbandono; 
Re  che  vita  non  rischia,  e  fece  acuto 
De' miei  nemici  il  ferro,  al  mio  perdono 
Chiuse  ogni  varco.  Re  vogl'io  chi  forte 
Vola  al  mio  scampo,  non  chi  vuol  mia  morte. 

Nell'arduo  calle,  a  cui  t'esortò,  vedi, 
Vedi  tu  capo  di  regnar  più  degno? 
China  la  fronte,  ti  ritira  e  cedi. 
Ch'esser  qui  debbe  del  migliore  il  regno. 
Ma  se  nullo  t'è  pari,  é  colpa,  il  credi, 
'  Il  tuo  rifiutQ ,  e  d'  alto  cor  non  segno. 
Le  presenti  e  le  tarde  età  vedranno 
Questo  vile  rifiuto:  e  che  diranno? 

Dìran:  Stanca  la  Gallia  d'una  stolta 
Libertà  che  a  perir  la  conducea. 
In  mille  parti  scissa  e  capovolta 
Un  sommo  e  solo  correttor  chiedea. 
Ogni  brama,  ogni  speme  era  raccolta 
Nel  fatai  Bonaparte:  Ei  la  potea 
Far  salva,  Ei  solo;  e  ad  un  poter  funesto 
Lasciolla  in  preda,  e  si  fé  reo  del  resto. 


CANTO    SESTO  389 

Diranno:  I  giorni  del  terror  tornaro 
Tinti  di  sangue^  e  Bonaparte  il  volle. 
Rifisse  la  civil  furia  P  acciaro 
Nel  sen  firaterno^  e  Bonaparte  il  Volle. 
I  delitti^  atterrato  ogni  riparo, 
Inondar  Francia^  e  Bonaparte  il  volley 
Cy  egli  è  un  voler  la  colpa,  ove  i  suoi  passi 
Frenar  potendo,  imperversar  la  lassi. 

Questa  di  mali,  o  Figlio,  onda  fremente 

Franger  non  puossi  che  d^un  Trono  al  piede, 

Ài  voler  d^  una  sola  arbitra  mente , 

Che  air  utile  comun  ratta  procede. 

Àllor  forte,  allor  grande,  allor  possente 

Mi  sarò  tra  le  genti  ^  allor  fia  sede 

Di  virtù  vera  la  tua  patria,  or  rio 

Mar  di  vizj ,  ù  ^1  furor  soffia  di  Dio. 

Àllor  tremanti  abbasseran  le  ciglia 
I  re  giurati^  e  tu  sembiante  al  Sole, 
Che,  fonte  e  centro  della  luce,  inbriglia 
De'  minor  fuochi  il  giro  e  le  carole, 
Tu  porrai  loro  il  fireno  ^  allor  la  Figlia 
Del  tuo  valor,  che  suo  drudo  non  vuole 

Né Italia  beUa 

Dirà: -Di  Bonaparte  ecco  P  ancella. 

£  tu  d' ancella  la  farai  Rema, 

E  il  serto  che  portò  Carlo ,  alP  incude 

Ritemperato  di  miglior  fucina. 

Locherai  su  la  fronte  alla  virtude, 

Alla  virtù  canuta  e  peregrina 

Di  Giovinetto  Eroe,  che  in  sen  già  chiude    « 

Le  tue  vive  scintille ,  e  fia  P  amore 

Dell'Italo  che  giusto  e  caldo  ha  il  core. 

Monti.  Poemetti,  a 5 


SgO  IL   BARDO  DELLA    SELVA    HEBA 

Disse  e  sparve.  Apre  gli  occhi,  erge  la  testa 
Il  supremo  Guerrier:  cerca  col  guardo 
II  fuggito  fantasma,  e  alla  tempesta 
Del  cor  ben  sente  che  non  fu  bugiardo. 
Balza  in  piedi  agitato.  Era  già  desta 
La  foriera  del  di,  già  il  primo  dardo 
Della  luce  le  torri  ardue  feria, 
E  la  vita  spandea  per  ogni  via. 

A  mirar  Y  ascendente  astro  divino 

Fermossi^  e  in  quella  gli  si  fece  appresso 
II  figlio  del  suo  cor,  che  mattutino 
Scendea  del  padre  al  consueto  amplesso. 
Di  Lui  parlo,  cV  or  fa  lieto  il  destino 
DellMtalica  Donna,  e  forte  ha  messo 
La  man  pietosa  entro  sue  piaghe,  ond'ella 
A  sanità  già  toma  e  si  rabbella. 

Dati  e  presi  gli  onesti  abbracciamenti, 
In  che  tace  la  lingua  e  parla  il  petto, 
Gontra  i  puri  del  Sol  raggi  sorgenti 
Seder  si  fece  al  fianco  il  giovinetto^ 
E  gli  uditi  nel  sonno  eccelsi  accenti 
Pur  volgendo  nell^alma:  O  mio  diletto. 
Mira,  disse  (e  nel  dir  stendea  la  mano), 
Come  bello  è  del  ciel  Pastro  sovrano. 

Delle  stelle  monarca  egli  s^  asside 
Sul  trono  della  luce,  e  con  etema 
Unica  legge  il  moto  e  i  rai  divide 
Ai  seguaci  pianeti  e  li  governa. 
Per  lui  natura  si  feconda  e  ride, 
Per  lui  la  danza  armonica  s^  alterna 
Delle  stagion,  per  lui  nullo  si  spia 
Grano  di  polve  che  vital  non  sia. 


CANTO    SESTO  39 1 

E  cagiou  sola  del  mirando  effetto 
È  la  costante,  eguale,  unica  legge, 
Con  che  il  raggiante  imperador  P  aspetto 
Delle  create  cose  alto  corregge. 
Togli  questa  unità,  togli  il  perfetto 
Tenor  de^  varj  moti ,  onde  si  regge 
L^  armonia  de^  frenati  orbi  diversi , 
E  tutti  li  vedrai  confusi  e  spersi  ^ 

£  r  un  Faltro  inghiottire,  e  furibondo 
Il  mar  levarsi  e  divorar  la  terra, 
E  squarciarla  i  vulcani,  e  nel  secondo 
Càos  gittarla  gli  elementi  in  guerra. 
Figlio,  in  questa  mina  (  e  dal  profondo 
Cor  sospirò)  F immagine  si  serra 
Di  nostra  patria:  cade  la  sua  mole, 
Peixhè  a^suoi  moti  non  è  centro  un  Sole. 

Tacque;  e  surto  del  loco  ove  sedea. 

Gli  occhi  al  suol  fitti,  e  a  passo  or  presto  or  lento 

Misurava  la  stanza;  e  sculto  avea 

Su  la  fronte  F  interno  agitamento. 

Tra  la  primiera  genitrice  idea 

Di  perigliosa  impresa,  ed  il  momento 

Dell'  eseguire ,  V  intervallo  è  tutto 

Fantasmi;  e  bolle  de' pensieri  il  flutto. 

Allor  fiera  consulta  in  un  ristretti 

Fan  dell'  alma  i  tiranni  ;  e  la  raccolta 
Ragion  nel  mezzo  ai  ribellati  affetti 
Sta,  qual  re  ti*a  feroci  arme  in  rivolta, 
lyia  prestamente,  ove  la  Gloria  getti 
Nel  mezzo  il  dado,  quella  lite  é  sciolta. 
Tormenta  i  petti  generosi  allora 
Il  periglio  non  già,  ma  la  dimora. 


39^  n.  BARDO  DELLà  SELVA  NERA 

Tutto  quel  dì  V  Eroe  fu  muto,  e  pronte 
Tutte  sue  forze  rassegnò.  Non  tante' 
Scoppiar  scintille  fa  il  martel  di  Bronte 
Sovra  r  incude  di  Vulcano,  quante 
Scoppian  le  cure  dentro  quella  fronte 
Alla  fronte  di  Giove  simigliante, 
Quando  Pallade  ancor  non  partorita 
Del  cérebro  immortai  chiedea  P  uscita. 

Scese  la  notte,  e  in  sogno  ecco  plorando 
Tornar  la  stessa  vision,  che  in  atto 
Di  sdegnoso  dolor  gli  fea  comando 
Di  precider  le  lunghe  al  gran  riscatto. 
Surse  il  Forte,  e  la  man  stesa  sul  brando; 
O  Patria,  disse,  t^ obbedisco,  E  ratto 
Nel  raccolto  Senato  al  nuovo  Sole 
Entra,  e  queste  vi  tuona  alte  parole: 

In  quale  stato  vi  lasciai.  Francesi? 
In  qual  vi  trovo?  Vi  lasciai  la  pace, 
Trovo  guerra;  lasciai  conquiste,  e  scesi 
Veggo  dall'Alpi  T Alemanno  e  il  Trace; 
Lasciai  lucenti  di  guerrieri  arnesi 
Gli  arsenali,  e  son  vóti.  La  vorace 
Rapina  ha  tutto  dissipato,  eretta 
In  ria  scienza  dal  poter  protetta. 

Hanno  esausto  lo  Stato;  il  Nume  è  spento 
Di  Giustizia;  né  senno,  né  decoro 
Nel  maneggio  civil;  qual  vile  armento 
Spinti  i  soldati  al  marzì'al  lavoro. 
Ove  sono  i  miei  figli?  ove  li 'cento 
Mila  fratelli ,  che  lasciai  d' alloro 
Carchi?  che  avvenne  di  cotanti  forti f 
Mi  rispondete  ;  che  ne  fu  ?  Son  morti. 


V 


CANTO  SESTO  i^ì 

Morti,  ahi  !  son  della  patria  i  defensori, 
E  vivi  i  tristi  che  la  patria  uccidono*, 
Vivi  non  pur,  ma  eccelsi  e  reggitori 
Supremi  al  comun  pianto  empj  sorridono. 
E  delle  leggi  intanto  i  creatori 
Senza  consiglio ,  senza  cor  s^  assidono 
In  venduto  Senato:  han  sotto  il  piede 
Spalancato  P abisso,  e  nullo  il  vede. 

Ma  d^nfamia  coperto  e  irrevocato 
Passò,  lo  giuro,  de^ ribaldi  il  regno ^ 
E  della  patria  qui  sul  lacerato 
Corpo  il  giura  de^  prodi  il  santo  sdegno. 
Come  vento  tra  scogli  imprigionato. 
Fremè  il  Consesso  a  quel  parlar  già  pregno 
Di  vicina  tempesta^  ed  una  voce: 
Lo  Statuto,  gridò  cupa  e  feroce. 

Lo  Statuto?  il  Magnanimo  riprese, 
E  r  accento  suonò  più  che  mortale. 
Lo  Statuto?  Ed  ardisce  alma  Francese 
Oggi  invocarlo  ?  Lo  Statuto  ?  E  quale  ? 
Quello  cui  tante  e  tante  volte  offese 
Delle  parti  il  furor  ?  quello  in  cui  strale 
Non  è  che  fitto  non  sia  stato  ?  Un  nome 
Che  in  fronte  al  giusto  fa  rizzar  le  chiome. 

Dunque  un  nome  s^  oppon ,  che  soli  affida 
I  traditori?  un  nome  in  cui  delinque 
Santamente  ogn^ iniquo,  e  il  parricida 
Poter  si  sacra  tuttavia  de^  Cinque  ? 
E  non  udite  ancor  dunque  le  strida. 
Che  le  rive  lontane  e  le  propinque 
V  invian  gridando  :  A  terra ,  a  terra  P  empio 
Statuto,  o  Franchi,  e  fine  al  patrio  scempio? 


394  ^^    BiRDO  DELLA  SBLYA  NERA 

Tremar  di  gioja  ai  generosi  «ccenti 

I  pochi  integri,  e  di  terrore  i  molti 
Perversi^  e  fuggir  sotto  i  vestimenti 
Più  man  fur  yiste,  e  trasmutarsi  i  volti. 
À  camparlo  quel  di  dai  violenti 

Ferri  di  questi  o  scellerati  o  stolti, 
Fama  è  che  intomo  al  perigliante  Duce 
Fiammeggiar  fu  veduta  una  gran  luce. 

L^Àngiol  fu  forse  della  patria,  forse 

Altro  messo  del  ciel,  che  tolto  al  mondo 
L'  onor  non  voUe  de' mortali,  e  torse 
n  colpo  che  mettea  Francia  nel  fondo. 
Di  noi  pietoso  un  Dio  certo  il  soccorse , 
Né  più  bello  9  no  mai,  uè  più  giocondo 
Giorno  briUò  di  questo,  in  cui  la  forte 
Mano  il  &en  prese  della  patria  sorte. 

Qual  robusto  di  fianchi  alto  naviglio, 
Che  privo  di  governo  in  mar  crudele 
Estremo  corse  d^  annegar  periglio, 
Frante  Fantenne,  e  lacere  le  vele^ 
Se  di  miglior  piloto  arte  e  consiglio 

II  sottragge  alF  irata  onda  infedele , 
Sue  ferite  ristaura,  e  sul  mar  scuro 
Le  tempeste  a  sfidar  toma  s  ecuro  ^ 

Cotal  la  Grande  Nazion  rivenne, 

Che  Grande  allor  veracemente  emerse, 
E  sanò  le  sue  piaghe,  e  di  solenne 
Luce  vestita  ogni  squallor  deterse. 
Le  virtù  fuggitive  in  bianche  penne 
Tornar.  Giustizia  racconciò  le  sperse 
Rotte  bilance,  e  dal  furor  segnate 
Cancellò  le  rubriche  insanguinate. 


CÀUTO  8B8TO  3g5 

La  Concordia  rifulse ,  e  di  catene 
Indissolute  la  nemica  avvinse^ 
Franse  gli  empj  pugnali  in  su  P  arene 
Angle  temprati,  e  Tire  tutte  estinse. 
La  virtù  che  di  Dio  nell^  uom  mantiene 
La  riverenza,  la  virtù  che  strinse 
Gol  ciel  la  terra,  più  graditi  e  cari 
Bruciò  gF  incensi  su  i  risurti  altari. 

Elbber  norma  ed  impulso  e  vigoria 
I  diversi  doveri  ^  e  d' un  sol  fiato 
Tutti  sospinti  per  diversa  via 
Mossersi  a  gara  ad  animar  lo  Stato. 
Così  volge  sue  rote  in  armom'a 
L^  ordigno  che  misura  il  tempo  alato  ^ 
Hanno  vario  il  cammino  e  vario  il  volo 
Tutte  5  ma  il  punto  che  le  move,  è  un  solo. 

E  le  scienze  intanto  e  le  sorelle 
Arti,  splendor  de^  regni  e  formatrici 
D'almi  costumi,  senza  cui  né  belle 
Son  le  città,  né  i  troni  unqua  felici, 
Schiuser  liete  i  lor  templi^  e  di  novelle 
Ghirlande  ornate,  con  più  fausti  auspici 
Ricominciar  lor  riti,  e  ogni  villano 
Costume  entrato  ne  cacciar  lontano. 

Cosi  tutte  lasciò  Francia  le  brune 

Spoglie  del  lutto,  e  rivestissi  il  manto 
Di  sua  grandezza.  Io  sol  nella  comune 
Letizia,  ahi  lasso!  io  mi  fui  solo  al  pianto. 
Redir  d'Egitto,  e  alle  paterne  cune 
Volar  fu  il  primo  mio  desire^  Un  santo 
Dover  spingea  quest'alma  intenerita 
Ad  abbracciar  colei  che  mi  die  vita. 


396  IL  BARDO  DELLA  SBLYA  NERA 

Moto  ratto  di  Frejo,  e  per  la  via, 
Di  lei  sola  il  pensier  tutto  ripieno, 
Anticipando  nel  mio  cor  Tenia 
n  piacer  del  serrarla  a  questo  seno. 
E  una  dolcezza  dentro  mi  sentia 
Da  non  dirsi,  e  godea  che  indegno  almeno 
De^  cari  amplessi  io  non  facea  ritomo. 
Di  qualche  bella  cicatrice  adorno. 

In  vai  di  Varo,  già  narrailo,  siede 
L^  umil  terra  otc  nacqui.  Frettoloso 
Vèr  quella  adunque  celerando  il  piede 
Odo  annunzio  per  via  fero  e  doglioso. 
Odo  che  le  vicine  erte  possiede 
Il  vincitor  nemico,  odo  cVegli  oso 
Fu  di  calarsi  in  suol  Franco,  e  col  fuoco 
Desolarlo  e  col  ferro  in  ogni  loco. 

Di  mio  villaggio  fo  dimanda,  e  tutto 
Da^  barbari  P  intendo  per  feroce 
Rabbia,  correa  due  giorni,  arso  e  distrutto. 
Mi  strinse  il  gel  le  vene  a  quella  voce. 
Palpitando  proseguo,  e  già  condutto 
Mi  son  davanti  al  suol  natio.  Veloce 
Raddoppio  il  passo,  e  m^ apparisce,  entrando. 
Spettacolo  crudele  e  miserando. 

Àvean  le  fiamme  intomo  orribilmente 
Divorate  le  case,  e  su  la  scura 
Solitaria  mina  alto  un  tacente 
Orror  regnava  e  il  lutto  e  la  paura. 
Irto  i  crini,  e  col  cor  che  il  danno  sente 
Pria  che  lo  vegga,  alle  paterne  mura 
Tremante,  ansante  mi  sospingo^  ed  arse 
Tutte  le  trovo,  e  al  suol  crollate  e  sparse. 


CANTO    SESTO  igj 

Se' tu  fiiggita  in  salvo,  o  sotto  questa 

Macerie  orrenda,  o  madre  mia,  sei  chiusa? 
Ecco  il  crudo  pensier  che  alla  funesta 
Vista  mi  corse  nellUdea  confiisa. 
Gridai,  gente  cercai:  tutto  era  mesta 
Solitudin.  Tenea  la  circonfusa 
Oste  i  colli  imminenti,  e  non  ardiva 
Uomo  appressarsi  alla  deserta  riva. 

Neil'  orribile  dubbio  odo  un  lamento 
D'  afflitta  belva,  un  ululato  acuto 
Che  uscia  di  mezzo  alle  rame,  e  il  sento 
In  suon  che  sembra  dimandarmi  aiuto. 
Salgo,  ed  ahi!  veggo  (umano  sentimento,. 
Vieni  e  impara  pietà),  veggo  giaciuto 
Là  sul  rottame  il  mio  Melampo,  antico 
De'  nostri  lari  e  sempre  fido  amico. 

Mi  riconobbe  ei  si,  ma  non  die  segno 
Dell'  usata  esultanza  il  doloroso^ 
E  d'  amor  e  di  fede  unico  pegno 
Levò  la  testa  e  mi  guardò  pietoso. 
Poi  si  die  ratto  con  umano  ingegno 
A  raspar  le  macerie,  e  lamentoso 
Ululando  e  scavando  tutta  volta^ 
Dir  parca:  La  tua  madre  è  qui  sepolta. 

E,  ohimè!  che  vero  ei  disse ^  ohimè!  che  quanto 
M^  era  dolor  serbato  io  non  sapea  ! 
Misera  madre  ! ...  E  qui  ruppe  in  un  pianto, 
Che  degli  occhi  due  fonti  gli  facea. 
Pianse  percosso  di  pietade  il  santo 
Veglio,  pianse  Malvina,  ed  attendea, 
Già  disposta  a  maggior  duolo,  dal  caro 
Labbro  la  fine  del  racconto  amaro. 


FRAMMENTI  DELLA  PABTE  E 


DEL 


BARDO  DELLA  SELVA  NERA 


PUBBLICATI  DOPO  LA  MOBTB  DELL'  AUTORE 


AFTERTIMENTO  DELV EDITORE, 


I  primi  sei  Canti  del  Bardo  furono  pubblicati  dair Autore  neh- 
fanno  1806  in  Parma  co'  tipi  Bodoniani  in  quattro   diverse  edi" 
zioni  contemporanee  j  la  prima  in  foglio  ^  la  seconda   in  quarto, 
la  terza  in  ottavo  e  V  ultima  in  ottavo  piccolo  j  ed  il  chiaro  tipo- 
grafo  vi  adoperò  tutta  quella  sua  mirabile  perizia  deli  arte,  dalla 
pia  magnifica  forma  venendo  alla  più  gentile  e  leggiadra.  Nel 
frontispizio  di  quelle  edizioni  leggevasi  Parte  Prima;  ma  questa 
fo  la  sola  che  si  avesse  dalle  mani  delV Autore,  poiché  di  già 
nel  1809  ^^^^  '^^  ^^  Palingenesi  scriveva  che  la  Seconda  Parte 
non  erasi  potuta  pubblicare  per  un  anno  e  pia  eli  cattiva  salute 
che  aveva  ritardato  il  lungo  suo  lavoro,  e  per  alcune  politiche 
mutazioni  che  ne  avevano  alterato  il  pioAo,  Tra  i  manoscritti  la- 
sciati  daW Autore  morendo  trovavasi  però  finterò  Canto  VÌI, 
cioè  il  primo  della  Parte  Seco  fida,  intitolato  :  Le  Lagrime^  ed  il 
principio  delV  ottavo.  Efo  appunto  quel  Canto  FU  che  col  titolo 
di  Pietà  Filiale  venne  dalV  illustre  sig,  cav,  Andrea  Maffei  dato 
in  luce  nel  1 833^  sopra  un  autogrcfo  da  lui  posseduto,  nelV  oC" 
casione  che  S,  E,  il  eh,  sig,  barone  Mazzetti  era  stato  promosso 
a  Presidente  del  Tribunale  ìT  Appello  in  Milano,  Nello  stesso  anno, 
e  sempre  col  titolo  di  Pietà  Filiale   venne  inserito  dal  Lampato 
nel  tomo  IV  delle  Opere  inedite  e  rare  del  Monti^  ove  trovasi  an^ 
Cora  il  principio  del  Canto    Vili,  I  lettori  vedranno   volentieri 
nella  mia  edizione  questi  preziosi  frammenti  awanta^iati  d^  al- 
quanto e  collocati  al  proprio  lor  luogo. 


CANTO  SETTIMO 


LA  PIETÀ  FIUALE 

Oh  del  nostro  sentir  parte  migliore, 
Generosa  di  belle  alme  fralezza, 
Lagrime  pie!  per  voi  vinto  il  dolore 
Tace,  e  la  punta  del  suo  dardo  spezza  ^ 
Per  Yoi  fra  Fonde  degli  afianni  il  core 
Beve,  ignota  al  profano,  alma  dolcezza^ 
Voi  degli  afflitti  voluttà,  voi  pura 
Fonte  di  pace  in  mezzo  alla  sventura. 

• 

Misero  quegli  che  cader  vi  mira, 

E,  di  voi  schivo,  ad  altra  parte  abbassa 
La  sdegnosa  pupilla,  e  non  sospira 
Su  r  infelice  venerando ,  e  passa  ! 
Verrà  del  Cielo  a  visitarlo  Pira, 
Che  inulta  la  ragion  vostra  non  lassa; 
IN  è  stilla  pur  del  pianto  altrui  negato 
Scenderà  sul  superbo  abbandonato. 

Ma  tre  volte  felice  chi  di  belle 

Lagrime  bagna,  compatendo ^  il  ciglio! 
La  Pietà  le  raccoglie,  e  ammorza  in  quelle 
LUra  che  ferve  nel  Divin  Consiglio; 
Mentre  il  vostro  vapor,  ch'alto  alle  stelle 
E  caro  ascende  dal  terreno  esiglio. 
Su  r  umano  fallir  stende  un  bel  velo, 
E  riconcilia  colla  terra  il  Cielo. 


4oa  IL  BABOO  DELLA  SELVA  REEA 

Né  voi  già  larghe  scorrere  godete 

Tra  il  fasto  cittadin  sott^  aureo  tetto  ^ 
Che  la  diva  Pietà,  da  cui  movete, 
Non  batte  no  del  crudel  ricco  al  petto. 
Anime  pure  di  vostr^  acque  han  sete , 
Di  voi  più  degne  in  povero  ricetto^ 
Ivi  il  cor  di  Terigi,  ivi  le  ciglia 
y^  aspettano  d^  Ullino  e  della  figlia. 

Poiché  in  parte  per  gli  occhi  ebbe  disciolto 
Il  duol  che  chiuse  al  favellar  la  via, 
Alzò  Terigi  il  caro  umido  volto , 
Che  ancor  più  caro  nel  dolor  verna. 
Vede  il  veglio  che,  il  guardo  in  sé  raccolto, 
Lagrìmava  e  tacca,  vede  la  pia 
Vergin  che  sopra  gli  pendea  corbelli 
Occhi  intenti  ed  aperti  in  due  ruscelli. 

La  man  pose  alla  man  della  dolente. 
Grato  a  tanta  pietà ,  quell^  infelice  ^ 
Sovra  il  cor  la  si  strinse,  ed  il  languente 
Sguardo  in  lei  fisso:  Sospendi,  le  dice,  . 
Questo  pianto  sospendi,  alma  innocente^ 
Che  la  lagrima  tua  consolatrice 
Tempo  non  é  che  tutta  su  V  orrenda 
Avventura  ti'abocchi,  e  al  cor  ti  scenda. 

Se  tu  pur  conoscesti  e  ti  fu  cara 
Una  madre,  o  Malvina,  un^ adorata 
Madre,  udirai  e  intenderai  se  amara 
Fu  la  mia  sorte  e  a  rimembrar  spietata. 
Disse  ^  e  quale  é  colui  che  si  prepara 
Caso  acerbo  a  narrar,  V  addolorata 
Mente  raccolse  il  Cavaliero,  e  detti 
Cercò  conformi  ai  perturbati  affetti. 


CANTO  SETTIMO  ^OÌ 

Parla,  riprese  aUor  con  un  sospiro 
La  giovinetta  a  confortarlo  intenta^ 
Parla,  caro  infelice:  il  tuo  martiro 
Non  r  apri  a  cor  che  fugga  e  non  lo  senta» 
Anch'  io  conosco,  anch'  io  sostenni  il  diro 
Strale  che  V  arco  del  disastro  avventa. 
Anch'  io  r  ebbi  una  madre ,  una  diletta 
Madre  ed  amica  che  lassù  m'aspetta. 

Si  dicendo,  levò  le  rugiadose 

Luci,  e ,  col  guardo  al  ciel  diritto  e  fiso, 

La  man  sul  petto  virginal  compose , 

E  si  dolce  atteggiò  1'  aria  del  viso, 

Che  1'  anima  parca  le  desiose 

Ali  aprire  e  innalzarse  al  paradiso, 

Disdegnosa  del  carcere  terreno 

Che  la  divide  dal  materno  seno. 

Di  quel  dolce  abbandono  ancor  non  era 
D'Ullin  la  figlia  generosa  uscita, 
Che  apparecchiato  a  proseguir  la  fiera 
Storia  che  il  pianto  avea  prima  impedita, 
Terigi  ripigliò:  Poiché  la  fera 
Pietosa  m'  ebbe  in  suo  parlar  chiarita 
La  crudel  sorte  della  madre,  immoto 
Rimasi  e  freddo ,  e  d'  ogni  senso  vóto. 

Al  tornar  dello  spb*to,  enti'O  le  chiome 
Cacciai  la  mano,  e  del  dolore  il  grido 
Alzai  d' intorno ,  e  la  chiamai  per  nome  ^ 
Né  mi  rispose  che  il  deserto  lido. 
Di  su,  di  giù  mi  ravvolgea  siccome 
Furente,  e  tuttavia  raspando  il  fido 
Cane  ululava,  e  dir  parca:  M'aiuta, 
Che  la  misera  ancor  non  è  perduta. 


4o4  n.  BARDO  DELLA  SELVA  NERA 

Come  rapida  fiamma  al  cor  mi  corre 
Questo  sospetto,  e  nel  pensier  mi 
Sotterraneo  recesso,  ov^ella  porre 
Potea  nell^uopo  a  salvamento  il  piede. 
Per  udita  esser  anco  mi  soccorre 
Fresco  l'eccidio  del  paese ,  e  fede 
Danne  il  fumo  che,  in  mezzo  all'alto  orrore, 
Sfoga  tra  sasso  e  sasso,  e  ancor  non  muore. 

À  quel  lampo  di  speme  rinfiammarse 
Le  membra  mi  sentii  di  repentina 
Forza  ^  e  alla  parte  ov'io  pensai  che  trarse 
In  occulto  potea  quella  meschina, 
Il  dì  che  crudo  entrò  il  nemico  e  sparse 
D'ogn'  intomo  la  morte  e  la  mina. 
Ratto  mi  diedi  a  disgombrar  la  smossa 
Bica  di  sassi  e  travi  a  tutta  possa. 

Ma  solo,  ahi  lasso!  che  potea?  Tropp'  era 
Alto  r  ingombro,  e  la  man  poca  a  tanto. 
La  man  che  tutta  è  sangue  in  quella  fiera 
Fatica,  e  un'  onda  il  corpo  tuttoquanto. 
Pur  proseguo,  e  vi  spendo  ogni  maniera 
Di  travaglio  e  di  pena^  infin  che  firanto 
Ogni  vigore,  in  mezzo  all' affannosa 
Opra  al  suol  cado  come  morta  cosa. 

Cado,  e  abbracciava  sanguinoso  e  rotto 
Le  accalcate  mine.  In  quello  stato 
Odo,  o  parmi  d'  udir,  cupo  di  sotto 
Un  lamento  lugubre  e  prolungato. 
Mi  riscuoto;  e  di  nuovo  in  giù  condotto 
L'orecchio  al  suol,  di  nuovo  odo  un  plorato, 
Che  distinto  m'avvisa  e  gemebondo 
Un  sepolto  che  grida  in  quel  profondo. 


cìnto  settimo  /^oS 

Ella  vive,  ella  vive^  e  balzo  in  piedi 
Forsennato  di  gaudio^  e  tuttavia 
Iterando,  ella  vive,  a  far  mi  diedi 
Sforzo  che  vano  e  disperato  uscia. 
Dio,  gridai,  Dio  clemente,  o  mi  concedi 
La  sua  vita,  o  ti  prendi  anco  la  mia. 
Così  pregando,  un  improvviso  e  molto 
Romor  di  piedi  avvicinarsi  ascolto. 

Era  d^  armati  un  bellicoso,  ardito 

Drappel,  cui  patrio  amore,  ira  movea 
Contro  il  vicin  nemico,  e  lui  pentito 
Far  della  strage  miseranda  ardea. 
Corsi,  e  squallido,  ansante,  irto,  sfinito 
Narrai  V  orrido  caso  ^  e  non  avea 
Tutto  ancor  detto,  che  lo  stuol  già  sopra 
Ài  franti  muri  di  gran  cor  s^  adopra. 

E  a  quella  parte  ov^  io  lor  destre  invoco  ^ 
Sgombra  il  passo  impedito,  e  mi  seconda, 
E  già  siam  presso  al  sotterraneo  loco^ 
Già  la  chiamo,  già  par  che  mi  risponda. 
Oh  momento  !  il  mio  core  era  di  foco , 
E  tremava  ad  un  tempo  come  fronda. 
Apresi  il  varco  alfine,  alfin  più  chiara 
Mi  vien  la  voce  lamentosa  e  cara. 

Precipitoso  per  la  data  porta 

L^ impaziente  mia  pietà  mi  caccia, 

Gridando,  O  madre!  e  già  la  tengo  (ahi  corta 

Immensa  gioja  !  )  fi:a  le  calde  braccia. 

La  dolorosa  omai  tra  viva  e  morta, 

Al  suon  della  mia  voce  alza  la  faccia, 

Mi  guarda,  mi  conosca,  e,  messo  un  grido. 

Cade  spenta  dal  gaudio,  ed  io  T  uccido. 

Mosti.  Poemetti.  26 


4o6  U.  BARDO  DSIXi  SELVA  MERA 

Io  per  camparla  le  troocai  la  vita, 

Misero  incauto!  e  si  fé  giuoco  il  Cielo 
Di  mia  pietade  fih'al  tradita. 
Se  ancor  del  crudo  colpo  mi  querelo , 
Dio }  perdona:  nasconde  V  infinita 
Tua  provvidenza  impenetrabil  velo. 
Ma  tanto  amore  ed  una  tanta  fede , 
No  y  mertar  non  parca  questa  mercede. 

Che  si  fosse  di  me,  che  mi  facessi 
Dopo  Talta  sventura,  io  noi  so  dire^ 
Si  dalPambascia  e  dal  dolore  oppressi 
Gli  spirti  tutti  uscian  d'  ogni  sentire. 
Come  fur  richiamati  agP  intermessi 
Officii  della  vista  e  dell^ udire, 
Trovaimi  cinto  di  dolenti  volti 
In  pio  silenzio  a  me  d^  intomo  accolti. 

Muto  li  guato,  e  già  il  pensier  tornando 
Ne' suoi  discorsi,  colla  man  rimovo 
I  circostanti,  e  con  lo  sguardo  errando 
D' ogni  lato ,  la  cerco  e  non  la  trovo. 
Dov'è?  languido  e  fioco  alfin  domando, 
Dov'è  la  madre?  e  tace  ognun.  Di  nuovo 
Chieggo,  e  fiero  mi  levo,  e  la  discreta 
Carità  degli  amici  indarno  il  vieta. 

In  povero  vicin  tempio,  dall'  ira 

Ostil  non  tocco,  avean  locato  intanto 
Umilemente  su  la  nuda  pira 
Di  poche  pietre  il  corpo  onesto  e  santo. 
Giacegli  gramo  al  fianco  e  lo  rimira 
n  povero  Melampo,  che  di  pianto 
Avea  gli  occhi  suffiisi,  e  ad  or  ad  ora 
Solleva  il  capo,  si  lamenta  e  plora. 


CAUTO  SETTIMO  4^7 

Di  molte  turbe,  quivi  convenute 

Sotto  la  scorta  del  guerrier  drappello, 
Bisbigliavan  le  vie  dianzi  sì  mute: 
Ciascun  tornava  al  suo  deserto  ostello^ 
E  finigando  delParse  ed  abbattute    • 
Case  ogui  lato,  accolto  in  quel  sacello 
Àvean  le  salme  d^  alcun  altro  estinto , 
E  deposte  nel  mezzo  al  pio  recinto. 

y^  era  una  madre  dal  dolore  uccisa , 
Giovinetta  col  figlio  alia  mammella, 
Una  tigre,  una  Furia  avria  conquisa 
La  sua  sembianza  dilicata  e  bella. 
Grudel  ferro  sul  petto  in  empia  guisa 
n  caro  pegno  le  trafisse,  ed  ella 
Per  r  immenso  dolore  al  punto  istesso 
Spiro  col  labbro  su  la  piaga  impresso. 

Crescea  materia  di  comun  lamento 
Un  generoso  che ,  a  campar  V  amico , 
Si  lanciò  tra  le  fiamme  e  vi  fu  spento, 
Vittima  illustre  dell^amor  ch'io  dico. 
Lagrimavasi  ancora  il  violento 
Fato  d'  un  veglio  di  valore  antico , 
Che,  giusto,  uwano,  liberal,  cortese. 
Tutti  amò.  Dio  temette,  e  nullo  offese. 

Come  il  pie  misi  nella  santa  soglia 
Tra  quella  di  defunti  atra  corotfa. 
L'altrui  sventura  che  la  nostra  doglia 
Sospende  e  dolce  a  compatir  ne  sprona, 
Religi'on  che  pronta  in  noi  germoglia 
Nel  disastro,  e  al  pensìer  grave  ragiona , 
Si  mi  scosser  l'inferma  anima  anela. 
Che  tutta  cadde  al  mio  furor  la  vela. 


4o8  IL    BARDO  DELLA    SELVA    IfBRl 

Sentii 9  venendo  nella  sacra  stanza, 

Stanza  augusta  di  Dio  quanto  più  nuda , 

La  sua  sentii  presente  alta  possanza  , 

Che  d^  ogni  umano  affetto  ci  denuda. 

Questo  Dìo  degli  afflitti  una  costanza 

Par  che  nel  petto  allor  mMnfonda  e  chiuda^ 

La  costanza  del  giusto,  che  la  pace 

Trae  dagli  affanni,  inchina  il  capo  e  tace. 

Oh  necessaria  agli  infelici  e  cara 
Religioni  Tu  davi  al  mio  dolore 
Sublime  qualità,  sì  che  V  amara 
Piena  non  tutto  mi  sommerse  il  core. 
M'appressai  della  madre  alPumil  bara, 
VafHssi  le  pupille,  e  di  chi  muore 
Già  mi  stringea  Tangoscia^  ma  le  penne 
Levò  la  mente  al  Cielo,  e  la  sostenne. 

Sorse  intanto  la  notte,  e  ricopria 
Del  benigno  suo  vel  le  lagrimate 
Opre  mortali^  e  ognun  del  tempio  uscia 
Di  mestizia  dipinto  e  di  pietate. 
Ma  me  né  forza  né  pregar  partia 
Dalle  care  a'  miei  sguardi  ed  onorate 
Spoglie,  e  là  mi  rimasi,  onde  di  duolo 
Inebbrìarmi  a  mio  pien  grado,  e  solo. 

Le  venerande  tenebre  rompea 

Del  sacro  chiuso  una  lugubre  e  muta 

Lampa  ^  e  la  fioca  luce  orror  crescea 

Dai  distesi  cadaveri  sbattuta. 

Al  nudo  capo  matemal  facea 

Letto  una  pietra,  ed  io  su  la  sparuta 

Fronte  tenea  le  ciglia  immote  e  fisse. 

Quasi  aspettando  che  le  sue  m'aprisse. 


CANTO  SETTIMO  4^9 

Poiché  alfin  la  solinga  aspra  mia  cura 
Fu  di  lagrime  sazia  e  di  sospiri^ 
O  poter  fosse  della  pia  natura 
Che  tutti  placa  col  pianto  i  martiri, 
O  fosse  opra  del  Giel,  me  su  la  dura 
Terra  giacente  con  pesanti  giri 
Tale  avvolse  un  sopore,  e  mi  si  fuse 
Su  gli  occhi,  che  domati  alfin  li  chiuse. 

Ed  ecco  vera  innanzi  e  luminosa 
Starmi  V  immago  della  cara  estinta, 
Che  i  rai  m^  asciuga  colla  man  pietosa , 
E  in  soave  d^amor  voce  distinta: 
Figlio,  disse,  pon  modo  all^affannosa 
Doglia,  che  offende  il  mio  gioire.  Io  cinta 
DMmmortal  luce  in  ciel  mi  godo,  e  ({uivi 
Ài  senso  alzata  degli  eterni  Divi, 

T'amo  d'amore  che  in  mortai  non  scende 
Intelletto,  e  di  te  con  Dio  ragiono, 
E  in  lui  veggo  il  tenor  delle  vicende 
A  cui  tu  resti,  e  di  che  lieta  io  sono. 
Ma  sollevarne  il  vel  mi  si  contende^ 
Di  conforti  e  d'avvisi  unico  dono 
Farti  mi  lice,  e  venni  a  ciò.  Tu  gli  odi, 
E  in  cor  li  figgi  di  ben  saldi  chiodi: 

La  patria,  per  cui  bella  è  ognor  la  morte, 
A  fecondi  d'  onor  nuovi  perigli 
Minacciata  d'esterne  empie  ritorte 
Di  nuovo  appella  ad  alto  grido  i  figli. 
Soccorso  invoca  su  le  Cozie  porte 
Italia  stretta  da  robusti  artigli, 
E  il  brando  che  a  tarparli  il  Ciel  destina, 
n  fatai  brando  è  fuor  della  vagina. 


4lO  IL  BiRDO  DEIXl  SELVA,  NERA 

E  già  splende  suU^Àlpi ,  già  V  etema 
Neve  incalcata  da  terreno  piede 
Sente  V  orma  francese,  e  la  superna 
Cima  d^armi  fianuneggia,  e  il  rarco  cede. 
Là  ti  chiama  V  onor  che  ti  governa, 
Di  là  si  scende  ad  immortai  mercede, 
Alla  mercè  del  forte  che  sé  stesso 
Dona  alla  patria  ed  all^  amico  oppresso. 

Sceso  in  valle  di  Po  Paltò  Guerriero, 
A  cui  nullo  guerrier  si  paragona, 
Farà  gran  pugna,  fiaccherà  del  fiero 
Rivai  r  orgoglio,  che  temnto  or  suona  ^ 
Vittoria  mieterà  che  dell^  impero 
Italo  e  Franco  la  regal  corona 
Daragli  al  crine,  e  più  non  dico:  il  Fato 
Matura  il  resto  a  più  bei  dì  serbato. 

Ciò  che  possa  V  ardir  Gallo  ne^  campi 
Di  Marengo  tremendi ,  fia  dimostro. 
Ivi  sarà  che  di  valor  tu  stampi 
Orma  degna,  tu  piur,  d^  eterno  inchiostro. 
Va  dunque ,  e  tua  virtù  chiara  divampi 
Per  r  onorato  calle  che  ti  mostro. 
Fa  che  di  te  quel  Grande  che  ti  guida  , 
Qualche  bel  fatto  intenda  e  ti  sorrida. 

Con  questa  speme  al  ciel  beata  io  tomo^ 
Più  non  lice  indugiarmi:  al  tergo  mio 
Olezzante  aleggiar  sento  del  giorno 
L^  aura  vietata  che  m^  Incalza  :  addio.  — 
Si  dicendo  mi  cinse  al  collo  intomo 
Le  braccia,  e  sparve  in  un  balen,  mentr^io 
Per  rattenerla  a  lei  m'avvento,  e  a  vóto 
Tornan  le  mani  al  petto,  e  mi  riscuoto. 


CANTO  SETTIMO  4'^ 

Confortato  mi  desto  ,  e  coU^  aita 

De^  già  pronti  compagni  a  dar  mi  volsi , 
Duro  oflScio  !  la  tomba  a  chi  la  vita 
Diemmi^  e  tutto  al  grand^uopo  il  cor  raccolsi. 
Pietosamente  in  parte  erma  e  romita 
Ne  recammo  la  spoglia^  e  anch^  io  ne  tolsi 
Su  queste  spalle  il  peso,  alle  sante  ossa 
ÀncVio  scavai  con  (juesta  man  la  fossa. 

Io  la  calai  là  dentro ,  io  sovra  il  letto 
Dell^  etema  cpuete  la  composi  ^ 
Delle  man  giunte  le  fei  croce  al  petto, 
E  i  fior  mesti  di  morte  al  crln  le  posi^ 
£  dato  il  lungo  estremo  sguardo ,  e  detto 
L^  ultimo  addio,  su  i  santi  e  preziosi 
Membri  gittammo  della  terra  il  velo, 
Pregando  alP  alma  etema  luce  in  cielo. 

Oh  Malvina  !  al  cader  delle  versate 
Gementi  zolle  s\d  materno  volto, 
Qual  mi  movesse  assalto  la  pietate, 
Alle  labbra  d^  un  figlio  il  dirlo  è  tolto. 
Così  sparir  vid^  io,  lasso  !  le  amate 
Sembianze,  e  ancor  le  veggo,  ancora  ascolto 
Il  cupo  suon  della  terra  che  piomba 
Su  quella  fronte ,  e  dentro  mi  rimbomba. 


CANTO  OTTAVO 


Ma  già  levato  avea  dell^  armi  il  grido 

De^ Franchi  il  sommo  correttor  Guerriero, 
E  alla  possente  voce,  Armi,  ogni  lido, 
Armi  freme  ogni  petto,  ogni  pensiero. 
Come  suol  dall^  arena  arsa  di  Dido 
Soffiar  Tumido  vento,  e  alzarsi  nero 
Di  nubi  un  gruppo  che  del  ciel  la  faccia 
Nasconde,  e  strage  all'  arator  minaccia^ 

Cosi  da  tutta  la  francesca  terra, 

Terra  di  prodi  ognor  feconda,  s'erse 

Subitamente  nube  atra  di  guerra, 

Che  d'armati  le  Cozie  Alpi  coperse. 

L' orror  del  varco  indamo  il  cammin  serra, 

E  la  neve  che  pie  mai  non  sofferse, 

E  i  torrenti  e  gli  abissi.  Alla  virtude 

Sprone  è  il  periglio,  e  nulla  via  si  chiude. 

Fama  è  che  sopra  queir  orrende  cime 
L'ombra  s'aggiri,  avvolta  di  tempeste. 
Del  feroce  Annibàl,  che  delle  prime 
Orme  guerriere  stampò  V  ardue  creste. 
La  vede  il  montanar  fosca  e  sublime 
Passeggiar  su  le  nubi ,  e  dalle  teste 
Dell'  erte  rupi  rotar  nembi  al  basso, 
Vietando  ai  fanti  e  cavalieri  il  passo. 


IL    BARDO  DELLA  SELVA  NERA,  CANTO  OTTAVO  4'^ 

D^asta  armato  e  d^  usbergo  ergesi  il  crudo 
Fantasma  a  guardia  del  tremendo  calle, 
Pari  a  dirupo  smisurato  e  nudo, 
Cui  batte  etemo  turbine  alle  spalle. 
Spesso,  se  vero  è  il  grido,  alza  lo  scudo, 
E  forte  il  percotendo ,  empie  la  valle 
D^alti  rimbombi  e  di  paure,  e  truce 
Fa  del  grand^  elmo  balenar  la  luce , 

E  delPelmo  il  cimier,  che  tremolante 
Fra  i  rotti  nembi  trapassar  si  mira , 
E  trarsi  dietro  il  turbo  e  la  sonante 
Àia  de^  venti  procellosi  e  Y  ira. 
Air  immenso  fracasso  il  viandante 
D^orror  sacro  compreso  il  pie  ritira 


LÀ 


SPADA  DI  FEDERICO  II 


RE  DI  PRUSSIA 


OTTAVE 


t 


ALLA 


GRANDE  ARMATA 


VINCENZO  MONTI 


La  più  bellicosa  delle  greche  nazioni  non  veniva  a  com- 
battimento  senza  prima  sacrificare  a  Calliope^  e  V  antica 
sapienza  parve  stabilire  Pamistà  tra  il  Guerriero  e  il  Poeta, 
associando  Ercole  colle  Muse.  Per  insegnarne  ancora  che 
gV  illustri  conflitti  sono  V  argomento  più  caro  di  queste 
Dive,  la  medesima  lasciò  scritto  che  il  primo  deloro  canti 
fu  il  trionfo  di  Giove  lor  genitore,  e  i  forti  fatti  dei  Numi 
che  per  lui  combattevano  nella  gran  giornata  di  Flegra. 

A  voi  dunque,  valorosi  Duci  e  Soldati  del  Grande  Na- 
poleone, io  consacro  a  buon  titolo  questi  versi  dalla  mili- 
tare virtù  vostra  inspirati^  e  dai  campi  di  Marengo  e  di 
Àusterlitz ,  ove  già  vostro  Bardo  sto  intrecciando  corone 
degli  allori  colà  mietuti,  io  corro  per  diporto  a  raccogliervi 
qualche  fironda  di  quelli  di  Jena,  finché  sono  ancor  caldi 
del   sangue   dell^  inimico.  Né  io   temo  che  questo  tributo 


4i8 

d^  ammirazione  sia  da  voi  rifiutato.  Siete  figli  della  piq 
grande  ed  insieme  della  più  eulta  e  gentile  fi*a  le  nazioni; 
e  mi  conforta  inoltre  di  buòna  speranza  un  altro  pensiero. 
L'  ofierta  mia  rispettosa  vi  si  presenta  sotto  gli  auspicj  e 
V  eccitamento  d'  un  Principe  generoso,  un  dì  pit>de  vostro 
compagno  nelle  battaglie,  ed  ora  dolente  di  trovarsi  lon- 
tano dai  gloriosi  vostri  pericoli. 

À  questo  magnanimo  desiderio  il  cuoic  vostro  ha  già  nomi- 
nato r Augusto  Eugenio  Napoleone,  amore  e  ferma  tutela 
del  beato  Regno  Italiano.  Da  lui  mi  venne  V  ardire  d' in- 
titolarvi la  Spada  di  Federico ^  egregia  vostra  conquista; 
ed  Egli  è  pur  quello  che  a  tutte  le  ottime  discipline  libe- 
rale di  beneficj,  compartisce  a  me  qnell^  ozio  onorato,  che 
divenuto  un  giorno  bella  sentenza  di  gratitudine  sulla  bocca 
del  Titiro  Mantovano,  inspira  adesso  alla  mia  canti  di  lode 
ai  primi  guerrieri  flell^  universo. 

Milano,  a4  Novembre  1806. 


LA  SPADA 

DI 

FEDERICO   II 


I 

Sul  muto  degli  Eroi  sepolto  frale 
Etema  splende  di  virtù  la  face. 
Passa  il  Tempo,  e  la  sventola  coU'ale, 
E  più  bella  la  rende  e  più  vivace. 
Gorre  a  inchinarla  la  virtù  rivale^ 
Alessandro  alla  tomba  entro  cui  tace 
LMra  d'Achille,  e,  maggior  d'ogni  antico, 
Bonaparte  alPavel  di  Federico. 

n 

Del  sudore  di  Jena  ancor  bagnato 

Al  sacro  marmo  ei  giunse,  e  la  man  stese 
Al  brando  che  in  Rosbacoo  insanguinato 
Tarpò  le  penne  del  valor  Francese: 
Famoso  brando  dal  martel  temprato 
Della  Sventura^  e  che  per  dure  imprese 
Nomar  fé  Grande  chi  lo  cinse,  e  dritto 
Diede  e  splendor  sovente  anco  al  delitto. 

m 

La  man  vi  stese ,  e  disse  :  Entra  nel  mio 
Pugno,  o  fatai  tremenda  spada.  Il  trono 
Gh'  alto  levasti,  e  i  lauri  onde  coprio 
Un  dì  la  fronte  il  tuo  Signor,  miei  sono. 
Dal  gorgo  intatta  dell'umano  obbho 
Sua  gloria  volerà^  ma  tale  un  suono 
Di  Jena  i  campi  manderan,  che  fiacco 
Quel  n'andrà  di  Torgavia  e  di  Rosbacco. 


4^0  LÀ  SPADA 

IV 

Così  dicendo,  con  un  fier  sorriso 

LMmpugna^  e  il  ferro  alle  contente  ciglia 
Dalla  vagina  già  splendea  diviso. 
Mise  Parme  una  luce  atro-vermiglia^ 
Mise,  forte  tremando,  un  improvviso 
Gemito  il  sasso  :  ed  ecco  maraviglia , 
Ecco  una  man  che  scarna  e  spaventosa 
Sul  nudo  taglio  dell^acciar  si  posa. 

V 

Era  del  guanto  marzìal  vestita 
La  terribile  mano,  e  si  vedea 
Sangue  uscirne  a  gran  gocce:  e  tosto  udita 
Fu  roca,  orrenda  voce  che  dicea: 
Chi  sei  che  al  brando  mio  porti  Tardità 
Destra  ?  E  il  brando  di  forza  a  sé  traea, 
E  un  fremer  si  sentia  di  rotte  e  cupe 
Voci,  qual  vento  in  cavernosa  rupe. 

VL 
Rise  il  franco  guerriero  alla  superba 
Sdegnosa  inchiesta  per  lui  solo  intesa 
(Che  sol  delle  grand^alme  al  senso  serba 

I  suoi  portenti  il  cielo,  e  li  palesa)^ 

II  magnanimo  rise^  indi  in  acerba 
Sembianza  d^  ire  generose  accesa^ 

E  mia,  gridò,  cotesta  spada,  e  invano 
La  contende  PÀvemo  a  questa  mano. 

VII 
Se  di  Gocito  su  la  morta  foce 

Non  vien  dei  fatti  di  quassù  la  fama, 
Se  laggiù  del  mio  nome  ancor  la  voce 
Non  ti  percosse,  e  di  saperlo  hai  brama, 
Ghiedilo  a  quel  tuo  trono,  ombra  feroce, 
Ghe  là  giace  atterrato,  e  invan  ti  chiama. 
Tu  ben  sette ,  a  fondarlo ,  anni  pugnasti , 
Io  sette  giorni  a  riversarlo:  e  basti. 


DI    FEDERICO    II  4^' 

vm 

Non  tutto  ancora  il  suo  parlar  finiva, 
Che  un  doloroso  altissimo  lamento 
Suonò  per  V  aria,  e  alla  virtù  visiva 
Del  favellante  Eroe  sparve  il  portento. 
Ma  non  già  sparve  agli  occhi  della  Diva, 
Che,  animando  su  Tarpa  il  mio  concento, 
Presta  al  pensiero  la  pupilla,  e  il  move 
Per  le  vie  de^  baleni  in  grembo  a  Giove. 

IX 

Ivi  si  spazia,  e  con  intatte  piume 

Tra  gli  accesi  del  Dio  strali  s'avvolve^ 
A  suo  senno  de^Fati  apre  il  volume^ 
Tocca  il  sigillo  del  Futuro,  e  il  solve: 
E  fragoroso  passar  vede  il  fiume 
Deir umane  vicende,  e  sciolti  in  polve 
Sparir  là  dentro  i  troni,  e  su  la  bruna 
Onda  regina  passeggiar  Fortuna. 

X 

Poiché  r  emersa  dall^  eterna  notte 

Larva  scettrata  infranto  vide  il  soglio 
Di  Brandeburgo,  e  violate  e  rotte 
L^ auguste  bende  del  Borusso  orgoglio, 
Cesse  il  ferro  conteso^  ed  interrotte 
Di  furor  mormorando  e  di  cordoglio 
Fiere  parole^  alPaura  alto  si  spinge, 
E  lunga  lunga  il  ciel  col  capo  attinge. 

XI 

Perchè  nessuna  al  suo  veder  si  rubi 
Di  tante  alla  gran  lite  armi  commosse, 
Squarcia  d^  intomo  coUa  man  le  nubi^ 
E  si  truce  fra  nembi  appresentosse , 
Ch^un  de^  negri  parca  vasti  Gherubi 
Che  un  dì  la  spada  di  Michel  percosse. 
Bieca  allor  la  grand^  Ombra  il  guardo  gira 
Sul  pugnato  suo  regno:  ed  ahi!  che  mira? 
MoMTi.  Poemetti,  aj 


/^VL2  LA   SPADA 

xn 

Di  Prosso  sangue  dilagate  e  nere 
Mira  di  Jena  le  funeste  valli, 
E  le  sue  si  temute  armi  e  bandiere, 
E  i  vantati  non  mai  vinti  cavalli 
Fulminati  o  dispersi;  e  prigioniere 
Gir  le  falangi,  e  i  bellici  metalli 
Su  meste  rote  con  le  bocche  mute 
Cigolando  seguirle  in  servitute. 

xm 

Mira  il  nipote  successor  pentito 

Morto  alla  fama,  ed  al  rossor  sol  vivo. 
Voltar  le  spalle,  e  maledir  P invito 
DelPAnglo  insultator  del  santo  olivo. 
Mira  i  Prenci  congiunti  altri  ferito. 
Altri  spento  in  battaglia,  altri  captivo; 
E  cagion  fugge  delle  ree  disfide 
La  regal  donna.  Amor  la  segue,  e  ride. 

XIV 

Del  valor,  che  di  Praga  e  Friedbergo 

Cinse  un  giorno  gli  allori  alle  sue  chiome, 
Cerca  i  duci;  e  qual  cade,  e  qual  dà  il  tergo, 
Qual  Farmi  abbassa  trepidanti  e  dome. 
Della  prisca  virtù  sciolto  è  P  usbergo 
Da  tutti  i  petti:  si  spalanca  al  nome 
Del  vinci tor  qual  rócca  è  più  sicura, 
E  ne  volge  le  chiavi  la  Paura. 

XV 

Spinge  V  Elba  atterrite  e  rubiconde 

Al  mar  le  spume;  e  il  mar  le  incalza  al  lido 

Anglo  muggendo,  e  su  le  torbid'onde 

GP  invia  del  sangue  si  mal  compro  il  grido. 

A  quel  muggir  F  Oderà  alto  risponde, 

E:  Rispetta  il  Laon,  bada  al  tuo  nido, 

Grida  allo  Sveco  dalla  riva  estrema; 

Bada  al  tuo  nido,  Re  pusillo^  e  trema. 


DI    FEDERICO   II  4^^ 

XVI 

Di  fanciulli  e  di  padri  orbi  cadenti 

Il  coronato  spettro  ode  frattanto 

Le  pietose  querele,  ode  i  lamenti 

Delle  vedove  donne  in  negro  ammanto^ 

Ode  urli  e  suono  di  feroci  accenti^ 

E  vede  alPonda  del  pubblico  pianto 

La  discesa  di  Dio  giusta  Vendetta 

Folgorando  temprar  la  sua  saetta. 

XVII 
E  temprata  e  guizzante  la  ponea 

Nel  forte  pugno  del  guerrier  sovrano^ 

Né  cangiata  il  divin  dardo  parca 

Sentir  del  primo  vibrator  la  mano. 

UlrsL  allor  delle  Franche  armi  sorgea 

Superante  il  furor  dell^  Oceano , 

Simile  all^ira  del  signor  del  tuono, 

Che  guarda  bieco  i  regni,  e  più  non  sono. 

xvm 

Pur,  siccome  talor,  rotta  la  scura 

Nube,  fuor  porge  la  serena  testa 
u  II  ministro  maggior  della  natura, 

E  i  campi  allegra  in  mezzo  alla  tempesta; 

Bella  del  par  Clemenza  fra  la  dura 

Ragion  delibarmi  al  cor  si  manifesta; 

E  di  mano  alPEroe  tenera  diva 

Fa  lo  strale  cader,  che  già  partiva. 

XIX 
Qua  vedi  al  pianto  di  fedel  consorte 

Rimesso  di  sleal  sposo  il  delitto, 

E  di  malizia  gravido  e  di  morte 

Pietose  fiamme  consumar  lo  scritto. 

Là  del  sedotto  Sassone  le  torte 

Vie  d'eiTor  perdonate,  e  allo  sconfitto 

Ricomposte  sul  crin  le  regie  bende  , 

Che  or  fatto  amico  un  maggior  dio  difende. 


XX 

Ecco  poscia  un  diadema  in  tre  spezzato 
(  Se  non  inganna  dello  sguardo  il  volo  ) 
Saldarsi,  e  ratto  del  gran  Sire  al  fiato 
Que^tre  brani  animarsi,  e  fame  un  solo. 
Rompe  al  nuovo  prodigio  il  vendicato 
Polono  i  ceppi,  e  dell^ Artico  polo 
Alle  barbare  torme  oppon  più  saggio 
Saldi  schermi  di  ferro  e  di  coraggio. 

XXI 

Allor,  siccome  è  di  quel  forte  il  senno, 
Prender  nuova  sembianza,  e  depor  Pire 
D^ Agenore  la  figlia,  e  quei  che  fenno 
Tante  piaghe  al  suo  fianco,  impallidire. 
E  deir invitto,  che  la  salva,  al  cenno 
Altri  balzar  dal  solio,  altri  salire: 
E  il  rio  mercato  ir  chiuso,  ove  a  mal  frutto 
Compra  il  Britanno  delP  Europa  il  lutto. 

xxn 

Al  grande  audace  mutamento  in  viso 
Guardansi  i  Regi  paventosi  e  muti, 
E  tremar  nelle  destre  all^  improvviso 
Senton  gli  scettri  in  Albì'on  venduti. 
Cade  ne^  petti  attoniti  preciso 
Ogni  ardimento^  e  in  fronte  agli  sparuti 
Gorrettor  delle  genti  in  solchi  orrendi 
Scrive  il  dito  di  Dio:  Piega,  o  discendi. 

xxm 

Dell'odiosa  scritta  non  sofferse 

L'ombra  superba  la  veduta^  e  fatto 

Di  nembi  un  gruppo,  in  quello  si  sommerse, 

Né  più  la  vidi.  Ma  per  lungo  tratto 

Nube  vidi  tremenda  che  coperse 

Il  Germanico  cielo  esterrefatto , 


DI  FEDERICO  II  4^5 

XXIV 

D^  Europa  intanto  alla  Città  reina 
Viaggia  della  Spree  la  trionfata 
Spada,  e  la  segue  con  la  fronte  china 
La  Borussa  Superbia  incatenata. 
Densa  al  passar  dclParme  pellegrina 
Corre  la  gente  stupefatta,  e  guata; 
E  già  la  fama  con  veloce  penna 
Ne  prenuncia  la  giunta  in  su  la  Senna. 

XXV 

Fuor  delPonda  levarsi  infino  al  petto 
L^ altero  fiume  regnator  fu  visto, 
E  nel  vivo  raggiar  del  glauco  aspetto 
Splendea  la  gioja  di  cotanto  acquisto. 
Ma  un  segreto  del  cor  grave  rispetto 
Del  trionfo  al  piacer  sorgea  commisto 
Air  apparir  del  brando  che  si  spinse 
Sol  contro  cinque  in  sette  campi,  e  vinse. 

XXVI 

Luogo  è  in  Parigi  alla  Vittoria  sacro, 
Ove  i  Genj  di  Marte  alle  severe 
Ninfe  compagni  delP  ascreo  lavacro 
Cantan  de^  Franchi  le  virtù  guerriere. 
Della  Diva  d^  intomo  al  simulacro 
Pendon  V  arme  de'  vinti  e  le  bandiere  , 
E  n'è  si  pieno  il  tempio  che  alle  nuove 
Nimiche  spoglie  omai  vien  manco  il  dove. 

XX  vn 

Ivi  di  cento  ferrei  nodi  avvolto 

Freme  l'Orgoglio  delle  genti  dome. 
Ivi  l'atre  Congiure,  ivi  lo  stolto 
De' regnanti  Furor  raso  le  chiome. 
Lordo  di  bava  i  mostri  alzano  il  volto 
Alle  perdute  appese  insegne;  e  come 
Rabbia  li  rode,  colle  gonfie  vene 
Fanno  il  dente  suonar  su  le  catene. 


4^6  Là.  SPADA  DI  FEDERICO    II 

xxvm 

Prodi  di  bianco  pelo,  a  cui  caduta 
Del  corpo  è  la  virtù,  ma  non  del  core, 
Custodiscono  il  loco^  e  la  canuta 
Fronte  ancor  spira  militar  terrore. 
À  questo  tempio  fra  la  turba,  muta 
Di  riverenza  insieme  e  di  stupore, 
In  guardia  dato  al  buon  guerriero  antico 
Passa  il  brando  immortai  di  Federico. 

XXIX 

Questo  è  dunque,  dicean  le  generose 
Tremole  teste  deVegliardi  eroi, 
Questo  è  il  ferro  a  cui  tutta  un  dì  stoppose 
LMra  d^ Europa,  e  si  pentì  dappoi? 
Questa  V  arme  fatai  cbe  fea  spumose 
Del  nostro  sangue  le  campagne?  E  noi. 
Illustri  avanzi  del  tuo  sdegno,  or  scinta 
Te  qui  vediamo,  e  la  tua  luce  estinta? 

XXX 

Ma  se  trofeo  cadesti,  o  forte  spada, 
D^una  spada  maggior  che  aprir  ferita 
Sa  più  profonda,  non  verrà  che  cada 
Mai  la  fama  al  tuo  lampo  partorita. 
In  questa  di  valor  sacra  contrada 
Alti  onori  t^ avrai  ^  che  riverita 
Pur  de^  nemici  è  qui  la  gloria,  e  schietti 
Della  tua  faran  fede  i  nostri  petti. 

XXXI 

Sì  dicendo  scoprir  le  rilucenti 

Cólte  in  Rosbacco  cicatrici  antiche, 
E  vivo  scintillò  negli  occhi  ardenti 
Il  pensier  delle  belliche  fatiche. 
Pai've  r  inclita  spada  a  quegli  accenti 
Agitarsi,  e  sentir  che  fra  nemiche 
Destre  non  cadde;  parve  di  più  pura 
Luce  ornarsi,  e  obbliar  la  sua  sventura. 


LA 


PAUNGENESI  POUTICA 


CANTO 


Spirìtus  intuì  alit ,  toUnMjue  infiui  per  artiu 
Mflm  «gitat  moleni,  et  magno  te  corpore  miscat. 

ViBO.  JEn.  1.  TI. 


Là 


PALINGENESI  POLITICA 


CANTO 


DelPElrcinio  cantore  era  già  queta 
La  bellicosa  lira  ' ,  e  q[ueti  i  tuoni 
Della  gaUica  folgore  che  lungi 
Di  Fri'edlando  su  P  orrenda  valle 
Mettea,  sazia  di  strage,  i  lampi  estremi 
Di  sarmatico  sangue  rubicondi. 
E  già  rimessa  al  generoso  fianco 
L'  arbitra  delle  pugne  invitta  spada , 
Stendea  placato  il  vincitor  la  mano 
All'attonito  vinto,  e  dell'olivo 
Sul  domato  Niemene  offiia  la  fronda. 
Vide  l'Europa  le  congiunte  destre 
De' due  sommi  Potenti,  e  su  la  speme 
Del  suo  riposo  fé  sereno  il  ciglio: 
E  misto  al  suon  dell'  onda  che  superba 
Dell'alto  giuramento  al  mar  correa, 
Sul  fiero  campo  della  morte  il  dolce 
Inno  udissi  di  pace,  che  le  Scalde 
Nereìdi  intonar  lungo  le  prode 
Della  baltica  Teti.  Cosi,  quando 
Giove  in  Flegra  percosso  ebbe  le  fronti 
D'Encelado  e  Tifeo,  lungo  i  ruscelli 
Del  nettare  immortai  nella  beata 


43o  LÀ  PALINGENESI  POLITICI 

Città  de^Numi  le  celesti  Muse 
La  vittoria  cantar  del  genitore. 
Air  alta  melodia  tutte  d^  Olimpo 
Eccheggiavan  le  cime,  e  da  lontano 
Dal  fulmine  spezzate  e  ancor  fumanti 
Di  Pelio  e  d^Ossa  rispondean  le  rupi^ 
Mentre  cinto  di  gloria  entro  i  lor  giri 
Ricomponeva  le  sconvolte  sfere 
L^  onnipotente  senno ,  e  inebriata 
Dell'almo  canto  P aquila  divina 
Su  r  estinte  saette  appiè  del  trono 
Le  grandmali  abbassando  s'addormia. 

Ma  non  dorme  del  mio  Giove  terreno 
L'aligera  ministra,  né  lo  strale, 
Ai  forti  artigli  consegnato,  è  spento. 
Vive  le  fiamme  ne*  mantien  V  orgoglio 
DelPobbliqua  Alb'ion  che  nel  delitto 
Cerca  sua  gloria.  Di  novelli  sdegni 
La  turbata  pupilla  ecco  lampeggia 
Dell'offeso  mio  sire:  ed  io  fedele 
Sul  carro  il  seguirò  delle  divine 
Figlie  di  Giove,  cbe  di  là  dal  Sole 
Ne' regni  della  bella  Eterni  tate 
Portano  il  grido  delle  belle  imprese. 

Oh  di  prisco  valor,  di  prisca  fede 
Inclito  seggio,  Ispana  terra!  E  quella 
Non  se' tu,  che  in  Sagunto  all'amistade 
Del  punico  ladron  morte  prepose? 
Or  qual  demenza  all'amistà  ti  sprona 
Della  nuova  Cartago?  A  diradarti 
La  lunga  notte  in  che  languisci  avvolta, 
Un  almo  Sole  alfin  ti  splende ,  un  Sole 
Del  cui  limpido  raggio  innamorata 
Si  fea-  più  bella  la  regal  Sirena, 
Che  ancor  devota  il  guarda  e  lo  saluta^ 
E  tu  chiudi  le  ciglia?  e  stolta  i  nembi, 


LA  PALINGSIIBSI  POLITICA  4^' 

Per  ofiuscarlo,  e  le  tempeste  invochi 
Del  britannico  cielo  ?  Oh  sventurata  ! 
À  punir  la  tua  colpa  il  mio  signore 
Alza  irato  la  spada,  che  battuta 
Gontra  i  superbi  alla  celeste  incude, 
Di  mortai  brando  paragon  non  teme. 
Die  questa  spada  al  buon  Trajano  un  giorno 
L^  etemo  imperador,  quando  al  suo  piede 
Tutti  prostese  della  terra  i  regi. 
Dopo  quel  divo,  il  Cesare  V  ottenne 
Che  r impero  del  mondo  in  due  diviso, 
Largì  la  dote  che  fu  morte  a  Roma. 
Spento  il  gran  donator,  giacque  per  molte 
Età  nascoso  T  incorrotto  acciaro, 
Finché  del  Magno  Carlo  alla  possente 
Destra  pervenne,  e  suscitar  fu  visto 
D^  Occidente  lo  scettro  in  Campidoglio. 
Ed  or  nel  pugno  di  più  forte  erede 
Dopo  milPanni  a  trionfar  venuto , 
I  suoi  regni  racquista^  e  alla  vagina 
(Così  volge  il  destin)  non  fia  che  tomi, 
Finché  non  taccia  innanzi  a  lui  la  Terra. 
Curvate  il  capo  al  possessor  novello 
Del  fatai  brando,  pirenee  montagne: 
Umil  ti  prostra,  Ibera  donna.  Ei  viene  ^ 
Move  tre  passi,  e  al  quarto  é  giunto.  E  voi, 
D^ogni  gente  avversar],  Angli  superbi, 
Celerate  la  fuga^  e  dite  al  vostro 
Be  che  del  sangue  delP  Europa  é  chiuso 
L^  orribile  mercato ,  e  non  a  lui , 
Ma  solo  al  Grande  che  pietoso  il  chiuse, 
A  lui  solo  il  valor  die  questo  impero. 
Sian  vostro  regno  e  scogli  e  sirti  e  flutti. 
Case  degne  di  voi  :  ma  non  lasciate , 
Algosa  razza ,  per  regnar ,  le  vostre 
Ondeggianti  prigioni.  Ivi  son  tutte 


43  a  LA  PALOrGENESl  POLITICA 

Le  vostre  posse.  D^ogni  suol  rifiato, 
Voi  toccate  la  terra ,  e  più  non  siete. 

Su  le  pronte  rapito  ali  d^  amore 

(Di  (juell^amor  che,  nato  in  cor  gentile 
Dal  beneficio,  agP immortali  innalza 
De^  mortali  il  sentire),  io  sospingea 
L^afiannoso  pensier  su  T  adorate 
Orme  del  Giusto  alle  cui  tempie  il  cielo, 
Sol  per  tornarlo  al  suo  splendor,  concede 
L^  ispano  diadema.  E  palpitando. 
Gol  veder  della  mente  m^  avvolgea 
Dentro  il  turbo  crudel ,  che  su  V  ibero 
Dal  britannico  lido  si  diffuse  ^ 
E  di  Giuseppe  su  le  sacre  chiome 
Ruggir  Fintesi,  e  lui  vid^io  serena 
Portar  la  fronte  che  traverso  al  velo 
Della  nube  feral  splendea  più  bella. 
Come  allor  che  da  livida  palude 
S'alza  negro  vapor,  che  invidioso 
D'Iperìone  al  folgorante  figlio 
Copre  il  nitido  volto,  e  non  F offende^ 
Sola  s'  attrista  della  tolta  luce 
La  famiglia  de'  fior  che  moribonda 
Il  mesto  capo  inchina,  e  pregar  sembra 
L'amato  raggio  che  la  torni  in  vita^ 
Tale  in  mezzo  all'offese  era  il  sembiante 
Dell'augusto  Giuseppe,  e  tal  de' probi. 
Cui  l'absenza  struggea  del  sacro  aspetto, 
L'amoroso  dolor.  Ma  in  sua  virtude 
Venne  l'alto  guerrier  che  vede  e  vince. 
Che  vuole  e  puote  ciò  che  vuole,  e  spersa 
Fu  l'anglica  procella,  e  serenato 
L' ispano  cielo  che  al  beante  raggio 
Del  caro  si  ravviva  astro  novello. 

Io  la  grave  frattanto  arpa  d'  UUino 
Venia  toccando,  e  su  le  varie  fila 


LÀ  PALINGENESI  POLITICA  4^3 

Deir  invitto  mio  slr  tessea  le  geste 

Maravigliose  ^  e  F  armonia  de^  forti 

Garmi^  e  il  parlar  che  dal  profondo  seno 

Traggon  dell'  ahna  le  potenti  Muse , 

Deir  Invidia  facea  su  i  verdi  crini 

Rabbiose  e  stolte  sibilar  le  serpi. 

Ma  inferma  nel  levarsi  all'alto  obbietto 

Si  smarriva  la  mente ^  e  perdea  Pali 

La  vinta  fantasia^  che  di  c[uel  magno 

Intorno  alla  regal  diva  presenza 

Tale  un  timor  si  crea,  tale  un  rispetto, 

Che  le  ginocchia  ed  il  pensiero  atterra. 

Perch'  io  vólto  in  quell'  uopo  alla  reina 

Gall'iope,  dicea:  Tu  scorgi,  o  diva, 

Del  tuo  divoto  sacerdote  il  corto 

Immaginar,  tu  vedi  la  sublime 

Maestosa  caligine  che  cela 

Questo  re  della  gloria.  E  tu  de' regi 

Compagna  etema  e  degli  eroi,  deh!  sgombra, 

Sgombra  il  vel  che  l'occulta,  e  vista  dammi 

Che  in  luce  aperta  sostener  lo  possa^ 

Ch'io  ben  veggo  i  baleni,  ed  odo  i  tuoni 

Che  fan  palese  il  suo  potere  e  l'alta 

Dai  re  temuta  volontà  suprema^ 

Ma  del  profondo  ordinator  pensiero 

Non  discerno  le  vie.  Non  indagarle 

Presuntiioso ,  rispondea  la  diva^ 

Su  1'  opre  sue  sta  scritto  :  Adora  e  taci. 

Né  l' immago  cercar  del  suo  valore 

Nell'antica  virtù ^  che  smorti  emblemi 

Sono  Alcide  e  Teseo  ;  né  prode  in  Pindo 

Fama  solleva  che  tant'alto  ascenda. 

Non  il  guerriero,  per  la  cui  vendetta 

L'  etemo  figlio  di  Saturno  i  neri 

Sopraccigli  inchinò,  su  l'immortale 

Capo  agitando  \^  divine  chiome, 


434  Z'A  PALOIGEIIE8I  POLITICA 

Onde  tutto  tremava  il  vasto  Olimpo. 
Non  V  altro  che  da  cento  accompagnato 
Figli  di  numi  la  vocale  antenna  * 
Fra  r  orrende  Simplegadi  ^  sospinse  j 
E  la  furia  sprezzò  cbe  in  fier  conflitto 
Coli'  Europa  a  cozzar  PAsia  spìngea , 
Sgominando  due  mari,  ed  amendne 
Col  grand^urto  scotendo  i  Continenti, 
Finché  carco  d^  eroi  per  quella  via 
D^Argo  passando  il  sacro  pino,  al  fiero 
Cozzo  fin  pose,  e  si  placaro  immote 
Le  concorrenti  furibonde  rupi. 
Né  di  qual  più  lodato  o  la  romana 
Storia  esalti  o  F  argiva,  il  glorioso 
Nome  ti  porga  di  paraggio  ardire  ^ 
Che  nell^  opre  del  senno  e  della  mano 
Levar  su  tutti  ad  un  sol  tempo  il  grido, 
E  alle  genti  dar  leggi,  e  degF imperi 
Cangiar  V  aspetto  e  ricrearli  in  meglio , 
E  coir  arti  di  Palla  e  di  Sofia 
Temprar  Pire  di  Marte,  e  la  severa 
Ragion  di  stato  serenar  col  dolce 
Delle  Grazie  sorriso  e  delle  Muse, 
Né  il  divo  germe  di  Filippo  il  seppe. 
Né  il  Dittator,  né  Ciro^  e  la  veloce 
Operosa  virtù  di  questo  nuovo 
Verace  Enosigeo^  va  per  occulti 
Sì  profondi  sentier,  che  seguitarla 
Non  può  la  vista  interior.  Ma  pure 
Perché  delPalta  ed  ineffabil  mente 
Sotto  mistico  vel  Popra  tu  vegga, 
A  portentosa  vision  lo  sguardo 
Intendi  ardito,  e  mi  t^ accosta.  Ed  io 
M^ appressai  coraggioso,  e  la  divina 
Pimplea  su  gli  occhi  colP  ambrosio  dito 
Due  vivifiche  stille  mi  diffuse 


Li.  PALiNOBnai  POLITICA.  43S 

Del  collirio  immortal  che  degli  Etemi 
Irriga  la  pupilla,  e  la  mia  fronte 
Percotendo,  gridò:  Contempla  e  scrivi. 
Guardai^  e  vidi  a  me  dinanzi  un  negro 
InBnito  oceàn ,  che  per  tempesta 
Da  fieri  venti  combattuto  mugge, 
Orrido  campo  di  battaglia  all^ira 
DeMiscordi  elementi.  Per  la  vasta 
Tumultiiosa  oscurità  diverse 
Vagolai*  si  vedean  forme  tremende 
Di  mostriiosi  gnomi,  altri  d^ acquoso 
Vapor  composti,  ed  altri  d^acre,  ed  altri 
Di  terrestri  sostanze.  Han  d^atra  fiamma 
Da  nitri  generata  e  da  bitumi 
I  più  truci  la  faccia,  e  tutti  insieme 
Azzuffati  e  confusi  in  fiera  guisa 
Per  signoria  fan  pugna,  e  sempre  in  guerra 
Ognun  perde,  ognun  vince,  e  mai  non  regna. 
E  qual  le  nubi  aggira ,  e  ne  sprigiona 
Fólgori  e  tuoni ^  qual  nell'onde  irate 
Devolve  le  montagne,  e  le  sommerge 
Sì  che  punte  di  scogli  al  guardo  mio 
Parean  delPAlpi  le  sepolte  cime^ 
E  qual  con  faci  d'inestinto  asbesto 
Per  secreti  cunicoli  ne' fianchi 
Delle  rupi  penetra ,  e  cerca  i  rivi 
D'asfalto  e  zolfo  su  cui  dorme  intatta 
Di  Vulcano  la  forza.  A  queste  i  gnomi 
Asfaltiche  correnti  approssimaro 
L'atre  facelle*,  e  tosto  il  dilatato 
Aere  tonava,  e  impetuoso  urtando 
L'opposto  fianco  delle  balze,  apria 
Voragini  di  foco.  Dal  bollente 
Seno  dell'onde  le  roventi  creste 
Sollevavano  i  monti,  e  liquefatti 
Scogli  eruttando  e  fiamme  e  schiuma  e  fumo 


436  LA  PÀUNGElffBSI  POLITICA. 

E  di  liquido  vetro  ardenti  fiumi, 
Pingean  Tabisso  di  terribil  luce. 
Dalla  lite  crudel,  cbe  terra  e  mare 
Ed  aria  e  fiioco  si  movean  furenti, 
Inorridita  rifuggia  Natura; 
Ed  io  la  strana  vision  pensoso 
Contemplando  verna,  ma  il  senso  arcano 
NellUnteUetto  ancor  non  discendea. 
Già  mi  voltava  a  dimandar;  quand'ecco 
Una  gran  voce,  che  dall^  alto  venne, 
Su  r abisso  gridò:  Silenzio,  o  flutti; 
Pace,  irati  elementi.  E  subitana 
Una  luce  segui ,  che  con  possenti 
Fulgidi  strali  saettava  il  volto 
Delle  tenèbre;  e  le  disperse.  Allora 
Uno  Spirto  divin  corse  su  V  acque 
Inferocite ,  e  le  calmò  ;  le  cinse 
Di  sue  grand^  ali ,  e  fecondonne  il  grembo  ; 
Le  divise  dal  secco,  e  immantinente 
Alzar  la  testa  le  montagne,  ed  ime 
Giacquer  le  valli:  i  tortuosi  passi 
Sciolsero  i  rivi  mormoranti,  e  tale 
Nell^ inerte  terreno  alma  s^ infuse. 
Che  tutto  si  vestì  d^erbe  e  di  fiori 
E  d^  olezzanti  arbusti  e  d^  ardue  selve 
Onde  la  Terra  il  sacro  capo  inchioma^ 
Penetrò  la  vital  forza  i  recessi 
Delle  squallide  rupi,  e  nelle  fredde 
Vene  del  masso  imprigionò  del  foco 
L^  eterna  e  schietta  elementar  scintilla. 
Poi  di  vergine  luce  un  grazioso 
Raggio  frangendo,  colorò  le  gemme, 
Il  rubin,  lo  smeraldo  e  lo  zafluro: 
Le  caverne  vostì  di  cristallini 
Ingemmamcnti  e  stalagmiti,  a  cui 
Dier  vaghezza  e  splendor  con  aurea  polve 


LÀ  PALUfGBIIBSI  POLITICA  4^7 

n  cinabro  e  V  azzurro.  Anco  il  marino 

Zoofile  animossi,  anco  la  pietra- 

Che  volge  V  ago  al  polo.  Apparve  in  somma 

In  ogni  lato  la  virtù  delPalmo 

Spirto  che  interno  percorrea  la  Terra, 

E  in  tutte  infuso  le  sue  parti,  tutta 

Agitava  la  mole ,  e  col  gran  corpo 

Si  mescolando,  in  ciò  che  parla  o  nuota 

O  pasce  o  vola,  diffondea  la  vita. 
Composte  le  feroci  ire  intestine 

E  alPorror  tolta  in  che  giacca  sommersa, 

La  rinnovata  Terra  al  divo  Spiro 

Vivificante  da^suoi  verdi  altari 

Porgea  laudi  e  profumi,  che  Paurette 

Rapian  su  Tali  susurranti^  e  intorno 

Spargendoli,  e  di  mille  un  odor  solo 

Temperando,  alle  nari  una  fragranza 

Porgean  che  dentro  ti  scendea  nel  core^ 

Mentre  di  ramo  in  ramo  saltellando 

Lieti  gli  augelli,  di  soave  canto 

Ricrèavan  le  selve,  e  da  per  tutto 

Candida  e  bella  son*idea  la  Pace; 
Dal  giocondo  spettacolo  rapita 

La  mia  mente  bevea  tutta  dolcezza^ 

Ma  incerto  errava  V  intelletto  ancora. 

Colla  rosata  man  diemmi  il  secondo 

Colpo  la  diva  su  la  larga  fronte; 

E  ratto,  come  tocca  dallo  strale 

Del  galvanico  elettro ,  entro  il  cerébro 

Scintillò  la  fibrilla  intuitiva. 

La  mia  scorta  sorrise,  e  vie  più  bella 

Raggiando  replicò:  Contempla  e  scrivi. 
Guardai;  e  tosto  un  ampio  e  popoloso 

Mondo  m^  apparve ,  su  le  cui  racchiuse 

Da  temperata  zona  alme  contrade 

Dolci  versava  della  luce  i  fiumi 
Morti.  Poemetti.  a 8 


4^^  Li^  PALINGENESI  POLITICA 

Un  benefico  Sole^  e  de  ^  suoi  doni 
Godea  far  pompa  liberal  natura. 
Lo  cingea  da  tre  lati  il  circonfuso 
Mare,  e  di  mille  peregrine  merci 
Tre  altri  mondi  gli  porgean  tributo. 
Di  scienza  superbe  e  d  '  ogni  cara 
Arte  gentile,  ma  di  cor  divise 
E  di  leggi  e  di  brame  e  di  costumi, 
Di  questa  bella  regì'on  le  genti 
In  mutua  guerra  si  struggean  delire. 
L^un  coir  altro  cozzanti  e  insanguinati 
Ondeggiavano  i  troni,  altri  scommessi 
Da  perfidi  consigli,  altri  da  falsa 
Arte  di  regno  trabalzati,  ed  altri 
Per  destre  inette,  o  per  funesta  lega, 
O  per  ferocia  femminil  caduchi: 
E  intomo  a  lor  studia  cupo  levarsi 
Suon  di  pianti  e  sospir,  sospiri  e  pianti 
Delle  suggette  nazì'on  vendute. 
Perocché  dalP  atlantica  marina 
Circondato  di  nembi  ergea  la  testa 
Immenso,  formidabile,  nefando 
Regal  fantasma,  cl^e  una  man  stendea 
Su  le  porte  del  dì,  P altra  su  Tonda 
Che  i  destrieri  del  Sol  stanchi  riceve, 
E  tutti  di  Nettuno  i  vasti  regni 
Di  sua  grand^ombra  ricopriva.  A  lui 
L'Orto  edùca  e  l'Occaso  i  preziosi 
Suoi  calami  e  legumi,  e  l'odorate 
Selve,  e  la  scorza  che  all'infermo  è  vita. 
Nudron  le  plnte  a  lui  morbide  pelli 
Le  belve  peregrine,  e  l'afra  madre. 
Orrenda  merce  !  partorisce  i  figli. 
A  lui  perenne  di  tre  mondi  oppressi 
La  ricchezza  s'aduna.  Ed  egli  il  cupo 
Sen  della  terra  co' rapaci  artigli 


LA    PALlNGilXESI  POLITICA  4^9 

Lacerando,  delPauro  apre  le  fonti 
E  le  inghiotte;  dell' aui*o  che  Natura 
Ne' più  cupi  recessi  avea  nascoso , 
Del  suo  parto  fatai  forse  pentita. 
Coir  incantato  corruttor  metallo 
Compra  il  crudele  e  guerre  e  sangue  e  colpe 
E  lagrime  di  genti,  e  con  catene 
D'  auro  tessute  avviluppando  i  troni , 
A  cader  li  sospigne:  indi  maligno 
Esulta,  e  cresce  della  lor  caduta. 
Io  fremente  il  mirava,  e  con  irata 
Penna  la  fiera  vision  scrivea, 
Che  già  sgombra  di  nebbie  e  luminosa 
Mi  lampeggiava  nelP aperta  mente; 
Quando  improvvisa  un'altra  luce  emerse, 
E  in  mezzo  al  mar  di  quella  luce  un  Trono 
Adamantino,  tutto  dentro  e  fuori 
Di  sempre  vigilanti  occhi  ripieno; 
Che  pari  al  trono  in  Palmo  un  di  veduto 
Mettea  fólgori  e  lampi  e  tuoni  e  gridi. 
Sedeavi  eccelsa  in  mezzo  una  guerriera 
Regal  sembianza  che  spargea  ne'  petti 
Riverenza  e  terror.  Cinta  di  due 
Folgoranti  corone  era  la  chioma; 
L'una  d'auro  splendea,  l'altra  di  ferro: 
Ed  altre  il  pugno  ne  ticn  strette,  ed  altre 
Per  sempre  infrante  ne  calpesta  il  piede' 
Ritti  intorno  al  terribile  Guerriero 
Co'  forti  ferri  al  fianco  e  gli  elmi  al  crine 
Stavansi  molti  bellicosi  eroi 
Aspettanti  il  suo  cenno.  Innanzi  a  lui 
Su  vasta  immensurabile  pianura 
Di  diverso  color  l'aura  agitava 
Dieci  mila  bandiere,  e  con  fracasso 
Simigliante  di  molte  acque  al  fragore, 
Altissime  dicean  voci  infinite: 


44o     '  ^^  PÀLINGEITESI  POLITIGi 

Gloria  d'Europa  al  sei*Yator  supremo. 
E  quel  supremo  servator  su  Tali 
De^  quattro  venti  di  procelle  armato 
Inviava  il  suo  spirto,  che  de' regi 
Visitava  le  colpe,  e  ne  sperdea 
Come  polve  l'orgoglio  e  la  possanza. 
Degli  alti  Federati  e  degli  amici 
Visitava  la  fede,  e  la  copna 
Delle  larghe  sue  penne,  o  di  regale 
Serto  dotata  la  rendea  più  salda. 
Di  nazì'on  cadute  o  in  sonno  avvinte 
Visitava  le  piaghe,  e  come  dolce 
Raggio  di  sole  che  ridesta  i  fiori 
Dal  turbine  battuti,  ei  di  novella 
Vita  le  genti  rintegrava,  e  a  ferme 
Destre  efficaci  commetteane  il  fileno, 
Ed  una  ne  vid'io  che  giovinetta, 
Ma  d'alto  senno  e  d'alto  cor  ministra, 
Tratta  lo  scettro  già  secura,  e  giusto 
Cosi  r estolle  sul  commesso  regno. 
Che  nuli' altro  è  più  bello  e  più  felice. 
Tutte  d'Europa  quel  possente  spirto 
Visitava  le  prode  ^  e  della  truce 
Larva  del  mar  tiranna  apparso  a  fronte, 
Scintillò,  s'ingrandì,  spinse  fra  gli  astri 
L'eccelso  capo,  e  trasmutossi  in  Sole 
Che  tutta  quanta  illuminò  la  Terra. 
Si  converse  a  quel  Sol  l'Indo  che  beve 
Il  sacro  Gange,  e  di  Saibbo  assiso 
Su  la  tomba,  agitò  le  sue  catene. 
Lo  vide  il  Perso,  e  salutollo,  e  al  raggio 
Di  quella  luce  riforbendo  il  ferro, 
Verso  Bengala  balenar  lo  fece. 
Lo  mirar  del  gangetico  Nereo 
Le  Gicladi  infinite,  e  d'ogni  parte 
Sclamavano  concordi  immense  voci  : 


LA.  PALINGENESI  POLITICA  44  ^ 

Gloria  desinari  al  vindice  sapremo. 

Gloria,  rispose  P Occidente^  e  armata 

Di  consiglio,  d^  onore  e  di  vendetta, 

Gloria  iterava  colla  man  sul  brando 

L^  americana  Libertade.  Un  solo 

Era  del  mondo  il  grido,  ed  una  sola 

Contro  il  fiero  de^mari  empio  tiranno 

La  giusta  e  santa  e  salutar  congiura* 
Io  guardava  ed  udiva,  e  nel  segreto 

Del  mio  pensier  de^  due  veduti  abissi, 

E  de^  due  spirti  animator  le  vie 

Paragonando,  nel  crear  del  primo 

Vedea  P immago  del  secondo,  e  tutta 

D** ardite  fantasie,  d^alte  parole 

E  d^alti  affetti  la  vestia.  Quand^  ecco 

Frettolosa  avanzarsi  e  sbigottita 

Bellissima  una  dea  cbe  terra  e  cielo 

Di  sue  care  sembianze  innamorava. 

Candido  come  neve  allor  caduta 

Vestimento  1'  avvolge.  Ha  nella  destra 

Di  verde  oliva  un  ramuscel^  su  gli  occhi 

Due  lagrime  pietose.  In  questa  forma 

Si  trasse  innanzi  al  gran  sedente,  e  disse: 
Questo  ramo  è  tuo  dono.  Ed  io  pur  dianzi, 

Da  te  protetta,  nel  regal  giardino 

Il  piantai  dell'Europa,  e  con  attenta 

Solerte  cura  F educava.  Ahi  lassa! 

Su  ristro  che  ancor  fresche  ed  alte  serba 

L'orme  che  Pugna  vi  stampò  de' tuoi 

Procellosi  destrieri,  un  negro  sorge 

Turbo  improvviso  che  P  amata  fronda 

Schiantar  minaccia,  e  fecondar  di  largo 

Sangue  novello  le  tedesche  glebe. 

Alza  Io  scettro,  vindice  possente 

Del  tradito  mio  nume,  e  mi  difendi. 

Tacque,  e  piangendo  si  coprì  d'un  velo. 


44^  I-^  PALINGENESI  POLITICA 

À  qu«i  detti,  a  quel  pianto  ad  offuscarsi 
Di  nubi  incominciò  T  adamantino 
Seggio,  e  a  volver  di  fumo  immense  rote, 
D^ira  svegliata  orrendo  segno  ^  e  dentro 
Alla  densa  caligine ,  da  spessi 
Lampi  divisa,  si  sentian  profondi 
Correre  i  tuoni,  e  strepitar  le  folgori 
Di  partir  desiose.  I  circostanti 
Eroi  dal  fianco  trassero  fremendo 
Le  generose  spade.  In  un  momento 
Si  spiegai*,  s'agitaro  le  diverse 
Dicci  mila  bandiere  e  le  veloci 
Selve  di  ferri  che  dal  Sol  percossi 
Mettean  barbaglio  agli  occhi  e  tema  al  petto. 
Nelle  spade  securi  e  più  nel  core 
Taciturni  procedono  e  terribili 
Gli  ordinati  squadroni.  In  lunga  riga 
Scudo  a  scudo,  elmo  ad  elmo  e  fianco  a  fianco 
Si  strigne,  e  al  moto  delle  teste  vedi 
L' un  coir  altro  toccarsi  i  rilucenti 
Cimieri  e  Fonda  dell'eccelse  piume. 
Sotto  il  pie  de' guerrieri  e  de' cavalli 
Trema  la  terra,  e  nubi  alza  di  polve 
Che  da  luu^e  veduta  al  ciel  rotarsi. 
Fa  delle  madin  impallidii*  la  gota, 
E  il  coraggio  brillar  de'  giovinetti 
Che  d' illustre  sudor  bagnarsi  anelano 
Nelle  fervide  mischie,  e  il  dorso  premere 
Di  focoso  destrier  fra  tube  e  timpani. 
Tutto  m'ofiria  d'intorno  una  tremenda 
Faccia  di  gueiTa:  ma  l'eccelso  sire. 
Che  d'auro  e  ferro  si  ghirlanda,  e  siede 
Sul  trono  di  veglianti  occhi  stellato, 
Fuor  della  nube  non  mandava  ancora 
La  voce  che  de' re  cangia  i  destini^ 
Voce  al  turbo  simil,  che  sul  cespuglio 


LA  PALINGENESI  POLITICA  44^ 

Passa  innocente,  e  F arduo  cedro  atterra. 
Meste  intorno  al  caduto  e  paventose 
Stan  le  piante  minori,  ed  egli  in  grande 
Spazio  prosteso  imputridisce,  e  il  piede 
Dell^  armento  P  insulta  e  del  pastore. 
Di  novità  bramoso  io  nelP  udire 

Tutta  inviava  e  nel  veder  la  mente, 

Quando ,  lieve  scotendomi  Y  accorta 

Pieride  dicea:  Vate,  in  quel  buio 

Bolle  il  vaso  dell^ira,  e  le  negre  ali 

Spiega  già  r  ora  del  final  castigo. 

Se  non  le  tarpa  un  dio,  fiera  di  canto 

Avrai  materia.  Or  tu  le  viste  cose, 

Severo  ingegno,  nelle  carte  scrivi 

Destinate  a  color  che  questo  tempo 

Diranno  antico  e  menzogner.  Disparve, 

Così  detto,  la  diva,  e  dileguossi 

La  portentosa  vision.  Raccolsi 

Tosto  i  pensieri^  e  ciò  che  vidi,  io  scrissi. 


A.  4» 


NOTE 


ALLA  PALINGENESI  POLITICA 


Pàg.  43 1. 
•  Questo  Canio  forma  appendice  alla  seconda  parte  del  Bardo,  e  »i 
pubblica  separato  perchè  sta  per  sé  solo,  e  perchè  contempla  le  cose 
presenti  o  recenti.  E  anche  la  seconda  parte  di  quel  poema  sarebbe 
già  pubblicata,  se  un  anno  e  più  di  cattiva  salute  non  avesse  ritar- 
dalo questo  lungo  lavoro,  e  se  alcune  politiche  mutazioni  non  preve- 
dute (poiché  i  profeti  del  Parnaso  non  preveggono  che  il  passato) 
non  avessero  alterato  il  mio  piano,  e  spesso  distrutta  la  mia  fatica. 
Taccio  che  i  fatti  presi  a  cantare 

son  di  tal  volo, 

Che  noi  seguitcria  lingua  nb  penna. 

Né  io  amo  di  essere  il  Cherìlo  di  Alessandro. 

Pao.  436. 
»  La  nave  Argo,  fabbricata  colle  querce  Dodooee,  rendeva  oracoli, 
secondo  la  favola  :  perciò  fu  della  loquace  e  sacra. 

Ivi. 

3  Ammasso  di  scogli  nel  Bosforo  tracio,  parte  su  la  costa  d'Asia, 
parte  su  quella  d*  Europa.  Favoleggiarono  i  poeti  che  questi  scogli  fos- 
sero mobili  e  cozzassero  insieme,  finché  Giasone  colla  nave  Argo  pas- 
sandovi in  mezzo,  pose  fine  al  loro  contrasto,  e  li  rendette  immobili, 
adempiendo  un'  antica  predizione.  Apollonio  e  Valerio  Fiacco  hanno 
descritta  con  molta  magnificenza  questa  favola,  il  primo  nel  libro  se- 
condo, e  l'altro  nel  libro  quarto. 

Ivi. 

4  Scotìlor  della  terra:  nome  dato  a  Nettuno.  • 


LÀ 


FERONIADE 


JrrERTIMENTO  DELL'EDITORE 


La  Feroniade  ebbe  la  sua  orione  dalT essersi  il  Monti,  in  occasione 
delle  caccie  che  il  principe  Luigi  Bruschi  Onesti  nipote  di  Pio  VI 
dava  nei  contorni  di  Terracina,  avvenuto  nella  fonte  di  Feronia^  ram- 
mentata da  Orazio,  ed  avervi  come  quell*  antico  poeta  e  la  sua  cont" 
pagnia  lavato  ora  manusque  (Sat.  V,  lib.  I,  v.  a 4)*  Donde  imma" 
ginb  che  le  vicende  di  Feronia  potevangli  dare  bel  campo  per  immor~ 
talare  le  opere  che  Pio  VI  con  veramente  regale  munificenza  aveva 
intraprese  per  bonificare  e  rendere  alla  coltura  il  territorio  Pontino, 
divenuto  una  trista  e  malsana  palude,  E  fattone  parola  al  sommo  ar^ 
cheologo  Ennio  Quirino  Visconti,  questi  gli  suggerì  le  opere  del  Kir- 
cher,  del  Corradini  e  del  Volpi  sull'antico  Lazio  ^  come  quelle  che 
gli  avrebbero  somministrata  ampia  materia  onde  ornare  di  bella  eru" 
dizione  e  di  nazionali  memorie  il  suo  lavoro.  Ciò  quanto  all'  origine 
del  poema  j  nelle  Note  si  troverà  tutto  quanto  può  renderne  facile  e 
piana  t  intelligenza.  Per  ora  basterà  il  dire  che  questi  versi  furono 
V  opera  che  V autore,  più.  che  ogni  altra  sua,  andò  limando  ed  accarez- 
zando j  dachè  incominciata  da  lui  nei  tempi  più.  lieti  della  sua  vita, 
quando  egli  troi^avasi  in  quella  regione  d'Italia  ove  ogni  pietra  con- 
tiene un  monumento,  e  nella  quotidiana  conversazione  del  Visconti  be- 
veva l'amore  de'  classici  studii,  quantunque  per  le  vicende  de'  tempi  ri- 
manesse sempre  fra'  suoi  manoscritti,  non  la  perdette  di  vista  giammai, 
ma  Mandava  di  quando  in  quando  ripigliando  Jra  le  mani  per  fiorirla 
sempre  più  <f  ogni  bellezza  d  immagini  e  di  stile.  Questa  avvertenza 
giova  a  spiegare  t  unione  che  si  rai^visa  qua  e  là  in  questi  tre  Canti, 
di  luoghi,  di  persone,  ec, ,  che  possono  parere  tra  lor  disparate,  se- 
condochè  ivarii  passi  appartengono  alla  prinui  composizione  del  poema 
fatta  in  Roma ,  sotto  gli  auspicii  dei  Braschi  ,  ovvero  ai  ritocchi  ed 
alle  aggiunte  colle  quali  t  autóre  lo  andava  accostando  al  suo  com^ 
pimento  fra  noi  negli  ultimi  anni  della  sua  vita. 


LA 


FERONIADE 


CANTO  PRIMO 


I  lunghi  affanni  ed  il  perduto  regno 
Di  Feronia  dirò,  Diva  latina', 
Che  del  suo  nome  fé  beata  un  giorno 
Di  Saturno  la  terra.  Ella  per  fiere 
Balze  e  foreste  erro  gran  tempo ,  esclusa 
Da^suoi  santi  delubri,  e  molto  pianse, 
Dai  superbi  disdegni  esercitata 
D'una  Diva  maggior,  che  Pinseguia, 
Finché  novelli  sacrifici  ottenne 
Sugli  altari  sabini,  e  le  fur  resi 
Per  voler  delle  Parche  i  tolti  onori. 

Ma  qual  de' Numi  l'infelice  afilisse, 
E  lei,  ch'era  pur  Diva,  in  tanto  lutto 
Avvolgere  potéo  ?  Fu  la  crudele 
Moglie  di  Giove,  e  un  suo  furor  geloso. 
Tu  che  tutte  ne  sai  l'alte  cagioni. 
Tu  le  mi  narra,  o  Musa,  e  dall' obblio 
Traggi  alla  luce  il  memorando  fatto 
Non  ancor  manifesto  in  Elicona. 
E  se  dianzi  di  nuove  itale  note 
L'ira  vestendo  del  Pelide  Achille, 
Alcuna  meritai  grazia  o  mercede. 
Su  questi  cai*mi,  che  tentando  or  vegno, 

MoHTi.  Poemetti,  29 


454  LÀ  FERONIADE 

Di  quel  nettare,  o  Dea,  spargi  una  stilla, 
Che  dal  meonio  fonte  si  deriva, 
Non  già  quando  con  piena  impetuosa 
GP  iliaci  campi  inonda,  a  tal  che  gonfi 
DellMta  strage  Simoenta  e  Xanto* 
Al  mai*  non  ponno  ritrovar  la  via. 
Ma  quando,  lene  mormorando,  irriga^ 

I  feacj  giardini:  e  dolce  rendi 

Su  le  mie  labbra  la  pimpléa  faveUa. 
Là  dove  imposto  a  biancheggianti  sassi  ^ 
Su  la  circéa  marina  Ànsuro  pende, 
E  nebulosa  il  piede  aspro  gli  bagna  ^ 
La  pomezia  palude,  a  cui  fan  lunga 
Le  montagne  lepine  ombra  e  corona, 
Una  Ninfa  già  fu,  delle  propinque 
Selve  leggiadra  abitatrice,  ed  era 

II  suo  nome  Feronia.  I  laurentini 
Boschi,  e  quei  che  la  fulva  onda  nudrisce 
Del  sacro  fiume  tiberin,  quantunque 

Di  Ganente  superbi  e  di  Pomona^, 
Non  videro  giammai  forme  più  care. 
Qual  verno  fiore  che  segreto  nasce? 
In  rinchiuso  giardin,  né  piede  il  tocca 
Di  pastor,  né  di  greggia^  amorosetta 
L^aura  il  molce,  di  sue  tremule  perle 
L^alba  P  ingemma,  e  lo  dipinge  il  sole 
Di  sì  vivo  color,  che  il  crine  e  il  seno 
D^ogni  donzella  innamorata  il  brama; 
Tal  di  Feronia  la  beltà  crescea. 
Era  diletto  suo  di  peregrine 
Piante  e  di  fiori  in  suolo  estranio  nati 
L^  odorosa  educar  dolce  famiglia , 
Propagarne  le  stirpi,  e  cittadina 
Deir  ausonio  terren  fame  la  prole. 
Sotto  la  mano  della  pia  cultrice 
Ricevean  nuove  leggi  e  nuova  vita 


CAUTO  PRIMO  '*  ^55 

Le  selvatiche  madri,  e,  il  fero  ingegno 
Mansuefatto  e  il  barbaro  costume, 
Del  ciel  cangiato  si  godean  superbe. 
Ed  essa  la  gentil  Ninfa  sagace 
Con  lungo  studio  e  paziente  cura 

I  tenerelli  parti  ne  nudria, 
Castigando  i  ritrosi,  e  a  culto  onesto 
Traducendo  i  malnati.  Essa  il  rigoglio 
Ne  correggeva  ed  il  non  casto  istinto^ 
Essa  gli  od)  segreti  e  i  morbi  e  i  sonni 
E  gli  amor  ne  curava  e  i  maritaggi , 
Securo  a  tutti  procacciando  il  seggio, 

E  salubri  ruscelli  ed  aure  amiche^ 
Né  violarli  ardia  co^  morsi  acuti 
D^Orizia  il  rapitor,  che  irato  altrove 
Volgea  le  furie ,  e  con  le  forti^  penne 
L'antiche  flagellava  àppule  selve, 
O  di  Lucrino  i  risonanti  lidi  '. 
Ma  chi  potrìa  di  tutti  a  parte  a  parte 

II  sesso  riferir,  la  patria,  il  nome? 
V'era  la  rosa  che  mandar  primieri 
Di  Damasco  i  giardini  e  di  Mileto  ^ 
Quella  rosa  che  poi ,  nel  fortunato 
Grembo  translata  dell'Ausonia  terra, 
Fu  pestana  nomata  e  prenestina^. 
Sua  sorella  minor,  ma  di  più  grido. 
Le  fioriva  da  canto  la  modesta 
Ljcnide  ,  figlia  deUe  ambrosie  linfe  '*", 
Di  che  le  Grazie  un  dì  le  belle  membra 
Lavar  di  Giterea,  q[uando  dai  primi 
Ruvidi  amplessi  di  Yulcan  si  sciolse. 

Altro  amor  di  Ciprigna  in  altra  parte  " 
L'amaraco  olezzava.  In  su  la  sponda 
L'avean  del  Xanto  le  sue  rosee  dita 
Piantato^  e  il  petto  e  le  divine  chiome 
Adornarsi  di  questo  ella  solca. 


4^^  LA  PERONIADB 

Quando  desire  la  pungea  di  farsi 
Al  suo  fero  amatore  ancor  più  bella. 

Ecco  prole  gentil  d^ egizia  madre 
Vivaci  aprirsi  su  P  allegro  stelo 
n  sonnifero  loto  e  il  molle  acanto  '^ 
Che  alla  soave  colocasia  gode 
Intrecciar  le  sue  fronde.  Ecco  il  portento 
DelParte,  che  talor  vince  natura, 
n  superbo  ranuncolo,  un  dì  vile  '^ 
Mal  noto  fiore ,  ed  or  per  Popra  e  il  senno 
Di  Feronia,  che  molto  amor  gli  pose, 
Fatto  sì  bello,  che  il  diresti  rege 
DegP itali  giardini.  Àleppo  e  Cipro, 
Gandia,  Rodi  e  Damasco  in  umil  pompa 
n  mandaro  alla  Diva;  ed  ella,  esperta 
De^  botanici  arcani ,  immantinenti 
Di  yarìate  polveri  ne  sparse 
L^  ima  radice ,  che  le  bebbe ,  e  a  lui 
Di  ben  cento  color  tinse  le  chiome. 
E  tale  or  questo  di  belParte  figlio 
Di  donzelle  non  solo  e  di  fiorenti 
Spose,  a  cui  lode  è  la  beltà  nudrire. 
Ma  di  matrone  ancor  cura  e  desio, 
Ne' romani  teatri  e  ne' conviti 
Alle  antiche  patrizie  il  petto  adoma, 
Ove  Amor  spegne  la  sua  face ,  e  ride. 

Ma  più  cara  alle  Grazie  ed  alla  casta 
Man  di  Feronia,  con  più  pio  riguarda 
Educata  tu  cresci,  o  mammoletta. 
Tu  che  negli  orti  cirenèi  dal  fiato  *^ 
Generata  d'Amore,  e  dallo  stesso 
Amor  sul  colle  pallantéo  tradutta, 
Di  Zefiro  la  sposa  innamorasti, 
E  del  suo  seno  e  de'pensier  suoi  primi 
Conseguisti  Fonor.  Pudica  e  cara 
Nunzia  d'aprii,  deh!  quando  per  le  siepi 


CANTO  PRIMO  4^7 

Dell^ ameno  Gemobbio  in  sul  mattino'^ 
Isabella  ed  Emilia,  alme  fanciulle, 
Di  te  fan  preda  e  festa,  e  tu  beata 
Vai  fra  la  neve  de'virginei  petti 
Nuove  fragranze  ad  acquistQr,  deh!  movi, 
Mammoletta  gentil,  queste  parole: 
Di  primavera  il  primo  fior  saluta 
Di  Gemobbio  le  rose,  onde  s^ ingemma 
Della  regale  Olona  il  paradiso, 
Ghe  di  bei  fior  penuria  unqua  non  soffre. 
Felice  Paura  che  vi  bacia,  e  tutta 
Di  ben  olenti  spirti  in  voi  s^ imbeve^ 
E  felice  lo  stelo  onde  vi  venne 
Si  schietta  leggiadria:  ma  mille  volte 
Più  felice  e  beato  al  par  de^  Numi 
Ghi  con  man  pura  da  virtù  guidata 
Dispiccarvi  saprà  dalla  natia 
Fiorita  spina,  e  d^Iuieneo  sidPara 
Gon  amoroso  ardor  farvi  più  belle; 
Ghè  senza  amor  non  è  beltà  perfetta. 
Né  mai  perfetto  amor  senza  virtude.  — 
Dove  te  lascio  ne^meonii  campi 
Sì  lodato,  o  dMncanti  e  di  maUe  '^ 
Possente  domator,  tu  che  dai  Numi 
Moly  sei  detto  con  parola  al  volgo 
Non  conceduta,  e  sol  dal  saggio  intesa 
(  Ghè  al  volgo  corruttor  d^ogni  favella 
Parlar  la  lingua  degli  Dei  non  lice). 
Se  là  di  Girce  fra  le  mandre  Ulisse 
Non  stampò  di  ferine  orme  il  terreno. 
Di  questa  erbetta  e  del  suo  latteo  fiore 
Alla  virtù  si  dee:  parlante  emblema, 
Del  cui  velo  copria  P  antico  senno 
La  temperanza,  che  de^ turpi  affetti 
Doma  il  poter.  Di  questo  portentoso 
Vegetante  fra  noi ,  siccome  è  grido , 


458  LA  FERONIÀDE 

Di  Maja  il  figlio  dal  natio  Cillene 
La  tenera  portò  bruna  radice, 
E  deir  accorto  Dio  fu  degno  il  dono. 
Con  questa  ei  tutti  della  maga  i  filtri 
Contra  Titaco  eroe  fece  impotenti^ 
E  il  suo  bel  fior,  che  da  non  casta  mano 
Sdegna  esser  tocco,  di  Feronia  poscia 
Dolce  cura  divenne,  che  di  mille 
Felici  erbette  gli  fé  siepe  intomo, 
À.ltre  d'eterno  yerde,  altre  dotate 
Di  medica  virtude,  onde  il  furore 
Placar  de' morbi,  addormentar  le  serpi, 
E  sanarne  i  veleni^  altre  che  il  sonno 
Inducono  benigne,  il  dolce  sonno 
Degli  afflitti  si  caro  alle  palpebre. 
E  tal  di  tutte  un  indistinto  uscia 
Soave  olezzo  che  apprendeasi  al  core. 

Che  di  mille  dirò  scelti  arboscelli 
Lieti  a  dovizia  di  nettarei  frutti, 
E  di  fiori  e  di  chiome,  in  cui  Natura 
Per  infinite  varliate  guise 
Spiegò  la  pompa  della  sua  ricchezza.^ 
Alle  ben  nate  piante  peregrine, 
Qual  d'arabo  lignaggio  e  qual  d'assiro, 
Qual  dall'Indo  venuta  e  qual  dal  Nilo, 
L'italo  suolo  arrise,  e  sue  le  fece^ 
Sì  che  in  lor  della  patria  e  della  prima 
Origine  il  ricordo  oggi  è  perduto. 
Tanto  è  l'amor  del  nuovo  cielo,  e  tanta 
Fu  la  cura  di  lei,  che  nel  ben  chiuso 
Suo  viridario  ad  educarle  prese. 
Or  con  arte  confuse,  ed  or  disposte 
In  bei  filari,  come  strai  diritti. 
Rallegrando  di  molli  ombre  i  sentieri. 

Ecco  schiuder  dal  seno  i  bei  rubini, 
A  Minerva  e  a  Giunon  pianta  gi*adita. 


CAUTO   PKDfO  4^9 

E  a  Cerere  cagion  d^alto  disdegno  '?, 

Il  coronato  melagrano ,  e  tutti 

Adescar  gli  occhi  ed  invitar  le  mani. 

Ecco  il  melo  cidonio  alle  gibbose  '^ 

Sue  tarde  figlie  di  lasciva  e  molle 

Lanugine  vestir  le  bionde  gote, 

Del  cui  fragrante  sugo  hanno  in  costume 

Le  amorose  donzelle  in  Oriente 

Nudrir  la  bocca  ed  il  virgineo  fiato , 

Quando  la  face  d^  Imeneo  le  guida 

Di  bramoso  garzone  ai  caldi  amplessi. 

Vedi  il  Perso  arboscel^  che  i  rosei  frutti '9 

Ne  mostra  di  lontan^  vedi  il  fratello 

D^ armena  stirpe,  che  con  gli  aurei  figli 

Gli  contende  superbo  i  primi  onori  ^ 

Perocché  dai  regali  orti  sconfitti  ^^ 

Deir  atterrata  Cerasunte  ancora 

Quel  fiammante  rivai  giunto  non  era, 

Che,  di  corpo  minor,  ma  di  più  viva 

Porpora  acceso,  avrìa  lor  tolto  un  giorno 

E  di  bellezza  e  di  dolcezza  il  vanto. 

Ma  stillante  più  ch^ altri  iblèo  sapore, 

L^onor  dispiega  di  sue  larghe  chiome** 

n  calcidico  fico,  il  cui  bel  frutto, 

Se  verace  è  la  fama,  alle  celesti 

Mense  sol  noto,  fira^  mortali  addusse, 

E  a  Fitalo  donò  la  vagabonda** 

Cerere,  allor  che  tutta  iva  scorrendo 

La  terra  in  traccia  della  tolta  figlia. 

ÀU^  apparir  della  divina  pianta 

Di  molte  forme  e  molti  nomi  altera 

Tutte  esultar  le  rive^  e  Cipro  e  Chio 

E  gli  orti  ircani  e  i  misj  e  il  verde  Egitto, 

E  la  gi*an  madre  d^ogni  bella  cosa, 

Lutala  terra,  con  attento  amore 

La  coltivaro,  e  de^suoi  dolci  pomi""^, 


46o  L4   FEBOiniDE 

Solo  a  Serse  e  a  Gartago  agri  e  funesti*', 
Fér  gioconde  le  mense  anche  più  tìU. 
Né  te,  quantunque  nmfl  pianta  vulgare, 
Lascerò  ne^miei  carmi  inonorato, 
Babilonico  salcio,  che  piangente 
Ami  nomarti,  e  or  sovra  i  laghi  e  i  fonti 
Spandi  la  pioggia  deUuoi  lunghi  crini, 
Or  su  le  tombe  degli  amati  estinti, 
Che  ne^cupi  silenzj  della  notte 
Escono  consolate  ombre  a  raccoire 
Sul  freddo  sasso  degli  amici  il  pianto. 
Tu  non  vanti  dei  lauri  e  delle  querce 
11  trionfale  onor,  ma  delle  Muse  , 
Che  di  tenere  idee  pascon  la  mente. 
Agli  studi  sei  caro,  e  daUuoi  rami** 
Peudon  Farpe  e  le  cetre,  onde  si  sparge 
Di  pia  dolcezza  il  cor  degP  infelici. 
Salve,  sacra  al  dolor  mistica  pianta, 
E  Fumil  zolla,  che  i  mortali  avanzi*^ 
Del  mio  Giulio  nasconde,  in  cui  sepolto 
Giace  il  sostegno  di  mia  stanca  vita, 
Della  dolce  ombra  tua  copri  cortese. 
E  tu  strazio  d^ amore  e  di  fortuna. 
Tu  derelitta  sua  misera  sposa. 
Che  del  caldo  tuo  cor  tempio  ed  avello 
Pesti  a  tanto  marito,  e  quivi  il  vedi, 
E  gli  parli,  e  ti  struggi  in  vóti  amplessi. 
Da  trista  e  cara  illusìon  rapita. 
Datti  pace,  o  meschina,  e  ti  conforti 
Che  non  sei  sola  al  danno.  Odi  il  compianto 
D^ Italia  tutta ^  i  monumenti  mira. 
Che  alla  memoria  di  quel  divo  ingegno 
Consacrano  pietose  anime  belle. 
E  se  tanto  d^  onore  e  di  cordoglio 
Argomento  non  salda  la  ferita 
Che  ti  geme  nel  petto,  e  tuttavia 


CAlfTO    PRIMO  4^1 

Il  lagrimar  ti  giova,  e  forza  cresce 
Ài  generoso  tuo  dolor  P  asciutto 
Giglio  de^ tristi,  che  alla  voce  sordi 
Di  natura  e  del  ciel,  né  d^un  sospiro, 
Né  d^un  sol  fiore  consoUb  P  estinto, 
Dolce  almeno  ti  sia  che  su  F  avaro 
Di  quell^ossa  sacrate  infando  obblio 
Freme  il  pubblico  sdegno,  e  fa  severa 
Delle  lagrime  tue  giusta  vendetta. 
Ma  dove ,  o  Musa ,  di  sentiero  uscita 
Ti  tragge  ira  e  pietà?  Deh!  toma  al  ris< 
Del  cantato  giardin,  toma  ai  profumi, 
Alle  fragranze  che  F  erbette  e  i  fiori 
Ti  esalano  dMntomo.  A  sé  ti  chiama 
Principalmente  ed  il  tuo  canto  aspetta 
L'odorato  de' Medi  arbor  felice*^, 
Di  cui  non  avvi  più  possente  e  pronto 
(Se  fede  acquista  di  Maron  la  Musa) 
Medicame  verun  contra  i  veneni 
Delle  dire  matrigne,  allor  che  seco 
Scellerate  parole  mormorando, 
Empion  le  tazze  di  nocenti  sughi. 
Chioma  e  volto  di  lauro  ha  l'almo  arbusto; 
E  se  diverso  e  vivo  in  lontananza 
Non  gittasse  l'odor,  lauro  saria. 
Candidissimo  è  il  fior  di  che  s'ingemma. 
Né,  per  molto  soffiar  che  faccia  il  vento, 
L'onor  mai  perde  della  verde  fronda. 
Ora  etrusco  limone,  or  cedro,  ed  ora 
Arancio  lusitan  l'appella  il  vulgo. 
Sotto  vario  sembiante  ognor  lo  stesso. 
Questa  è  la  pianta  che,  nel  ciel  creata*?^ 
L' aureo  pomo  fatai  lassù  produsse 
Ch'Ilio  in  faville  fé  cader:  con  questo 
L'  ardito  Aconzio  e  Ippómene  già  fero 
(Che  non  insegni,  Amor?)  alle  lor  crude 


462  LÀ    FEROmADE 

Belle  nemiche  il  fortunato  inganno. 
E  fìi  per  questa  che  ad  immane  drago 
Die  negli  orti  a  vegliar  d'Esperetusa 
n  sospettoso  mauritano  Atlante, 
Finché  di  là  la  svelse  il  forte  Alcide, 
Spento  il  fero  custode ,  e  peregrino  *^ 
Seco  r  addusse  nell^  ausonio  lito, 
Quando  di  Spagna  vincitor  tornando  *9^ 
Nel  Tevere  lavò  l'armento  ibero, 
E  fé  sopra  il  ladron  dell'Aventino 
Delle  tolte  giovenche  alta  vendetta. 
Poi  com'egli  d'Evandro  abbandonate 
Ebbe  le  mense  e  l'ospitai  ricetto, 
E  a  quel  giogo  pervenne,  ove  nascoso 
Agl'Itali  mostrò  la  prima  vite  ^ 
n  ramingo  dal  ciel  padre  Saturno, 
Ivi  sul  4orso  edificò  del  monte 
Sezia,  un'umil  città,  donde  Setina^' 
Fu  nomata  la  rupe,  e  qui  di  Giove 
L'errante  figlio  alla  saturnia  terra 
Primiero  maritò  l'albor  divino 
Che  tutti  empiè  di  meraviglia  i  colli 
E  d'invidia  le  selve.  Al  primo  spiro 
Del  suo  celeste  odor  vinta  temette 
(  E  fu  giusto  il  timor  )  la  sua  fragranza 
Di  Preneste  la  rosa:  al  primo  aspetto 
Di  quel  candido  fior  vinte  temette 
Le  sue  vergini  tinte  il  gelsomino. 
A  baciarlo  lascive,  a  carezzarlo 
D' ogni  parte  volar  1'  aure  tirrene , 
Desiose  d'aver  carchi  del  caro 
Effluvio  i  vanni  rugiadosi:  corsero 
A  fregiarsene  il  crine  e  il  cofano  seno 
D'Alba  le  Ninfe  e  di  Laurento,  e  quelle 
Del  Vultumo  arenoso  e  del  Taburno. 
Gorser  da  tutte  le  propinque  rive 


CANTO   PRIMO  4^3 

Gli  Egipani  protervi,  e  saltellando'*, 
E  via  pittando  ognun  F ispido  pino, 
Di  questo  ramo  ghirlandar  le  fronti. 
Lo  volle  il  Dio  d'Arcadia,  e  lo  prepose^' 
Àgli  ebuli  sanguigni  ed  ai  corimbi^ 
E  lo  volle  Silvan,  dimenticate 
Le  ferule  fiorenti  e  i  suoi  gran  gigli. 
Venne  anch'essa  del  Sol  Circe  la  figlia'^, 
E  di  sua  mano  un  ramoscel  spiccando 
Della  scesa  dal  ciel  pianta  diletta, 
In  grembo  al  sacro  suo  terreno  il  pose. 
Così  crebbe  il  divin  bosco  odorato. 
Che  di  soave  olezzo  intomo  tutte 
Della  maga  spargea  le  rilucenti 
Tremende  case,  ov'eUa  ognor  cantando, 
E  con  r  arguto  pettine  le  tele 
Percorrendo,  facea  dolce  da  lungi 
E  periglioso  ai  naviganti  invito, 
Mentre  pel  bujo  della  tarda  notte 
Lamentarsi  e  ruggir  s'udian  leoni 
Disdegnosi  di  sbarre  e  di  catene. 
Urlar  lupi,  e  grugnire  ed  adirarsi 
Nelle  stalle  cinghiali  ed  orsi  orrendi. 
Che  fur  nomini  in  prima,  e  della  cruda 
Incantatrice  sventurati  amanti. 
Queste  ed  altre  infinite  eran  le  piante, 
E  Ferbe  e  i  fiori  che  godea  l'attenta 
Di  Feronia  educar  mano  pudica^ 
Di  tutti  quanti  i  fiori  ella  il  più  bello. 
Ma  sotto  vago  aspetto  alma  chiudendo 
Superbetta,  d'amor  tutte  parole 
La  ritrosa  fanciulla  ebbe  in  dispregio. 
Né  la  vinse  il  pregar  di  madri  afilitte. 
Che  la  chiedeano  in  nuora,  e  per  la  schiva 
Vedean  languire  i  giovinetti  figli; 
Né  mai  lusinghe  la  piegar  di  quanti 


464  L^  FERORUDE 

Dèi  le  latine  ad  abitar  contrade 
Dai  pelasghi  confini  eran  venuti  ^^^ 
Gh^  ella  a  tutti  s^  invola,  e  non  si  cura 
Conoscere  d^atnor  Falma  dolcezza. 
Ma  di  Giove  non  seppe  un^  amorosa 
Frode  fuggir.  La  vide,  e  da^ begli  occhi 
Trafitto  il  Nume,  la  sembianza  assunse^ 
D^  un  imberbe  fanciullo ,  e  si  deluse 
L^  incauta  Ninfa ,  e  la  si  strinsi  al  seno 
Con  divino  imeneo.  U  ombra  d^un^elce^? 
Del  Dio  protesse  il  dolce  furto,  e  lieta 
Sotto  i  lor  fianchi  germogliò  la  terra 
La  violetta,  il  croco  ed  il  giacinto. 
Ed  abbondanti  tenerelle  erbette. 
Che  il  talamo  fornirò^  e  le  segrete 
Opre  d^  amore  una  profonda  e  sacra 
Caligine  coprio^  ma  di  baleni  ^^ 
Arse  il  ciel  consapevole,  ed  i  lunghi 
Ululati  iterar  su  la  suprema 
Vetta  del  monte  le  presaghe  Ninfe. 
Questi  fur  delle  nozze  inauspicate 
I  cantici,  le  faci,  i  testimoni^ 
Questo  alla  nuova  del  Tonante  sposa 
De^suoi  mali  il  principio,  e  noi  conobbe 
L^ infelice^  ma  ben  di  Giove  il  vide 
L^  eterno  senno  ^  né  potendo  il  duro  ^^ 
Fato  stornar,  nel  suo  segreto  il  chiuse^ 
E  la  doglia ,  che  solo  il  cor  sapea , 
Premendosi  nel  petto,  a  far  più  mite 
n  funesto  avvenir  volse  il  pensiero. 
Primamente  quel  bosco  e  quella  rupe 
Sì  gli  piacque  onorar,  dove  la  Ninfa 
Dell^  occulto  amor  suo  gli  fu  cortese. 
Che  per  loro  obbliò  Dodona  ed  Ida, 
E  men  care  di  Creta  ebbe  le  selve: 
Tal  che  le  genti  la  presenza  alfine 


CAUTO  PRIMO  .  4^^ 

Sentir  del  Nume,  e  V  inchinar  devote, 
E  Giove  Imberbe  V  invocar  sulP  are^ 
Gh^egli  loro  così  mise  in  pensiero 
Per  la  memoria  del  felice  inganno. 
Qui  del  culto  novel  consorte  el  volle 
La  dolce  amica  sua^  qui  degli  Etemi 
In  aurea  tazza  il  nettare  le  porse, 
E  la  fece  immortal.  Poscia,  tonando, 
Del  monte  il  fianco  occidental  percosse; 
E  una  subita  fonte  cristallina^^ 
Scaturì  mormorando ,  e  dalla  balza 
Comandò  che  perenne  ella  scorresse, 
E  da  Feronia  si  nomasse:  ed  oggi 
Serba  quel  nome  ed  il  ricordo  ancora 
DelP  antico  prodigio.  AUor  le  volsche 
Genti  lor  Diva  l'adoraro,  e  lei*» 
Antefora  chiamaro  e  Filostefana, 
E  Persefone,  e  tutte  a  lei  de^ campi 
Fur  sacre  le  primizie.  Ad  inchinarla 
Sovrana  e  Diva  i  Numi  adunque  tutti 
Gorser  d^ Ausonia;  che  il  voler  tal  era 
Del  supremo  amator:  e  non  pur  quelli 
A  cui  per  valli  e  campi  e  per  montagne 
Fuman  Pare  latine,  e  di  plebeo** 
Rito  van  lieti,  e  di  Minori  han  nome; 
Ma  mossero  fi*equenti  ad  onorarla 
DI  cortese  saluto  anche  i  Maggiori. 
Primo  il  padre  Lieo,  ch^indi  non  lungi  *^ 
In  un  temuto  e  per  antico  orrore 
Sacro  delubro  raccogliea  benigno 
Dal  timor  dc^mortali  incensi  e  voti; 
E  la  bionda  inventrice  era  con  lui** 
Dell^ auree  spiche  e  delle  sante  leggi. 
Cerere,  che  solca  le  pometine 
Spesso  anteporre  alle  trinacrie  messi. 
Nò  te  d'Aricia  il  bosco,  e  il  nemorensc  '*^ 


466  Là    FEROMIàDE 

Lago  trattenne,  o  vergine  Diana ^ 
Che  tu  pur,  del  lunato  argenteo  carro 
ÀI  temo  aggiunte  le  parrasie  cerve, 
Con  gli  altri  Divi  ad  abbracciar  venisti 
La  novella  Immortale,  e  di  te  degna  ^^ 
Fu  Falta  cortesia  cbe  ti  condusse. 
Gol  favor  di  Feronia  iva  frattanto 

Scorrendo  i  campi  TAbbondanza,  e,  tutto 

Versando  il  corno,  ben  compiuta  e  ricca 

Fea  deir  avaro  agricoltor  la  speme. 

Ogni  prato,  ogni  colle,  ogni  foresta 

Di  pastorali  avene  e  di  muggiti 

E  nitriti  e  belati  alto  risuona  ^ 

E  prigioniera  dall^  opposte  rupi 

Le  dolci  querimonie  Eco  ripete. 

Venti  e  quattro  cittadi,  onde  T  immensa  ^7 

Fertile  valle  si  vedea  cosparsa. 

S'animar,  s'abbellirò,  e  stretto  in  nodo 

Di  care  parentele,  in  mezzo  al  sangue 

De'  torelli  giurar  dell'  alleanza 

Il  sacramento^  e  l'invocata  Diva 

Le  dilesse,  e  su  lor  piovve  la  piena 

Di  tranquilla  ricchezza.  Incontanente 

Crebbero  i  lari,  crebbero  le  mura^ 

Di  maestà,  di  forza  e  di  rispetto 

Le  sante  leggi  si  vestir  ^  fur  sacri 

I  reverendi  magistrati^  sacra 

La  patria  carità^  sacro  l'amore 

Della  fatica  e  dell' industi'ia.  Quindi 

Tutte  piene  di  strepito  le  vie, 

E  i  teatri  e  le  curie  ^  e  dappertutto 

Un  gemere  di  rote,  un  picchio  assiduo 

Di  martelli  e  d' incudi ,  un  suonar  d' arme 

Buone  in  pace  ed  in  guerra,  onde  si  crebbe 

La  feroce  de'RutuIi  potenza, 

Che  al  pietoso  Troian  tanto  fé  poscia 


CÀUTO  PRIMO  4^7 

Sotto  il  cimiero  impallidir  la  fronte, 

Quando  gli  disputar  Camilla  e  Turno 

Di  Lavinia  e  d^Italia  il  gi*ande  acquisto. 
Eran  le  genti  pometine  adunque 

Molte  e  forti  e  felici^  e  manifesta 

Di  Feronia  apparìa  per  ogni  parte 

La  presenza,  il  favor,  la  possa  e  Popra, 

Però  da  cento  altari  a  lei  salia 

Delle  vittime  il  fumo,  e  ne  godea 

Il  Tonante  amator,  che  stanco  e  carco 

Delle  cure  del  mondo,  a  serenarle 

Scendea  sovente  ne^  segreti  amplessi 

Della  diva  fanciulla.  Un  aureo  nembo 

Li  copriva;  e  oziosa  al  sole  aprico 

Col  rostro  della  folgore  ministro, 

L^ aquila  sacra  si  pulia  le* piume; 

Mentre  sicure  dal  furor  di  Giove 

Tacean  d^Àto  e  di  Rodope  le  rupi, 

E  avea  Bronte  riposo  in  Mongibello. 
Erasi  intanto  la  Saturnia  Giuno 

Fatta  accorta  del  dolo,  e  i  suoi  grand^ occhi, 

Che  gelosia  più  grandi  anche  facea. 

Non  fallibili  segni  avean  già  scorto 

Di  nuova  infedeltà.  Raro  il  soggiorno 

Del  marito  in  Olimpo:  alto  il  silenzio 

Dei  talami  divini:  inoltre  mute 

Della  foresta  dodonéa  le  querce, 

Cheti  i  tuoni  delPIda,  e  dissipato 

Il  denso  fumo  che  facea  palese 

La  presenza  del  Nume:  onde,  turbata 

In  suo  sospetto,  alle  nevose  cime 

Dell^ Olimpo  salita,  in  giù  rivolse 

L^ attento  sguardo,  e  ricercò  P  infido 

Sul  mar  sidonio,  sul  nonacrio  giogo, 

Suirismen,  sull^Asopo,  ove  sovente 

Delle  vaghe  mortali  amor  lo  prese. 


468  LÀ  FBRORIÀDE 

Indi  in  Ausonia  declinando  i  lumi, 

D^Ansuro  nereggiar  sul  balzo  vide 

Tale  un  nugolo  denso,  che  per  vento 

Non  si  movea  dL  loco,  ancorcliè  tutta 

Fosse  in  moto  la  selva.  A  cotal  vista 

Le  si  ristrinse  il  cor^  le  corse  un  gelo 

Per  le  membra  immortali ,  e  si  fér  truci 

I  neri  sopraccigli.  Immantinente 

Iri  a  sé  cbiama,  e:  Prestami,  le  dice, 

Su  via  prestami,  o  fida,  il  tuo  piovoso 

Arco  d^  oro  e  di  luce.  E  sì  dicendo. 

Né  risposta  aspettando,  entro  si  chiude 

AUaumanzj  vapori,  e  taciturna 

Su  le  rupi  setine  si  precipita. 

Tocca  pur  anco  non  avea  la  terra 

GoMeggieri  vestigi,  che  levarsi 

U invisibile  Dea  P aquila  vide, 

L^  aquila  testlmon  del  Dio  marito  ; 

E  sotto  r  ombra  delle  grandi  penne 

Furtiva  e  cheta  camminar  la  nube, 

E  tra  le  piante  dileguarsi.  A  lei 

Dovunque  passa  riverenti  e  curvi 

Dan  loco  i  rami  della  selva ^  e  Paure 

Non  osano  di  far  rissa  e  bisbiglio. 

Volse  indi  V  occhio  addietro,  e,  donde  tolta 

S^era  la  nube,  in  pie  rizzarsi  mira 

Cosi  bella  una  Ninfa,  che  alla  stessa 

Cornicciosa  Giunon  bella  parca. 

Sventurata  beltà!  LMra  e  il  dispetto 

Tu  crescesti  nel  cor  della  gelosa. 

Che  spiccossi  qual  lampo  e  rabbuffata 

Con  questi  accenti  alla  rivai  fu  sopra: 

E  qual  ti  prese  insania  ed  arroganza, 

Insolente  mortai,  che  una  cotanta 

A  me  far  osi  ingiuria,  e  non  mi  temi? 

Ravvisami,  proterva^  io  degli  Dei 


CANTO  PBDfO  4^9 

Son  P etema  reina,  io  la  sorella, 

10  la  sposa  di  Giove.  —  Scolorossi, 
Tremò,  si  sgomentò,  non  fé  parola 
La  misera  Feronia^  e  siccome  era 
Scomposta  i  veli  e  le  bende  e  le  chiome, 
Dell^  amplesso  celeste  accusatrici. 

Mise  in  tutto  furor  la  sua  nemica^ 

La  qual  su  lei  di  rinnovar  bramosa 

Di  Callisto  la  pena,  ad  un  vincastro^' 

Die  rabbiosa  di  piglio,  e  la  percosse. 

Attonito  restò  P  occhio  e  la  mano 

Deir  acerba  Giunon,  quando  delP  altra 

Vide  al  colpo  divino  inviolata 

Resistere  la  salma,  e  le  primiere 

Sembianze  rimaner:  to^o  conobbe 

Che  di  tempra  immortai  fatta  Favea 

L^ onnipossente  Nume^  onde  sdegnosa, 

Che  a  vóto  mira  uscito  il  suo  disegno, 

E  terribile  e  ria  più  che  mai  fosse  : 

Questo,  disse,  al  mio  scorno  anco  mancava. 

Adultera  impudente,  che  dovesse 

Farlosi  eterno!  Sémele  ed  Alcmena 

Eran  poca  vergogna  alPonor  mio, 

E  i  due  figli  di  Leda,  e  Ganimede, 

Ch^  altra  ancor  ne  s^aggiugne,  e  di  malnati 

Mi  si  fan  piene  le  celesti  mense. 

Ma  inulta  non  andrò,  se  Giuno  io  sono^ 

Né  tu  senza  castigo.  Via  di  qua. 

Via  di  qua,  svergognata!  —  E  in  questo  dire 

11  bianco  braccio  fieramente  stese, 

S^ aggrandì,  si  scurò,  gli  occhi  mandaro 
Due  fiamme  a  guisa  di  baleni  in  mezzo 
Di  tenebrosa  nube^  e  la  grand^ira. 
Che  il  senno  ancor  degP Immortali  invola, 
Quasi  obbhar  di  Diva  e  di  reina 
Le  fé  modi  e  costumi.  E  di  rincontro 
Mosti.  Poemetti.  3o 


4yO  LA  FERORIADE 

Di  Giove  allor  la  dolorosa  amante  ^ 
Che  di  rimorso  trema  e  di  rispetto, 
Con  basso  ciglio  e  con  incerto  piede 
Lagrimando  partissi.  Ella  per  monti 
E  per  vaUi  e  per  fiumi  si  dilunga, 
E  sempre  a  tergo  ha  la  tremenda  Giuno, 
Che  con  minacce  e  dure  onte  e  rampogne 
Stimola  e  incalza  F infelice.  Ahi!  dunque 
Era  da  tanto  un  amoroso  errore? 

E  già  varcate  avea  le  veliteme 

Pendici,  e  gli  ardui  sassi,  ove  costrusse  ^9 

Gora  la  sua  città,  Cora  il  fratello 

Di  Catillo  e  Tiburte^  e  non  lontano 

Era  di  Cinzia  il  sacro  lago  e  il  bosco. 

Ove  a  Stige  ritolto,  e  della  Ninfa 

Egeria  in  cura,  Ippolito  traeva^®. 

Cangiato  in  Virbio,  la  seconda  vita. 

Qui  di  Saturno  V  adirata  figlia 

Sostenne  i  passi,  e  in  balze  aspre  e  deserte 

Qui  lasciò  la  meschina,  e,  desiosa 

Di  vendetta  maggior,  die  volta  addietro. 

Tra  le  priverne  rupi  e  le  setine 

S^apre  immane  spelonca,  a  cui  di  sopra 
Grava  il  dosso  una  negra  orrida  selva, 
E  per  lo  mezzo  la  rinfresca  un  rivo. 
Che  con  grato  rumor  casca  e  zampilla 
Dalle  fesse  pareti.  Ha  di  sedili 
In  vivo  marmo  una  corona  intorno, 
E  tal  dalle  muscose  erbe  si  spande 
Una  fragranza,  che  da  lungi  avvisa 
Veramente  di  Dei  stanza  e  ricetto. 
Qui  da  tutta  la  volsca  regione 
Per  cento  cave  sotterranee  vie 
Vengon  sovente  a  visitarsi  i  fiumi. 
Il  freddo  Ufente,  il  lamentoso  Àstura^', 
11  sonoro  Ninfeo,  che  tra  le  sacre 


CANTO  PRIMO  47' 

Sue  danzanti  isolette  ad  Ànfitrite 

Rapido  volve  e  cristallino  il  flutto^ 

E  il  superbo  Àmasen,  che  le  gran  coma 

Mai  non  si  terge,  e  strepitoso  e  torbo 

Empie  di  loto  i  campi  e  di  paura. 

E  cent^  altri  v^  accorrono  di  fama 

Poveri  e  d^onda  fiumicei  seguaci  ^ 

E  cento  Ninfe,  che  il  cader  degli  astri 

Conoscono  e  del  sole  e  della  luna 

Le  armoniche  vicende,  e  sanno  i  venti 

E  le  piogge  predire  e  le  procelle. 

Colà  bieca  sbuffando  sMncammina 

La  di  vendetta  sitibonda  Dea: 

Simile  a  nembo  di  gragnuole  gravida, 

Che  bruno  il  ciel  viaggia,  e  orrendo  stendesi 

Su  la  bionda  vallea,  quando  le  Plejadi, 

Che  d^  Orion  la  spada  incalza  e  stimola , 

Negli  atlantici  flutti  si  sommergono, 

E  tutto  ferve  per  burrasca  il  pelago. 

Tal  terribile  in  vista  ella  s^ avanza^ 

E  giunta  al  mezzo  dello  speco,  in  atto 

Di  maestà,  di  cruccio  e  di  preghiera. 

Fa  dal  labbro  volar  queste  parole  : 

Fiumi,  a  cui  delle  volsche  acque  P impero 

Die  degli  uomini  il  padre  e  degli  Dei, 

E  voi  le  correggete,  e  a  vostro  senno 

Le  mandate  a  nudrir  Fonda  tirrena. 

Una  vii  mia  nemica,  una  spregiata 

Di  boschi  abitatrice  il  cor  mi  tolse 

Del  mio  consorte^  e  non  è  tutto.  A  lei, 

A  costei  V  immortai  vita  è  concessa , 

Privilegio  avvilito,  e  Dea  F adora 

La  bagnata  da  voi  terra  pontina. 

Vendicate  P  offesa^  e  s'^io  dalFetra 

Vi  dispenso  le  pioggie,  ite,  abbattete, 

Distruggete,  spegnete.  Altaici  e  templi 


47 2  LÀ  FBRORIADE 

E  città  rovesciate:  io  le  vi  dono^ 
£  saran  vostro  regno  ^  orma  non  resti 
Deir abborrito  culto,  e  raddolcisca 
La  mia  giust^ira  di  Feronia  il  pianto.  — 
Disse;  e  per  tatti  a  lei  tosto  PUfente 
Diserto  e  chiaro  parlator  rispose  : 
A  te  r esaminar  conviensi,  o  Diva, 
Il  tao  desire,  e  F adempirlo  a  noi. 
Delle  piove  e  de^  nembi  genitrice 
Tu  ne  riempi  l'urne,  tu  ne  fai 
Giove  propizio,  e  ne  concedi  a  mensa 
Su  r  Olimpo  seder  con  gli  altri  Eterni. 
Ciò  detto,  frettolosi  e  furiosi 
Si  dileguar  per  la  caverna  i  fiumi, 
Chi  qua,  chi  là  ciascuno  alla  sua  sede; 
E  partendo  ne  fér  tale  uii  tumulto, 
Tale  un  fracasso,  che  tremonne  il  monte. 
14'  udirono  il  fragor  le  pometine 
Valli  da  lungi ,  e  ne  mandar  muggiti , 
Di  ruina  presaghe;  e  palpitanti 
Strinser  le  madri  i  pargoletti  al  seno. 
Mentre  corrono  quelli  il  rio  precetto 
À  compir  della  Diva,  e  ai  duri  sassi 
Aguzzano  per  via  le  corna  e  l'ira, 
Levossi  Giuno  in  aria,  e  spiegò  il  manto  ^ 
In  cui  ravvolge  le  tempeste  e  i  nembi, 
E  subito  gonfiar  le  bocche  i  venti, 
E  le  nubi  aggruppar,  che  cielo  e  luce 
Ai  mortali  rapirò,  e  si  fé  notte. 
Orrenda  notte  dal  guizzar  de'  lampi 
Rotta  al  fero  de' tuoni  fragor  cupo. 
Carco  d'atre  caligini  la  fronte. 
Vola  l'umido  Noto,  ed  afferrate^* 
Con  le  gran  palme  le  pendenti  nubi, 
Le  squarcia  risonante,  e  tenebrosa 
Sgorga  la  piova:  il  rotto  aere  ne  rugge; 


CANTO  PRIMO  4? 3 

E  il  suol  ne  geme  e  le  battute  selve. 

Scende  un  mar  dalle  rupi.  Allora  i  fiumi 

Versano  l'urne  abbeverate  e  colme, 

E  quattro  di  maggior  superbia  e  lena 

Da  quattro  parti  sul  soggetto  piano, 

Svelte,  atterrate  le  tremanti  ripe, 

Con  furor  si  devolvono.  Spumosa 

E  fi*agorosa  la  terribil  piena 

Le  capanne  divora  e  i  pingui  cólti, 

E  gli  armenti  e  i  pastori.  E  già  le  mura 

Delle  cittadi  assalta  e  le  percote, 

Di  cadaveri  ingombra  e  della  fatta 

Strage  ne^ campi:  già  delle  bastile 

Crollano  i  fianchi:  già  sfasciati  piombano, 

E  dau  la  porta  all^  inimico  flutto. 

S'alza  allora  un  compianto,  un  ululato 

Di  vergini,  di  vegli  e  di  fanciulli: 

Corrono  ai  templi-,  ed  invocar  Feronia, 

E  Feronia  gridar  odi  piangenti 

Le  smorte  turbe;  e  non  le  udia  la  Diva; 

Che  maggior  Diva  il  vieta.  Essa,  la  fiera 

Moglie  di  Giove,  di  sua  man  riversa 

Dell'esule  nemica  i  simulacri. 

Ne  sovverte  gli  altari;  e  la  soccorre 

Ministra  al  suo  furor  l'onda  crudele 

Che  tutte  attorno  le  cittadi  inghiotte. 

Tre  ne  leva  sul  corno  infuriando 

Il  veloce  Ninfèo  che  lutulenti 

Spinse  quel  di  la  prima  volta  i  flutti, 

L'umil  Trapunzio  e  Longula  e  Polusca'^^: 

Tre  la  ferocia  del  possente  Astura, 

L'  opima  Mucamite,  e  l'alta  Ulubra, 

E  la  vetusta  Satrico,  a  cui  nulla 

Il  nume  valse  della  dia  Matuta. 

E  per  te  cadde,  strepitoso  Ufeute, 

Pomezia,  la  più  ricca  e  la  più  bella  ^^« 


474  L^  FBRONIÀDE 

Pianse  il  giogo  circéó  la  sua  caduta, 
E  la  pianser  le  Ninfe,  a  cui  commessa 
De^suoi  vaghi  giardini  era  la  cura. 
U  tremendo  Àmaseno  avea  frattanto 
Sotto  i  vortici  suoi  sepolti  intomo 
I  Barbarici  campi,  e  fatto  un  lago^^ 
Della  misera  Àusona,  e  Palte  mura 
D^Aurunca  percotea,  la  più  guerriera 
Delle  volschc  cittadi,  e  la  più  antica. 
Oltre  gli  anni  di  Dardano  e  Pelasgo 
La  sua  fama  ascendeva,  e  degli  Àuiiinci 
Venerevoli  padri  alto  suonava 
E  glorioso  fra  le  genti  il  grido. 
L^avea  quel  fier  divelta  e  conquassata 
Dai  fondamenti.  Alle  vicine  rupi 
Traggonsi  in  salvo  gli  abitanti  j  e  il  fiume 
Li  persegue  mugghiando,  e  ne  raggiunge 
Altri  al  tallone,  e  li  travolve;  ed  altri, 
Che  più  pronti  afferrar  già  la  montagna, 
Con  r immenso  suo  spruzzo  li  flagella, 
E  di  paura  li  fa  bianchi  in  viso. 
Ben  mille  ne  contorse  entro  i  suoi  gorghi 
Queir  orribile  Dio;  ma  di  due  soli, 
Timbro  e  Larina,  il  miserando  fato 
Non  tacerò,  se  a  tanto  il  cor  resile, 
E  pietoso  il  pensier  non  mi  rifugge. 
Amavansi  cosi  quegP  infelici , 
Ch^ altro  mai  tale  non  fu  visto  amore, 
E  d^ Imeneo  già  pronte  eran  le  tede, 
E  consentian  giojosi  al  casto  affetto 
I  genitori.  Ahi  brevi  e  false  in  terra 
Le  speranze  e  le  gioje!  In  riva  al  mare^^. 
Cui  d^Anzio  regge  la  Fortuna ,  avea 
Pochi  di  prima  air  afrodisia  madre 
Porti  i  suoi  voti  il  giovinetto  amante , 
E  abbracciato  F  aitar.  Letta  ttel  Fato 


CANTO  PRIMO  47^ 

Del  misero  la  sorte  avea  la  Diva  ^ 
E  della  Diva  il  santo  simulacro 
Tremo,  e  sudante  (maraviglia  a  dirsi!) 
Torse  altrove  il  bel  capo,  e  non  sostenne 
Tanta  pietà.  Ma  ben  di  Giuno  il  crudo 
Cor  la  sostenne^  e  la  virtude  umana 
Abbandonata  si  velò  la  fronte. 
Nella  comun  sventura  erasi  Timbro, 
Dopo  molti  in  cercar  la  sua  fedele 
Scorsi  perigli,  P ultimo  su  Perta 
Spinto  in  sicuro  j  e  fra  i  dolenti  amici 
Di  Larina  inchiedea^  Larina  intomo, 
Larina  iva  chiamando,  e  forsennato 
Con  le  man  tese  e  co^  stillanti  crini 
Per  la  balza  scorrea;  quando  spumosa 
L'onda,  cbe  n'ebbe  una  pietà  crudele, 
La  morta  salma  gliene  spinse  al  piede. 
Ahi  vista!  ahi,  Timbro,  che  facesti  allora? 
La  raccolse  quel  misero,  ed  in  braccio 
La  si  recò^  uè  pianse  ei  già,  che  tanto 
Non  permise  il  dolor,  ma  freddo  e  muto 
Pendè  gran  pezza  sul  funesto  incarco. 
Poi  mise  un  grido  doloroso  e  disse: 
Così  mi  tomi  7  e  son .  questi  gli  amplessi 
Che  mi  dovevi  ?  e  questi  i  baci  7  e  eh'  io , 
Ch'io  sopravviva?...  E  non  segui ^  ma  stette 
Sovr'essa  immoto  con  le  luci  alquanto^ 
Poi  sulP  estinta  abbandonossi ,  e  i  volti 
E  le  labbra  confìise,  e  cosi  stretto 
Si  versò  disperato  entro  dell'onda, 
Che  li  ravvolse,  e  sovra  lor  si  chiuse. 


CANTO  SECONDO 


Già  tutto  di  Feronia  era  il  bel  regno 
In  orrenda  converso  atra  palude. 
Che  pelago  parea^  se  non  che  rara 
Dell^ ardue  torri  e  delF aeree  querce, 
Non  vinte  ancor,  V  interrompéa  la  cima. 
E  già  su  le  placate  onde  leggieri 
Spiravano  i  Favon),  e  in  curvi  solchi 
Arandole  frangean  sovra  le  molli 
Crespe  delP acque  la  saltante  luce: 
Quando  di  Circe  la  scoscesa  balza 
L^  aspra  Giuno  salì.  L^  occhio  rivolse 
Alla  vasta  laguna,  e,  tutta  intorno 
La  misurando  con  superbo  sguardo, 
Sorrise  acerba  su  la  sua  vendetta. 
Ma  vista  su  la  rupe  in  lontananza 
Dair  incremento  delle  spume  nitrici 
Pur  anco  intatta  alzar  la  fronte  alcuna' 
Delle  volsche  città,  che  ree  del  culto 
Dell^ abborrita  sua  rivai  si  fero, 
Ed  illeso  agitar  F  argute  frondi 
Non  lungi  il  bosco  di  Feronia,  il  bosco 
Che  prestò  F  ombra  ai  mal  concessi  amori, 
Risorger  si  senti  Pire  nel  petto 
Già  moribonde;  e  poi  che  v^ebbe  alquanto 
Fisso  il  torbido  sguardo,  in  cor  si  disse: 
Io  desìster  dall^opra,  e  del  mio  scorno' 
Patir  che  resti  un  monumento  ancora? 


LÀ  FERONIIDE^    CÀUTO  SECONDO  477 

Già  non  fui  sì  pietosa  Inverso  Egina^, 

E  la  stirpe  di  Cadmo  abbominata; 

Che  per  quella  mandai  carca  di  fiera 

Peste  la  morte  su  Fenopia  terra  ^ 

E  sostenni  per  questa  entro  le  case 

Scendere  io  stessa  dell^  eterno  pianto , 

E  di  là  contra  d^Atamante  e  d^Ino 

Tisifone  invocar.  Quei  due  superbi 

Co^ sonori  serpenti  ella  percosse, 

E  allor  nel  figlio  dispietate  e  crude 

Fur  le  mani  paterne,  e  de^suoi  vanti 

Ino  furente  mi  scontò  Pofiesa. 

E  pur  avola  a  Bacco  era  colei, 

E  a  Venere  nipote^  e  non  m^avea, 

Come  questa  malnata  itala  druda, 

Tolti  i  miei  dritti,  e  del  maggior  de' Numi 

Aspirato  alle  nozze.  Oh  mia  vergognai 

Potè  Gradivo  la  feroce  schiatta^ 

Sterminar  de'Lapiti:  aver  da  Giove 

Potè  Diana  al  suo  disdegno  in  preda 

I  Calidonj:  e  meritò  poi  tanto 

De'Calidon  la  colpa  e  de'Lapiti? 

Ed  io,  progenie  di  Saturno,  ed  alta^ 

De' Celesti  reina,  a  mezzo  corso 

Ratterrò  gli  odj  e  Pire,  e  dovrò  tutte 

Non  consumarle?  Oh  mei  contrasta  il  Fato^^ 

E  una  fama  pur  or  s'è  sparsa  in  cielo. 

Che  al  volgere  de' lustri  il  senno  e  l'opra 7 

D'Italici  Potenti  al  mio  furore 

E  all'impero  dell'onde  questi  campi 

Ritoglierà.  Ritolgali  :  men  giusta 

O  men  dolce  uscirà  forse  per  questo 

La  mia  vendetta?  Se  cangiar  non  lice^ 

Delle  Parche  il  decreto,  e  chi  ne  vieta 

L'indugiarlo,  e  tentar  nuove  ruine? 

Del  tuo  delitto  dolorose  e  care 


478  LÀ  FBBORUDE 

Le  pene  pagherai,  niafa  superba: 
Anche  il  Lazio  s^avrà  la  sua  Latona. 
Non  selva  lascerò,  non  antro  alcuno 
Che  ti  riceva^  scuoterò  le  rupi^ 
Crollerò  le  città  dal  tuo  vii  nume 
Contaminate,  e  ne  farò  di  tutte 
Genere  e  polve,  che  disperda  il  vento.  — 
Nel  turbato  pensier  seco  volgendo  ^ 
Queste  cose  la  Dea ,  giunse  d' un  volo 
Ifeir eolie  spelonche,  orrendo  albergo 
Degli  adusti  Ciclopi  e  di  Vulcano. 

Stava  (juesto  delFarti  arbitro  sommo 
Intento  a  fabbricar  per  la  pudica  '** 
Nemorense  Dìfana  un  d^oro  e  bronzo 
Gran  piedestallo,  su  cui  Palma  effigie 
Collocar  della  Diva.  E  su  le  quattro 
Fronti  v'avea  F  artefice  divino 
D'ammirando  lavoro  impresse  e  sculte 
Di  quell'almo  paese  avventurato 
Le  trascorse  memorie  e  le  future". 

Era  a  vedersi  da  una  parte  il  lago 
Tutto  d'argento.  Tremolar  diresti 
L' onde  e  rotte  spumar  dai  bianchi  petti 
Delle  caste  Amnisidi,  a  cui  venute  ^^ 
Già  son  meo  care  le  gargafie  fonti, 
E  d' Eurota  le  sponde.  In  su  la  riva 
Della  sacra  laguna  abbandonati 
Giaccion  gli  archi  e  le  frecce,  onde  famosi 
Suonar  di  caccia  fragorosa  un  giorno 
Del  Tài'geto  e  d'Erimanto  i  boschi*'. 
Ed  or  la  nemorense  ne  rimbomba 
E  la  selva  aricina.  Indi  non  lunge  '^ 
Stassi  il  carro  lunato,  e  per  la  rupe 
Sciolte  dal  giogo  le  parrasie  cerve 
Erran  pascendo  il  tenero  trifoglio. 
Gradita  erbetta,  che  gradir  suol  anco 


CANTO  SBCOHBO  479 

Ài  destrieri  di  Giove,  ed  alle  caste 
Di  Minerva  cavalle  polverose. 
Alto  a  rimpetto,  fira  pudiclii  allori , 

Di  Trivia  il  tempio  signoreggia,  ed  essa 

La  placabile  Diva  in  su  la  soglia  '^ 

Del  grande  Àtride  ad  incontrar  vien  oltre 

I  pellegrini  figli,  Ifigenia 
Sacerdotessa  ed  il  fratello  Oreste, 
Pietoso  Oreste  e  scellerato  insieme*®, 
Che  per  molti  del  mare  e  della  terra 
Duri  perigli  salvo  le  recavano 

II  fatai  simulacro  insanguinato 
Dalle  tauriche  sponde  alle  tirrene. 

In  altro  lato  avea  F  Ignipotente '? 

Sculti  i  novelli  sagrifici  e  Pare 

Di  Diana  cruente^  e  i  lagrimosi 

Aiti  latini,  e  un  contro  T altro  armati 

Di  barbaro  coltello  i  sacerdoti. 
Mirasi  altrove  il  miserando  caso'^ 

Del  figliuol  di  Teseo.  Gonfiata  ed  aspra 

Spandeasi  d^oro  con  argentee  spume 

La  corinzia  marina ,  a  cui  dal  mezzo  *' 

Uscia  sbuffando  una  cerulea  foca. 

E  per  orride  balze  ecco  fuggire 

Gli  atterriti  cavalli,  ecco  sul  lido 

Rovesciato  dal  carro  e  lacerato 

LMnnocente  garzon.  Dintorno  al  casto 

Esangue  corpo  si  batteano  il  petto** 

Di  Trezene  le  vergini^  e  chiamando 

Grudel  Ciprigna,  e  più  crudel  Nettuno, 

Più  ch^  altre  in  pianto  si  struggea  Diana. 
Ài  pregar  delPaflUtta  indi  segm'a 

D^Esculapio  il  prodigio  e  P ardimento, 

Che,  violato  delle  Parche  il  dritto. 

Col  poter  della  muta  arte  patema 

Toma  il  pudico  giovinetto  in  vita^ 


48o  LA  PSnONIADE 

Cui  redivivo,  e  in  densa  nube  avvolto^ 
Con  mutati  sembianti  alFaricine 
Selve  poi  reca  la  deliaca  Diva, 
E ,  palpitando,  alla  segreta  cura 
Il  commette  d^  Egeria,  inclita  Ninfa 
Delle  leggi  romane  inspiratrice. 
S^  apria  di  nero  cì'anéo  scolpita 

Nel  fianco  della  rupe  una  spelonca  " 
Sacra  di  Pindo  alle  fanciulle,  e  cara 
Più  che  r  antro  cirréo.  Le  sèrpe  intomo 
Con  tortuoso  piede  una  vivace 
Edera  d^oro,  ed  un  ruscello  in  mezzo 
Di  purissimo  elettro.  Ivi  furtivo 
D^  Egeria  ai  santi  fortunati  amplessi 
(Che  di  tanto  fu  degno)  il  successore 
Di  Romolo  traeva.  Ivi  le  scese 
Leggi  dal  cielo  ricevea  sul  labbro 
Della  diva  consorte,  e  ai  mansueti 
Genj  di  pace  traducea  le  genti 
Gol  favor  delle  Muse ,  e  di  quel  grande 
Spirto  divin  che  del  trojano  Euforbo  •■ 
Pria  la  spoglia  animò,  poscia,  migrando 
Di  corpo  in  corpo,  la  famosa  salma 
Del  samio  saggio  ad  informar  pervenne, 
E  di  Crotone  empieo  le  mute  scuole 
Del  saper  delPAssiria  e  dell^  Egitto, 
y^era  una  balza  dalF  opposta  fronte, 
Che  al  bel  lago  sovrasta,  orrendo  nido 
Di  crude  belve  un  tempo  e  di  colubri. 
Ed  or  vasta ,  ridente ,  aprica  scena  *^ 
Di  lieti  ulivi.  Tra  le  verdi  file 
De^  cecropj  arboscelli  alteramente 
Minerva  procedea,  che  del  novello 
Conquistato  terren  prendea  diletto, 
E  con  r  alta  virtù ,  che  dagli  sguardi 
E  dalPalma  presenza  esce  de^Numi, 


CANTO   SECONDO  4^1 

Liete  faeea  le  piante,  e  delle  pingui 
Bacche  oleose  nereggianti  i  rami. 
L^  accompagnava  maestoso  e  bello 
ÀUa  manca  un  Signor  d^alta  fortuna*^, 
Che  con  raro  consiglio  ed  ardimento 
Deir  antico  orror  suo  già  spoglia  avea 
LMndocile  montagna,  e  le  ritrose 
Alpestri  glebe  all^  ostinata  cura 
Del  pio  cultore  ad  obbedir  costrette. 
Mentre  all^ombra  d^un^elce,  e  alPozio  in  seno*', 
Che  il  suo  Signor  gli  ha  fatto^  anzi  il  suo  Dio, 
Un  poeta  non  vii  P  aspre  vicende 
Di  Feronia  cantava,  e  per  sentiero 
Non  calcato  traea  Pitale  Muse. 
Àll^  ultimo  con  raro  magistero 

L' indomito  Vulcan  v'avea  scolpita 
Una  dolente  giovinetta  madre  •* 
Che,  con  ambe  le  mani  al  crin  facendo 
Dispetto  ed  onta,  su  la  fredda  spoglia 
Di  tre  figli  piangea  tolti  alla  poppa. 
Taciturna  e  dimessa  il  padre  Tebro 
Yolgea  qui  Fonda:  su  la  mesta  riva 
Ploravano  le  Ninfe,  e  al  Vaticano 
Una  nube  di  duol  coprìa  la  fronte, 
Lagrime  tante  alfin,  tanti  sospiri 
Faceano  forza  al  ciel,  finché  la  santa 
Madre  d^Àmore  a  consolar  la  donna 
Dal  terzo  cerchio  le  piovea  nel  grembo 
De' fecondi  suoi  raggi  il  quarto  frutto. 
Siccome  vaga  tremula  farfalla 
Scendea  quelFalma,  e  nel  materno  seno 
L'avventurosa  si  venia  vestendo 
Di  sì  lucido  vel,  ch'altro  non  fece 
Mai  più  bell'ombra  a  più  leggiadro  spirto. 
Al  felice  natal  presenti  avea 
Sculte  il  fabbro  le  Grazie,  inclite  Dive, 


48a  LI  FBEONIÀDB 

Senza  il  cui  nume  nulla  cosa  è  belku 
V^era  Lucina,  a  cui  fur  date  in  cura 
Della  vita  le  porte  ^  eravi  Giuno 
Dei  talami  custode^  e  di  Latona 
L^alma  figlia  pur  v^era,  a  cui  dolenti 
S^odon  nel  parto  sospirar  le  spose  ^ 
E  in  disparte  firaittanto  un  aureo  stame 
Al  fatai  fuso  ravvolgean  le  Parche. 
Delle  rugose  antiche  Dee  son  tutte 
Di  pallid'oro  le  tremende  facce, 
E  d^  argento  le  chiome  e  i  vestimenti. 
Del  narciso  d^Àvemo  incoronate*? 
Van  le  rigide  fronti,  e  un  cotal  misto 
Mandan  di  riverenza  e  di  paura, 
Che  r  occhio  ne  stupisce ,  e  il  cor  ne  trema. 
Dell^industre  Vulcan  Popra  tal  era. 
Mirabile,  immortale.  Affumicato 
E  in  gran  faccenda  T  indefesso  Iddio 
Di  qua  di  là  scorrea  per  la  fucina. 
Visitando  i  lavori,  e  rampognando 
I  neghittosi:  con  le  larghe  pale 
Altri  il  carbon  nelle  fornaci  infonde 
Scintillanti  e  ruggenti:  altri,  con  roize 
Cantilene  molcendo  la  £attica. 
Dà  il  fiato  e  il  toglie  ai  mantici  ventosi  **  y 
Che  trenta  ve  n^  avea  di  ventre  enormi  : 
Qual  su  Fincude  le  roventi  masse 
Del  metallo  castiga*,  e  qual  le  tuffa 
Nella  firedda  onda,  che  gorgoglia  e  stride. 
Rimbomba  la  caverna,  e  dalle  fironti 
Di  quei  fieri  garzoni  in  larga  riga 
Va  il  sudor  per  le  gote  e  le  mascelle 
Sui  gran  petti  pelosi.  In  questo  mezzo 
S'appresentò  la  veneranda  Giuho 
Nella  negra  spelonca,  e  parve  il  fulgido 
Volto  dei  Sole  che  fi*a  dense  nubi 


CANTO  SECOnDO  4^3 

Improvviso  si  mostra.  E  Bronte,  il  primo  *9 
Che  la  vide  venir,  die  segno  agli  altri 
Di  sostarsi  e  cessar  per  lo  rispetto 
Della  moglie  di  Giove.  Udi  Vulcano 
Della  madre  P arrivo,  e  frettoloso, 
Fra  tanaglie  e  martelli  e  sgominate 
Di  metalli  cataste  zoppicando , 
Le  corse  incontro:  e  presala  per  mano, 
Di  fuliggine  tutta  le  ne  tinse 
La  bianca  neve.  Prestamente  quindi 
Le  trasse  innanzi  un  elegante  seggio. 
Che  d^oro  avea  le  sponde,  e  lo  sgabello 
Di  liscio  cassitéro  ^^,  ove  la  Diva 
Posò  r eburnee  piante^  e,  cosi  stando, 
Di  sua  venuta  le  cagioni  espose. 
E  primamente  lamentossi  a  lungo 
Deir  adultero  Giove,  alle  cui  voglie  ^' 
Poco  essendo  la  Grecia,  ancor  ripiena 
De^  suoi  muggiti  e  de^  suoi  nembi  d^  oro , 
E  per  tante  or  di  cigno,  or  di  serpente, 
E  di  zampe  caprigne,  ed  altre  vili 
Frodi  d^  amor  contaminata  e  guasta. 
Or  ne  venia  d^  Italia  anco  le  belle 
Spiagge  a  bruttar  de^suoi  lascivi  ardori, 
Della  moglie  dimentico  e  del  cielo. 
E  qui  fé  conta  del  fanciullo  imberbe 
La  mentita  sembianza,  e  i  conceduti 
Di  Feronia  complessi,  e  come  assunta 
ÀI  concilio  de^Numi  era  la  druda  ^ 
E  segui,  che  per  questo  ella  d^  Olimpo 
Lasciato  avea  le  mense,  e  le  cortine 
DeUalami  celesti,  e  che  desio 
Sol  di  vendetta  la  traea  de^Volsci 
Vagabonda  sul  lido,  ove  già  rotti 
I  primi  sdegni  avea,  con  alta  mole 
D^  acque  coprendo  le  pomezie  valli 


484  Li^  FERONIADE 

E  le  cittadi  alla  rivai  devote^ 
Ma  non  tutte  peró^  che  salva  alcuna 
N^avean  dall^  onde  le  montagne  intomo. 
Quindi  ben  paga  non  andar,  se  tutto 
Non  abbatte,  non  guasta,  non  diserta 
L^abborrito  paese.  Or  prendi,  o  figlio, 
Deir eterno  tuo  foco  una  favilla^ 
Sveglia  i  tremuoti,  che.  oziosi  e  pigri 
Dormon  nel  fianco  di  quei  monti:  orrendo 
Apri  un  Iago  di  fiamme,  ardi  le  rupi, 
Struggi  i  campi  e  le  selve  ^  e  pia  non  chieggo. 
Intento  della  madre  alle  parole 

Stava  Vulcano,  ad  una  lunga  mazza ^* 

Il  cubito  appoggiato^  e  poi  che  Giuno 

Al  ragionar  die  fine,  in  questi  accenti, 

Su  le  piante  mal  fermo,  egli  rispose: 

Ben  io  t' escuso,  o  madre,  se  di  tanta 

Ira  t^  accendi^  che  d^  amor  tradito 

Somma  è  la  rabbia:  ed  io  mei  so  per  prova, 

Io  misero  e  deforme,  e  ancor  più  stolto, 

Che  bramai  d^  una  Diva  esser  marito  ^^ , 

Bella,  è  ver,  ma  impudica  e  senza  fede. 

Pur  ti  conforta^  che  per  te  son  io 

A  tutjto  fai'  disposto.  Io  sotto  i  muri 

Lagrimosi  di  Troja  a  tua  preghiera 

Già  col  Xanto  pugnai,  quando  spumoso  ^ 

Copertici  ei  respinse  il  divo  Achille, 

Che  di  sangue  trojan  gonfio  lo  fea^ 

E  i  salci  gli  avvampai,  gli  olmi,  i  ciperi 

E  V  alghe  e  le  mirici  in  larga  copia 

Cresciute  intorno  alla  sua  verde  ripa. 

Or  pensa  se  vorrò  nou  adempire. 

Di  Giove  in  onta,  il  tuo  desir,  di  Giove 

Mio  nemico  del  par  che  tuo  tiranno. 

Ti  rammenta  quel  dì  che  fra  voi  surta '^ 

Su  r Olimpo  contesa,  avventurarmi 


CANTO   SECOIIDO  ^65 

In  tuo  soccorso  io  volli.  Egli  d^an  piede 
ATafTerrò  furibondo ,  e  fuor  del  cielo 
Arrandellommi  per  F  immenso  vóto. 
Intero  un  giorno  rovinai  col  capo 
In  giù  travolto,  e.  con  rapide  rote 
Vertiginose.  Semivivo  alfine 
In  Lenno  caddi  col  cader  del  sole^ 
E  chi  sa  quante  in  quell^  alpestre  balza 
Lunghe  e  dure  m^ avrei  doglie  sofferte, 
Se  Eurinome,  la  bella  Oceanina, 
E  Palma  Teti  doloroso  e  rotto 
Non  m^  acGOgliean  pietose  in  cavo  speco , 
A  cui  spumante  intomo  ed  infinita 
D^Oceàn  la  corrente  mormorava. 
Ivi  per  tema  del  crudel  mi  vissi 
Quasi  due  lustri  sconosciuto  e  oscuro 
Fabbro  d^armille  e  di  fermagli  e  d^  altre 
Opre  al  mio  senno  inferiori  e  vili. 
Or  i  tuoi  torti,  o  madre,  io  lo  prometto, 
E  in  uno  i  miei  vendicherò:  poi  venga, 
Se  il  vuol,  qua  dentro  a  spaventarmi  questo 
Seduttor  di  fanciulle  onnipossente, 
Ingiusto  padre  ed  infedel  marito: 
Vedrem  che  vaglia  del  suo  carro  il  tuono 
Senza  il  fulmine  mio,  senza  Paita 
Del  mio  martello.  —  In  cosi  dir  P  irato 
Dio  sulla  mazza  con  la  man  battea^ 
Poi  gittolla  in  disparte,  e  corse  ad  una 
Delle  fornaci.  AlP  infocate  brage 
Appressò  le  tanaglie:  una  ne  trasse 
D^ inestinguibil  tempra,  e  in  cavo  rame 
LMmprigionò.  Di  cotal  peste  carchi, 
Della  spelonca  uscir  Vulcano  e  Giuno^ 
Quai  fameliche  belve  che^  di  notte 
Lascian  la  taiiia^  e  taciturne  e  crude 
Van  nell'ovile  a  insanguinar  P  artiglio. 
MoMTi.  Poemetti,  3i 


486  LI  FKRONIiDB 

Della  squallida  grotta  in  su  V  uscita  ^^ 
Di  rugiadose  stille  allor  raccolte 
Dalle  rose  di  Pesto  Iri  cosperse 
La  sua  reina,  e  con  ambrosia  il  divo 
Corpo  lavando,  ne  deterse  il  fumo 
Ed  ogni  tristo  odor.  DagV  immortali 
Capelli  della  Dea  quante  sul  suolo 
Caddero  gocce  del  licor  celeste, 
Tante  nacquer  viole  ed  asfodilli. 
Mosse,  ciò  fatto,  la  tremenda  coppia 
Circondata  di  nembi  ^  e  come  lampo 
Che  solca  il  sen  della  materna  nube 
Con  si  rapido  voi,  che  la  pupilla 
Per  quella  riga  a  seguitarlo  è  tarda, 
Tal  di  Giuno  e  Vulcano  è  la  prestezza: 
Su  la  vetta  cal^  precipitosi 
Delle  rupi  setine,  onde  la  faccia 
Scoprìasi  tutta  del  sommerso  piano. 
Guarda  (disse  Giunon),  riguarda,  o  figlio, 
Di  mia  vendetta  le  primizie.  —  E  in  questo 
Gli  mostrava  T  orribile  palude 
Da  freschi  venti  combattuta  e  crespa. 
Mentre  i  raggi  del  Sol  vólti  alP  occaso 
Scorrean  vermigli  su  P incerto  flutto^ 
Del  Sole,  che  parea  dalP empia  vista* 
Fuggir  pietoso,  e  dietro  ai  colli  albani 
Pallida  e  mesta  raccogliea  la  luce. 

Già  morìa  su  le  cose  ogni  colore, 

E  terra  e  ciel  tacca,  fuor  che  del  mare 
L^ incessante  muggito^  allor  che  pronto 
n  fatai  vase  scoperchiò  Vulcano, 
E  air  aiu-a  scintillar  la  rubiconda 
Bragia  ne  fece.  Ne  sentirò  il  puzzo 
I  sotterranei  zolfi  e  le  piriti 
E  gli  asfalti  oleosi,  e  dal  segreto 
Amor  sospinti,  che  tra  loro  i  corpi 


GlllTO    SBCONDO  4^7 

Lega  e  run  T  altro  a  desiar  costrigne, 

Ne  concepir  meraviglioso  affetto, 

E  di  salso  umidor  pasciuti  e  pingui 

Si  fermentaro,  ed  esalar  di  sopra 

Improvvisa  mefite.  E  pria  le  nari 

Ne  fìir  de' bruti  e  desolanti  offese, 

Che  tosto  piene  le  contrade  e  i  campi 

Fér  di  lunghi  stridori  e  di  lamenti. 

M' ulularono  i  boschi  e  le  caverne , 

E  tutti  intomo  paurosi  i  fonti 

N'ebber  senso  d'orror.  Corrotte  allora  ^7 

La  prima,  volta  le  caronie  linfe 

Mandar  T alito  rio,  che  tetro  ancora 

Spira,  e  infamato  avvicinar  non  lascia 

Né  greggia  né  pastor.  L'almo  ruscello 

Di  Feronia  turbossi,  e  amare  e  sozze 

Dalla  pietra  natia  spinse  le  polle 

Sì  dolci  in  prima  e  cristalline.  E  Àlcone , 

Pastor  canuto,  che  v'avea  sul  margo 

n  suo  rustico  tetto  ^  a  sé  chiamando 

Su  l'uscio  i  figli,  e  il  mar,  le  selve,  il  cielo 

Esaminando,  e  palpitando:  Oh!  (disse) 

Noi  miseri,  che  fia?  Mirate  in  quale 

Fier  silenzio  sepolta  é  la  natura! 

Non  stormisce  virgulto,  aura  non  muove. 

Che  un  crin  sollevi  della  fironte:  il  rivo, 

n  sacro  rivo  di  Feronia  anch'esso 

Ve' come  sgorga  lutulento,  e  fugge 

Con  insolito  pianto,  e  là  Melampo, 

Che  in  mezzo  del  cortil  mette  pietosi 

Ululati,  e  da  noi  par  che  rifugga, 

E  a  sé  ne  chiami.  Ah  chi  sa  quai  sventure 

L'amor  suo  n'ammonisce  e  la  sua  fede! 

Poniamo,  o  figli,  le  ginocchia  a  terra ^ 

Supplichiamo  agli  Dei,  che  certo  in  ira 

Son  co' mortali.  —  Àvea  ciò  detto  appena, 


488  -  LA  FERONIII» 

Che  tingersi  mirò  Parìa  in  sangaigno, 

E  cupo  un  rombo  propagossi.  Il  rombo 

Venia  dall'  opra  di  Vulcan^  che  ratto 

La  montagna  esplorando,  ove  più  vivo 

Con  lo  spesso  odorar  sentia  V  eiBuvio 

De' commossi  bitumi,  entro  un  immane 

Fendimento  di  rupi  era  disceso, 

Bujo  baratro  immenso,  a  cui  di  zolfi 

Ferve  in  mezzo  e  d'asfalti  un  bulicame 

Che  in  cento  rivi  si  dirama,  e  tutte 

Per  segreti  cunicoli  e  sentieri 

Pasce  le  membra  degP  imposti  monti. 

In  questa  di  tremuoti  atra  officina 

Lasciò  cader  Mulcibero  l'ardente 

Irritato  carbone.  In  un  baleno 

Fiammeggio  la  vorago,  e  scoppi  e  tuoni 

E  turbini  di  fumo  e  di  faville 

Avvolser  tutto  l'incombusto  Dio. 

Più  veloce  dell'ali  del  pensiero 

Per  le  sulfuree  vie  corse  la  fiamma 

Licenziosa,  ed  abbracciò  le  immense 

Ossa  de' monti,  e  delle  valli  i  fianchi, 

E  d'Ànfitrite  i  gorghi.  Àllor  dal  fondo 

Senza  vento  sospinti  in  gran  tempesta 

Saltano  i  flutti:  ondeggiano  le  rupi, 

E  scuotono  dal  dosso  le  castella 

E  le  svelte  cittadi.  Addolorata 

Geme  la  terra,  che  snodar  si  sente 

Le  viscere,  e  distrar  le  sue  gran  braccia, 

E  tu,  padre  di  miUe  incliti  fiumi, 

E  di  due  mari  nutritor,  crollasti, 

O  nimboso  Appennin,  l'alte  tue  cime; 

E  spezzata  temesti  la  catena 

Che  i  tuoi  gioghi  all'estreme  Alpi  congiugne; 

Siccome  il  di,  che  col  tridente  etemo 

Percotendo  i  tuoi  fianchi  il  re  Nettuno, 

A  tutta  forza  dall'esperio  lido  ^* 


CANTO    SECONDO  4^9. 

n  siculo  divise,  e  ìq  mezzo  all'  onde 
Procida  spinse  ed  Ischia  e  Pitecusa. 
Plato  istesso  balzò,  forte  atterrito ''s, 
Dal  suo  lurido  trono,  e  visti  intorno 
Crollar  di  Dite  i  muri  e  le  colonne 
(Che  dritto  a  piombo  su  Pinfema  volta 
n  tremoto  ruggia),  levò  lo  sguardo, 
E  violato  dalla  luce  il  regno 
De'  morti  paventò.  Stupore  aggiunse 
L'improvviso  nitrito  e  calpestio 
De' suoi  neri  cavalli,  che,  le  regie 
Stalle  intronando,  inferocian  da  strano 
Terror  percossi,  e  le  morate  giubbe 
E  le  briglie  scuotean,  foco  sbuffando 
Dalle  larghe  narici^  infin  che  desta 
A  quel  romor  Proserpina,  la  bella 
D'Avemo  imperatrice  (che  sovente 
Prendea  diletto  con  le  rosee  dita 
Porger  loro  di  Stige  il  saporoso 
Melagrano  divino  ),  ad  acchetarli 
Corse,  e  per  nome  li  chiamò,  palpando 
Soavemente  di  que'feri  il  petto 
Con  le  palme  amorose.  Uscito  intanto 
Era  Vulcan  dalla  tremenda  buca 
Lieto  dell'opra,  e  con  piacer  crudele 
Contemplava  la  polve  e  il  denso  fumo 
Delle  svelte  città.  Giace  Mugilla^*, 
E  la  ricca  di  pampani  e  d'olivi 
Petrosa  Ecetra,  e  la  turrita  Artena, 
E  l' illustre  per  salda  intatta  fede 
Erculea  Norba,  a  cui  di  cento  greggi 
Biancheggiavano  i  colli.  E  tu  cadesti, 
Cora  infelice,  e  nelle  tue  mine 
Le  ceneri  perir  sante  del  primo 
Ausonio  padre,  uè  poter  giovarti 
Di  Dardano  i  Penati,  né  degli  almi 
Figli  di  Leda  la  propizia  stella , 


490  '  Li    FEK05IADC  ,    ClffTO    SECOHDO 

Che  air  aprico  tuo  suol  dolce  ridea. 

Voi  sole  a  terra  non  andaste,  o  sacre 

Ànsure  mura^  che  di  Giove  amica 

Vi  sostenne  la  destra,  e  la  caduta 

Non  permise  dell'  ara,  ove  tremenda 

Riposava  la  folgore  divina. 

Senti  di  voi  pietade  il  Dio,  di  voi, 

E  non  sentilla  delle  bianche  chiome 

D'ÀIcon,  d'Àlcone  il  pijl  giusto,  il  pijl  pio 

Deir Ausonia  contrada.  Umilemente 

ÀI  suol  messo  il  ginocchio,  il  venerando 

Veglio  tenea  levate  al  ciel  le  palme  ^ 

E  a  canto  in  quel  mcdesmo  atto  composti 

Gli  eran  due  figli  in  vista  si  pietosa, 

Che  fatto  avria  clementi  anco  le  rupi. 

Quando  venne  un  tremor  che  violento 

Crollò  la  casa  pastorale,  e  tutta 

In  un  subito,  ahi!  tutta  ebbe  sepolta 

LMnnocente  famiglia.  Unico  volle 

La  ria  Parca  lasciar  Melampo  in  vita, 

Raro  di  fede  e  d'amistade  esempio. 

Ei  rimasto  a  plorar  su  la  rovina, 

Fra  le  macerie  ricercando  a  lungo 

Andò  col  fiuto  il  suo  signor  sepolto, 

Immemore  del  cibo,  e  le  notturne 

Ombre  rompendo  d'ululati  e  pianti^ 

Finché  quarto  egli  cadde,  e  non  gV increbbe, 

Più  dal  dolor  che  dal  digiuno  ucciso. 

Fortunato  Melampo!  se  qualcuna 

Leggerà  questi  carmi  alma  cortese, 

Spero  io  ben  che  n'andrà  mesta  e  dolente 

Sul  tuo  fin  miserando.  Il  tuo  bel  nome 

Ne' posteri  sarà  quello  de'  veltri 

Più  generosi^  e  noi  malvagia  stirpe 

Dell'audace  Giapeto,  a  cui  peggiori 

I  figli  seguiran,  noi  dalle  belve 

La  verace  amicizia  apprenderemo. 


CANTO  TERZO 


All^  ardua  cima  del  sereno  Olimpo  ' 

Risalia  Giove  intanto,  e  ad  incontrarlo 
Àccorrean  presti  e  riverenti  i  Numi 
Su  le  porte  del  cielo.  In  mezzo  a  tutti, 
In  due  schierati  taciturne  file, 
Maestoso  egli  passa,  a  quella  guisa 
Che  suol,  calando  al  pallido  Occidente , 
Passar  tra  i  verecondi  astri  minori 
D^Iperìone  il  luminoso  figlio, 
Quando  dall^  arsa  eclittica  11  gran  carro 
Della  luce  ritira,  e  TOre  ancelle  ■ 
Sciolgono  dal  timon  bianco  di  spuma 
I  fumanti  cavalli.  Ai  sacri  alberghi 
Dell^  aurea  reggia  rispettosi  i  Divi  ^ 
Accompagnar  TOnnipotente  ^  e  giunti 
Al  grande  limitar,  per  se  medesme  ^ 
Si  spalancar  sui  cardini  di  bronzo 
Le  porte  d^oro,  che  uno  spirto  move 
Intrinseco  e  possente:  e  tale  intomo 
Nell^ aprirsi  mandar  cupo  un  ruggito, 
Che  tutto  ne  tremò  Falto  convesso. 
Ivi  in  parte  segreta,  a  cui  nessuno 
Non  ardisce  appressar  degli  altri  Etemi 
(  Fuor  che  le  meste  e  querule  Preghiere, 
Che  libere  pel  ciel  scorrono,  e  al  Nume 
Portano  i  voti  degli  oppressi  e  il  pianto), 
L'Egioco  Padre  in  gran  pensier  s' assise 
Sovra  il  balzo  d^Olimpo  il  più  sublime. 
Contemplava  di  là  giusto  e  pietoso 


49^  ^^  FERONIÀDE 

De^  mortali  gli  affanni  e  le  fatiche  : 

Mirò  d^Àusonia  i  campi ,  e  la  Pontina  ^ 

Valle  in  orrendo  pelago  conversa; 

Mirò  per  tutto  (miserabil  vista!) 

Le  sue  tante  cittadi^  altre  sommerse^ 

Altre  per  forza  di  tremuoto  svelte 

Dalle  ondeggianti  rupi,  e  la  catena*, 

Donde  pendon  la  terra  e  il  mar  sospesi , 

Scuotersi  ancora,  ed  oscillar  commossa 

Dalla  tremenda  di  Vulcan  possanza. 

Ciò  tutto  contemplando  in  suo  segreto, 

Non  fu  tardo  a  veder  che  tanto  eccesso, 

Tanta  rovina  sana  poco  all^ira 

Della  fiera  consorte.  In  compagnia 

Del  potente  de^  fuochi  egli  la  vide 

Verso  la  sacra  selva  incamminarsi. 

Ove  Feronia  nel  maggior  suo  tempio 

Di  vittime,  d^ncensi  e  di  ghirlande 

Dalle  genti  latine  avea  tributo. 

Di  Giuno  ei  quindi  antivedendo  il  nuovo 

Scellerato  disegno,  a  sé  chiamato 

Di  Maja  il  figlio,  esecutor  veloce 

De^suoi  cenni,  gli  fé  queste  parole: 

Nuove  furie  gelose,  o  mio  fedele, 

Hanno  turbato  alla  mia  sposa  il  petto  j 

E  quai  del  suo  rancor  già  sono  usciti 

Senza  misura  lagrimosi  effetti. 

Non  t'è  nascoso.  Un  simulacro  avanza 

Dell'esule  Feronia,  un  tempio  solo  ^ 

Di  tanti  che  già  n'  ebbe;  e  questo  ancora 

Vuole  al  suolo  adeguar  la  furibonda. 

Or  che  consiglio  è  il  suo?  Stolta,  che  tenta? 

Se  rispettar  le  nostre  ire  non  sanno 

Le  sante  cose  in  terra,  e  i  monumenti 

Dell'umana  pietà,  chi  de' mortali 

Sarà  che  più  n'  adori,  e  nella  nostra 


CiHTO  TSEZO  ^93 

Divina  qualità  più  ponga  fede  ? 

Prendi  adunque  sol  mar  Tirreno  il  toIo^ 

T^appresenta  a  Giunon  carco  de^  miei 

Forti  comandi.  Con  le  fiamme  assalga, 

Se  tanto  è  il  suo  disdegno,  anco  la  selva 

(GVella  a  ciò  si  prepara,  e  consentire 

Io  le  TO^pur  quest^ ultima  vendetta): 

Ma  se  V  empia  oserà  stender  la  destra 

Alle  sacre  pareti,  e  violarne 

n  fatai  simulacro^  alla  superba 

Tu  superbo  farai  queste  parole: 

Fisso  è  nel  mio  volere  (e  per  la  stigia 

Onda  lo  giuro  )  che  Pachea  contrada 

Lasciar  debbano  i  Numi,  e  nelP opima 

Itala  terra  stabilir  più  fermo. 

Più  temuto  il  lor  seggio.  Io  le  catene 

Del  mio  padre  Saturno  ho  già  disciolte, 

E  P  offesa  obbb'ai,  che  mi  costrinse  1 

A  sbandirlo  dal  ciel.  L^  ospite  suolo , 

Che  ramingo  P accolse  e  ascoso  il  tenne. 

Sacro  esser  debbe,  né  aver  dato  asilo 

Di  Giove  al  genitor  senza  mercede. 

Dopo  il  beato  Olimpo,  in  avrenire 

Sia  dunque  Italia  degli  Dei  la  stanza, 

E  di  là  parta  un  di  quanto  valore 

DeUa  mente  e  del  braccio  in  pace  e  in  guerra 

Farà  suggetto  il  mondo,  e  quanta  insieme 

Civiltà,  sapienza  e  gentilezza 

Renderanno  P  umana  compagnia 

Dalle  belve  divisa,  e  minor  poco 

Della  divina.  A  secondar  P  eccelso 

Proponimento  mio  già  nello  speco 

Della  rupe  cuméa  mugge  d^Apollo  * 

La  delfica  cortina,  ed  esso  il  Dio  9, 

Dimenticata  la  materna  Delo, 

Ai  dipinti  Agatirsi  ama  preporre 


494  ^^  FBROIUADE 

Del  Soratte  gli  scalzi  sacerdoti. 

Già  la  sorella  sua  di  Cinto  i  gioghi  ** 

Lieta  abbandona,  e  le  gargafie  fonti, 

Del  nemorense  lago  innamorata. 

Alle  sorti  di  Licia  han  tolto  il  grido  " 

Le  prenestine,  e  di  Laurento  i  boschi 

Tacer  già  fanno  le  parlanti  querce 

Della  Tinta  Dodona.  In  su  la  spiaggia  '* 

D^Ànzio  diletta  Venere  trasporta 

D^Amatunta  i  canestri,  e  Bacco  e  Vesta, 

E  Cerere  e  Minerva,  e  il  Re  dell^onde 

Son  già  Numi  latini.  E  alle  latine 

D^ Elide  Pare  già  posposi  io  stesso, 

E  sul  Tarpéo  recai  dell^Ida  i  tuoni  '^ 

E  le  procelle.  Perocché  maturo 

Già  s^  agita  nelPuma  il  gran  destino^ 

Che  gloriosa  dee  fondar  sul  Tebro 

La  Reina  del  mondo.  Al  sol  bisbiglio  '^ 

Che  di  lei  fanno  i  tripodi  cumani. 

Tutta  trema  la  terra:  e  già  s^ appressa 

D^Anchise  il  pio  figliuol,  seco  adducendo 

D'Ilio  i  Penati,  che  faran  nel  Lazio 

La  vendetta  di  Troja,  e  spezzeranno  '^ 

D^Agamennon  lo  scettro  in  Campidoglio* 

Cotal  de'  Fati  è  il  giro  ^  e  disviarlo 

Tenta  indamo  Giunon  :  da  Samo  indamo  *^ 

Porta  alla  sua  Cartago  il  cocchio  e  V  asta 

E  Pargolico  scudo,  armi  che  un  giorno 

Fian  concedute  con  miglior  fortuna 

Di  Dardano  ai  nepoti,  allor  che  Giuno  *? 

Per  quella  stessa  region,  su  cui 

Tanta  mole  di  flutti  ora  sospinse, 

Placata  scorrerà  del  Lazio  i  lidi. 

Ivi  su  Para  Sospita  le  genti'* 

LMnvocheranno^  ed  ella,  il  fianco  adoma 

Delle  pelli  caprine,  e  dentro  il  fumo 


CANTO  TBBZO  49^ 

De^  lanuTini  sagrificii  avvolta , 
Tutti  a  mensa  accorrà  d^Àusonia  i  Numi 
Cortesemente,  e  porgerà  di  pace 
A  Feronia  Pamplesso^  onde  già  fatte 
Entrambe  amiche,  toccheran  le  tazze 
Propinando  a  vicenda,  e  in  larghi  sorsi 
L^  obbho  beran  delle  passate  cose. 
Va  dunque,  e  sì  le  parla.  Il  suo  pensiero 
Tolga  in  meglio  P altera,  e  alle  sue  stanze 
Rieda  in  Olimpo^  che  Pandar  vagando 
Più  lungamente  in  terra  io  le  divieto. 
E  se  niega  obbedir,  tu  le  rammenta  '^ 
Le  incudi  un  giorno  al  suo  calcagno  appese-, 
E  dille  che  la  man  che  ve  le  avvinse, 
Non  ha  perduta  la  possanza  antica. 
Disse  ^  e  Mercurio  ad  eseguir  del  padre  *^ 
Il  precetto  s^  accinse.  E  pria  V  alato 
Petaso  al  capo  adatta,  ed  alle  piante 

I  bei  talari,  ondaci  vola  sublime 

'  Su  la  terra  e  sul  mare ,  e  la  rattezza    . 
Passa  de^  venti.  Impugna  indi  P  avvinta 
Verga  di  serpi,  prezioso  dono*' 
Del  fatidico  Apollo  il  di  che  a  lui 
L^Argicida  fratel  cesse  la  lira: 
Con  questa  verga ,  tutta  d^  oro ,  in  vita 
Ei  richiama  le  morte  alme,  ed  a  Pluto 
Mena  le  vive,  ed  or  sopore  infonde 
Nell^ umane  pupille,  ed  or  ne  1  toglie. 
Si  guemito,  e  con  tal  d^ali  remeggio 
Spiccasi  a  volo.  Occhio  mortai  non  puote 
Seguitarne  la  foga^  in  men  che  il  lampo 
Guizza  e  trapassa,  egli  è  già  sceso,  e  preme 

II  campano  terreno,  un  dì  nomato'* 
Campo  flegréo,  famosa  sepoltura 
De' percossi  Giganti.  Intorno  tutta 
Manda  globi  di  Aimo  la  pianura, 


49^  LÀ  FERONIÀDB 

Ed  Ogni  globo  dal  gran  petto  esala 
D'un  fulminato.  A  fronte  alza  il  Vesero 
Brullo  il  colmigno  ^  ed  al  suo  pie  la  dolce  ^ 
Lagrima  di  Lièo  stillan  le  viti. 
Lieve  lieye  radendo  il  folgorato 
Terren  di  Maja  il  figlio ^  e  la  marina 
Sorvolando  j  levossi  alP  erte  cime 
Della  balza  circéa,  che  di  Feronia 
Signoreggia  la  selva.  Ivi  fermossi, 
Qual  uom  che  tempo  al  suo  disegno  aspetta^ 
E  di  là  dechinando  il  guardo  attento 
Ài  piano  che  s'avvalla  spazioso 
Fra  Pànsure  dirupo  ed  il  circéo, 
E  tutto  copre  di  Feronia  il  bosco  ^ 
A  quella  volta  acceleranti  il  passo 
Vide  Giuno  e  Vulcano^  armati  entrambi 
D'  orrende  faci ,  ed  anelanti  a  nuova 
Nefanda  offesa.  All'appressar  di  quelle 
Vampe  nemiche  un  lungo  mise  e  cupo 
Geipito  la  foresta:  augelli  e  fiere, 
A  cui  Natura )  più  che  all' uom  cortese, 
Presentimento  die  quasi  divino, 
Da  subito  terror  compresi,  i  dolci 
Nidi  e  i  covili  abbandonar  stridendo 
E  ululando  smarriti,  e  senza  legge 
D'ogni  parte  fuggendo.  I  primi  incendi 
Eran  già  desti,  e  già  di  Giuno  al  cenno, 
Già  la  sua  fida  messaggera  e  ancella 
Verso  Eolia  battea  preste  le  penne  *^ 
Con  prego  ai  venti  di  soffiar  gagliardi 
Dentro  le  fiamme,  e  promettendo  pingui 
In  nome  della  Dea  vittime  e  doni: 
Come  il  di  che  d'Achille  ai  caldi  voti^^, 
Del  morto  amico  gli  avvampar  la  pira. 
Già  stendendo  verna  l'umida  notte 
Sul  volto  della  terra  il  negro  velo, 


CANTO  TERZO  497 

E  in  grembo  al  suo  pastor  Cinsia  dormia^ 
Quando  i  figli  d'Àstréo  con  gran  firacasso** 
Dall^  eolie  spelonche  sprigionati 
S' avventar  su  V  incendio ,  e  per  la  selva 
Senza  freno  Io  sparsero.  La  vampa 
Esagitata  rugge,  e  dalla  quercia 
Si  devolve  su  Polmo  e  su  Tabete; 
Crepita  il  lauro  ^  e  le  loquaci  chiome 
Stridono  in  capo  al  berecinzio  pino, 
À  sfidar  nato  su  gli  equorei  campi 
D^ Africo  e  d'Euro  i  tempestosi  assalti. 
Già  tutta  la  gran  selva  è  un  mar  di  foco 
E  di  terribil  luce,  a  cui  la  notte 
Spavento  accresce,  e  orribilmente  splende 
Per  lungo  tratto  la  circéa  marina  ^ 
Simigliante  al  Sigéo  *7  ^  quando  gli  eletti 
Guerrier  di  Grecia  del  cavallo  usciti 
In  faville  mandar  d'Ilio  le  torri, 
E  atterrita  la  frigia  onda  si  fea 
Specchio  al  rogo  di  Troja^  miserando 
Di  tanti  eroi  sepolcro  e  di  tant'ire. 
All'orrendo  spettacolo  il  feroce 

Cor  di  Giuno  esultava;  e  impaziente 
Di  vendicarsi  al  tutto  (che  suprema 
Voluttà  de' potenti  ^  la  vendetta), 
Un  divampante  tizzo  alto  agitando 
E  furiando,  vola  al  gran  delubro. 
Ch'unico  avanza  della  sua  nemica. 
Ferma  in  cor  d'atterrarlo,  incenerirlo, 
E  spegnere  con  esso  ogni  vestigio 
Dell'  abbonito  culto.  Airmato  ci  pure 
D'empia  face ,  Vulcan  seguia  non  tardo 
La  fiera  madre;  e  già  le  sacre  soglie 
Calcano  entrambi  :  dai  commossi  altari 
Già  fugge  la  Pietà,  fugge  smarrita  ** 
La  Fede  avvolta  nel  suo  bianco  velot 


49^  LA  FERORIADE 

Con  vivo  lenso  di  terrore  anch'esso 
Si  commosse  il  tuo  santo  simulacro, 
O  misera  Feronia,  e  un  doloroso 
Gemito  mise  (meraviglia  a  dirsi  !), 
Quasi  accusando  d'  empictade  il  cielo* 
Ma  del  figliuol  di  Maja,  a  ciò  spedito. 
Non  fu  tarda  Taita  in  tanto  estremo: 
E  come  stella  che  alle  notti  estive 
Precipite  labendo  il  cielo  fende 
Di  momentaneo  solco,  e  va  sì  ratta, 
Che  rocchio  appena  nel  passar  F  avvisa^ 
Non  altrimenti  il  Dio  stretto  nell'^ali 
Il  sereno  trascorse,  e  rilucente 
Sul  vestibolo  sacro  appresentossi. 
All'improvvisa  sua  comparsa  il  passo 
Stupefatti  arrestar  Vulcano  e  Giuno, 
E  si  turbar  vedendosi  di  fronte 
Starsi  ritto  Mercurio,  e  imperioso 
Contra  il  lor  petto  le  temute  serpi 
Chinar  dell'aurea  verga,  e  cosi  dire: 
Fermati,  o  Diva^  portator  son  io 
Di  severa  ambasciata.  A  te  comanda 
L'  onnipossente  tuo  consorte  e  sire 
Di  gettar  quelle  faci,  e  inviolata 
Quest'eflBgie  lasciar  e  queste  mura. 
Riedi  alle  stanze  dell'Olimpo,  e  tosto ^ 
Che  ti  si  vieta  andar  più  lungamente 
Vagando  in  terra,  e  funestar  di  stragi 
Le  contrade  latine,  a  cui  l'impero 
Promettono  del  mondo  il  Fato  e  Giove.  — 
E  di  Giove  e  del  Fato  a  mano  a  mano 
Qui  le  aperse  i  voleri ,  e  il  tempo  e  il  modo 
De'  futuri  successi:  e  non  die  fine 
All'austero  parlar,  che  ricordolle 
Le  incudi  un  giorno  al  suo  calcagno  appese, 
E  il  bi-accio  punitor,  che  non  avea 


CAMTO  TERZO  ^99 

Perduta  ancora  la  possanza  antica. 

Cadde  il  tizzo  di  mano  a  quegli  accenti 

Al  Dio  di  Lenno,  e  tra  le  vampe  e  il  fumo 
Si  dileguò;  né  disse  addio,  né  parve 
Aver  mal  fermo  a  pronta  fuga  il  piede; 
Ma  con  torvo  sembiante  e  disdegnoso 
Si  ristette  Giunon,  che  rabbia  e  tema 
Le  stringono  la  mente,  e  par  tra^ ferri 
La  generosa  belva  che  gli  orrendi 
Occhi  travolve,  e  il  correttor  flagello 
Fa  tremar  nella  man  del  suo  custode. 
Senza  dir  motto  alfin  volse  le  spalle, 
E  rotando  in  partii*  la  face  in  alto, 
Con  quanta  più  potco  forza  la  spinse: 
Vola  il  ramo  infiammato,  e  di  sanguigna 
Luce  un  grand' arco  con  immensa  riga 
Segna  per  Petra  taciturno  e  scuro. 
U  Sidicino  montanar  v*  affisse 
Stupido  il  guardo,  e  sbigottissi,  e  un  gelo 
Corse  per  Possa  al  pescator  d'Amsanto, 
Quando  sul  capo  minar  sei  vide, 
E  cader  sibilando  nella  valle. 
Ove  suona  rumor  di  fama  antica. 
Che  del  puzzo  mortai,  che  ancor  v'esala, 
L'aria  e  Ponde  corruppe,  ed  un  orrendo *d 
Spiraglio  aperse,  che  conduce  a  Dite. 

Come  aUor  che  su  i  nostri  occhi  Morfeo 
Sparger  ricusa  la  letéa  rugiada. 
D'ogni  parte  la  mente  va  veloce, 
E  fugge,  e  toma,  e  slanciasi  in  un  punto 
Dall'  aurora  all'  occaso,  e  dalla  terra 
Alla  sfera  di  Giove  e  di  Saturno  ; 
Con  tal  prestezza  si  sospinse  al  cielo 
La  ritrosa  Giunon.  L' Ore  custodi 
Delle  soglie  d'Empirò  incontanente 
Alla  Reina  degli  Dei  le  porte 


5oO  LA  FEEONIADB 

Spalancar  dell^ Olimpo,  e  la  bionda  E3>e^, 
Ilare  il  volto,  e  F abito  succinta, 
Le  corse  iacontro  con  la  tazxa  in  mano 
Del  nettare  celeste^  ed  ella  un  sorso 
Né  por  gustò  dell^ immortai  bevanda^ 
Che  troppo  d^  amarezza  e  di  rammarco 
Ayea  F  anima  piena.  Onde  con  gli  occhi 
In  giù  rivolti  e  d^allegrezza  privi, 
Né  a  verun  degli  Dei,  che  surti  in  piedi 
Erano  al  suo  passar,  fatto  un  saluto, 
n  passo  accelerò  verso  i  recessi 
Del  talamo  divino^  ed  ivi  entrata. 
Serrò  le  porte  rilucenti,  e  tutte 
Ne  faro  escluse  le  fedeli  ancelle. 
Poiché  sola  rimase,  al  suo  dispetto 
Àbbandonossi^  lacerò  le  bende, 
Ruppe  armille  e  monili,  e  gettò  lunge 
La  clamide  regal  che  di  sua  mano 
Tessè  Minerva,  e  d^auree  firange  il  lembo 
Circondato  n'avea.  Né  tu  sicura 
Da^suoi  iurori  andar  potesti,  o  sacra 
Alla  beltade,  inaccessibil  ara '* , 
Che  non  hai  nome  in  cielo ,  e  tra'  mortali 
Da  barbarico  accento  lo  traesti, 
Cui  le  Muse  abbonir.  Cieca  di  sdegna 
Ti  riversò  la  Dea:  cadde,  e  si  franse 
Con  diverso  fragor  V  ampio  cristallo  ^* , 
Che  in  mezzo  dell'  aitar  sorgea  sovrano 
Maestoso  e  superbo,  e  in  un  confusi 
N'  andar  soasopra  i  vasi  d'oro  e  V  urne 
Degli  aromi  celèsti  e  de' profumi. 
Onde  tal  si  difiìise  una  fragranza  ^^ , 
Che  tutta  empiea  la  casa  e  il  vasto  Olimpo. 
Mentre  così  l' ire  gelose  in  cielo 

Disacerba  Giunon,  quai  sono  in  terra 
Di  Feronia  le  lagrime,  i  sospiri? 


CANTO  TERZO  5o  I 

Ditelo  )  d^ Elicona  alme  fanciulle, 

Voi  che  r  opere  tutte  e  i  pensier  anco 

De^  mortali  sapete  e  degli  Dei. 

Poi  che  si  vide  T  infelice  in  bando 

Cacciata  dal  natio  dolce  terreno, 

D^are  priva  e  d^  onori,  e  dallo  stesso 

(Ahi  sconoscenza!),  dallo  stesso  Giove 

Lasciata  in  abbandono,  ella  dolente 

Verso  i  boschi  di  Trivia  incamminossi , 

E  ad  or  ad  or  volgea  lo  sguardo  indietro , 

E  sospirava.  Sul  pie  stanco  alfine 

Mal  si  reggendo,  e  dalla  lunga  via, 

E  più  dal  duolo  abbattuta  e  cadente , 

Sotto  un'  elee  s' assise  :  ivi  facendo 

Ài  volto  letto  d'ambedue  le  palme. 

Tutta  con  esse  si  coprì  la  fronte, 

E  nascose  le  lagrime,  che  mute 

Le  bagnavan  le  gote,  e  le  sapea 

Solo  il  terren,  che  le  bevea  pietoso. 

In  quel  misero  stato  la  ravvolse 

Dell'ombre  sue  la  notte,  e  in  sul  mattino 

n  Sol  la  ritrovò  sparsa  le  chiome, 

E  di  gelo  grondante  e  di  pruina^ 

Perocché  per  dolor  posta  in  non  cale 

La  sua  celeste  dignitade  avea. 

Onde  al  corpo  divin  P  aure  notturne 

Ingiuriose  e  irriverenti  furo , 

Siccome  a  membra  di  mortai  natura. 

Lica  intanto,  di  povero  terreno 

Più  povero  cultor ,  dal  letticciuolo 

Era  surto  con  V  alba ,  e  del  suo  campo 

Visitando  venia  le  orrende  piaghe 

Che  fatte  avean  la  pioggia ,  il  ghiaccio  ,  il  vento 

Agli  arboscelli,  ai  solchi  ed  alle  viti. 

Lungo  il  calle  passando,  ove  la  Diva 

In  quell'  atto  sedea,  da  meraviglia 

Mosti.  Poemetti,  3^ 


5o: 


LA  PERONIADE 


Tocco  y  e  più  da  pietà,  che  fra  le  selve 
Meglio  che  in  mezzo  alle  cittadi  alberga  ^ 
S^  appressò  palpitando ,  e  la  giacente 
Non  conoscendo  (che  a  mortai  pupilla 
Difficil  cosa  è  il  ravvisar  gli  Dei), 
Ma  in  lei  della  contrada  argomentando 
Una  Ninfa  smarrita:  O  tu,  chi  sei, 
Chi  sei  (le  disse),  che  si  care  e  belle 
Hai  le  sembianze  e  dolor  tanto  in  volto? 
Per  chi  son  queste  lagrime?  t'ha  forse 
Priva  il  ciel  della  madre ,  o  del  fratello , 
O  dell'  amato  sposo  ?  che  son  questi 
Certo  i  primi  de'  mali ,  onde  sovente 
Giove  n'  afSigge.  Ma  del  tuo  cordoglio 
Qual  si  sia  la  cagion,  prendi  conforto, 
E  pazienza  opponi  alle  sventure 
.  Che  ne  mandano  i  Numi:  essi  nemici 
Nostri  non  son^  ma  col  rigor  talvolta 
Correggono  i  più  cari.  Alzati,  o  donna ^ 
Vieni ,  e  t'  adagia  nella  mia  capanna , 
Che  non  è  lungi  ^  e  le  forze  languenti 
Ivi  di  qualche  cibo  e  di  riposo 
Ristorerai.  La  mia  consorte  poscia 
Di  tutto  r  uopo  ti  sarà  cortese  ^ 
Ch'ella  è  prudente,  e  degli  afflitti  amica ^ 
E  qual  figlia  ambedue  cara  t'avremo.  — 
Alle  parole  del  villan  pietoso 

S' intenerì  la  Diva ,  e  in  cor  sentissi 
La  doglia  mitigar,  tanta  fra'  boschi 
Gentilezza  trovando  e  cortesia. 
Levossì  in  piedi ,  ed  ei  le  resse  il  fianco , 
E  la  sostenne  con  la  man  callosa. 
Neil'  appressarsi ,  nel  toccar  eh'  ei  fece 
U  divin  vestimento,  un  brividio, 
Un  palpito  lo  prese,  un  cotal  misto 
Di  rispetto,  d'affetto  e  di  paura, 


j 
CANTO  TERZO  ^o3 


Che  parve  uscir  dei  sensi,  e  su  le  labbra 

La  voce  gli  morì.  Quindi  il  sentiero 

Prese  invér  la  capanna,  e  il  fido  cane 

Nel  mezzo  del  cortil  gli  corse  incontro  : 

Volea  latrar^  ma  sollevando  il  muso, 

E  attonite  rizzando  ambe  le  orecchie , 

Guardolla,  e  muto  su  P  impressa  arena 

Ne  fiutò  le  vestigia.  In  questo  mentre 

AUa  cara  sua  moglie  Teletusa 

Il  buon  Lica  dicea:  Presto  sul  desco 

Spiega  un  candido  lino ,  e  passe  ulive 

Recavi  e  pomi  e  grappoli,  che  salvi 

Dal  morso  abbiam  dell^ aspro  verno,  e  un  nappo 

Di  soave  lambrusca ,  e  s'  altro  in  serbo 

Tieni  di  meglio^  cbè  mostrai'ci  è  d^uopo 

Come  più  puossi  liberali  a  questa 

Peregrina  infelice.  —  Allor  spedita 

Teletusa  si  mosse,  e  in  un  momento 

Di  cibo  rustical  coperse  il  desco, 

Ed  invitò  la  Dea,  la  quale  assisa  ^^ 

Sul  limitar  si  stava,  e  immota  e  grave 

L^  infinito  suo  duol  premea  nel  petto  ^ 

Né  già  tenne  P  invito ,  che  mortale 

Gorruttibil  vivanda  non  confassi 

A  palato  immortala  ma  ben  di  trito  ^^ 

Odoroso  puleggio  e  di  farina 

D^  acqua  commisti  una  bevanda  chiese , 

Grata  al  labbro  de^  Numi,  e  V  ebbe  in  conto 

Di  sacra  libagion.  Forte  di  questo 

Meravigliossi  Teletusa,  e  fiso 

Di  Feronia  il  sembiante  esaminando 

(  Poiché  al  sesso  minor  diero  gli  Dei 

Curiose  pupille,  e  accorgimento 

Quasi  divin),  sospetto  alto  la  prese, 

Che  si  tenesse  in  quelle  forme  occulta 

Cosa  più  che  terrena.  Onde  in  disparte 


5o4  l'I  FERONIÀDE 

Tratto  il  marito,  il  suo  timor  gli  espose, 
E  creduta  ne  fìi^  che  facilmente 
Cuor  semplice  ed  onesto  è  persuaso. 
Àllor  Lica  narrò  quel  che  poc'  anzi 
Assalito  V  avea  strano  tumulto  , 
Quando  assorgere  in  pie  le  porse  aita, 
E  con  la  mano  le  soffolse  il  fianco. 
Poi ,  seguendo ,  di  Bauci  e  Filemone 
Rammentar  Pavrentura,  e  quel  che  udito 
Da^  vecchi  padri  avean ,  siccome  ascoso 
Fra  lor  nelle  capanne  e  nelle  selve 
Stette  a  lungo  Saturno,  e  noi  conobbe 
Altri  che  Giano.  In  cotal  dubbio  errando, 
Si  ritrassero  entrambi,  e  lasciar  sola 
La  taciturna  Diva.  Ella  dal  seggio 
Si  tolse  allora ,  e  due  e  tre  volte  scorse 
Pensierosa  la  stanca,  e  poi  di  nuovo 
Sospirando  s*  assise ,  e  in  questi  accenti 
Al  suo  fiero  dolor  le  porte  aperse  : 
Donde  prima  deggMo,  Giove  crudele. 
Il  mio  lamento  incominciar  ?  Già  tempo 
Fu  che,  superba  del  tuo  amor,  chiamarmi 
Potei  felice  ed  onorata  e  diva. 
Or  eccomi  deserta  ^  e  non  mi  resta 
Che  questo  sol  di  non  poter  morire 
Privilegio  infelice.  E  fino  a  quando 
Alla  fierezza  della  tua  consorte 
Esporrai  questa  fironte  ?  Il  premio  è  questo 
De'  concessi  imenei?  Questi  gli  onori 
E  le  tante  in  Ausonia  are  promesse , 
Onde  speme  mi  desti  che  la  prima 
Mi  sarei  stata  delle  Dee  latine? 
Tu  m' ingannasti  :  V  ultima  son  io 
DegP  immortali ,  ahi  lassa  !  e  non  mi  fero 
Illust;re  e  chiara,  che  le  mie  sventure. 
Rendimi,  ingrato,  rendi&jii  alla  morte, 


CÀUTO  TERZO  5o5 

Alla  qaal  mi  togliesti.  Entro  quell^onde 
Concedimi  perir,  che  la  tua  Giono 
Sul  mio  regno  sospinse,  o  chMo  ritrovi 
Agli  arsi  boschi  in  mezzo  e  alle  mine 
Dermici  templi  abbattuti  il  mio  sepolcro.  — 
Cosi  la  Diva  lamentossi,  e  tacque. 
Era  la  notte ,  e  d^  ogni  parte  i  venti 
E  Tonde  e  gli  animanti  avean  riposo , 
Fuorché  V  insetto  che  ne^  rozzi  alberghi 
A  canto  al  focolar  molce  con  lungo 
Sonnifero  stridor  V  ombra  notturna^ 
E  Filomena  nella  siepe  ascosa 
Va  iterando  le  sue  dolci  querele. 
In  quel  silenzio  universale  anch^  essa 
Adagiossi  la  Dea  vinta  dal  sonno, 
Che  dopo  il  lagrimar  sempre  sugli  occhi 
Dolcissimo  discende,  e  la  sua  verga  ^ 
Le  pupille  celesti  anco  sommette. 
Quando  il  gran  padre  degli  Dei,  che  udito 
Dell^  amica  dolente  il  pianto  avea, 
A  lei  tacito  venne  ^  e  poi  che  stette 
Del  letto  alquanto  su  la  sponda  assiso, 
Di  quel  volto  sì  caro  addormentato 
La  beltà  contemplando,  alfin  la  mano 
Leggermente  le  scosse ,  e  nell^  orecchio 
Bisbigliando  soave:  O  mia  diletta,' 
Svegliati  (disse),  svegliati,  son  io 
Che  ti  chiamo^  son  Giove.  —  A  questa  voce 
n  sonno  l'abbandona,  apre  le  luci, 
E  stupefatta  si  ritrova  in  braccio 
Del  gran  figliuolo  di  Saturno.  Ed  egli 
Riconfortala  in  pria  con  un  sorriso  ^7 
Che  di  dolcezza  avrfa  spetrati  i  monti, 
Ed  acchetato  il  mar  quando  è  in  fortuna^ 
Poscia  in  tal  modo  a  ragionar  le  prese  : 
Calma  il  duolo,  Feronia^  immoti  e  saldi 


SoG  LA  FSIONIADE 

Stanno  i  tuoi  fati  e  le  promesse  mle^ 

Né  ingannator  son  io ,  né  si  cancella 

Mai  sillaba  di  Giove:  Ma  profonde 

Sono  le  vie  del  mio  pensiero,  e  aperta 

A  me  solo  de^  Fati  è  la  cortina. 

Non  lagrimar  sul  tuo  perduto  impero: 

Tempo  verrà,  che  largamente  reso 

Tel  vedrai ,  non  temerne,  e  i  muti  altari 

E  le  cittadi  e  i  campi  e  le  pianure 

Dai  ruderi  e  dall^onde  e  dalla  polve 

Sorger  più  belle  e  numerose  e  colte. 

D' Italia  in  questo  i  più  lodati  eroi 

Porran  Fopra  e  V  ingegno.  Io  non  ti  nomo  ^^ 

Che  i  più  famosi^ e  in  prima  Appio, che  in  mezzo 

Spingerà  delle  torbide  Pontine 

Delle  vie  la  regina.  Indi  Cetego:  ^ 

Indi  il  possente  fortunato  Augusto  ^^ 

Esecutor  della  patema  idea^ 

Al  cui  tempo  felice  un  Venosino 

Gantor  sublime  neUuoi  fonti  il  volto  ^' 

Laverassi  e  le  mani^  e  tu  di  questo 

Orgogliosa  n^  andrai  più  che  TAnfiriso, 

Già  lavacro  d^ Apollo.  Elcco  venirne  ^* 

Poscia  il  lume  de'  regi ,  il  pio  Trajano 

Che,  domata  con  l'armi  Asia  ed  Europa, 

Gol  senno  domerà  la  tua  palude^ 

E  le  partiche  spade  e  le  tedesche 

In  vomeri  cangiate  impiagheranno , 

Meglio  d'  assai  che  de'  Romani  il  petto , 

Le  glebe  pometine.  E  qui  trecento 

Giri  ti  volve  d'  abbondanza  il  sole , 

E  di  placido  regno ,  infin  che  il  Goto 

Furor  d' Italia  guasterà  la  faccia. 

Da  boreal  tempesta  la  mina 

Scenderà  de'  tuoi  campi  ^  ma  del  pari 

Un'  alma  boreal ,  calda  e  ripiena  *^ 


CANTO  TfiRZO  507 

Del  valor  d^ Occidente,  al  tuo  bel  regno 

Porterà  la  salute ,  e  poi  di  nuovo 

(Che  tal  de^Fati  è  il  corso)  alto  squallore 

Lo  coprirà^  né  zelo,  arte  o  possanza  ^ 

Di  sommi  Sacerdoti  all^onor  primo 

Interamente  il  renderan^  che  Topra 

Immortai,  gloriosa  ed  infinita 

Ad  un  più  grande  eroe  serba  il  destino. 

Lo  dìran  Pio  le  genti,  e  di  quel  nome 

Sesto  sarà 


FRAMMENTI 


INEDITI 


DELLA    FERONIADE 


E  tu  che  assisa  sul  maggior  de^ troni, 
DI  magnanima  prole  Faugumenti, 
Aloisa*^,  se  a  te  dentro  la  luce 
Che  ti  circonda,  ingrato  il  suon  non  giunge 
Delle  italiche  cetre  (e  qual  gentile 
Petto  alla  tosca  melodia  si  chiude  7) , 
Porgi  benigno  al  mio  cantar  P orecchio, 
E  di  Feronia  meco  i  casi  acerbi 
Commiserando,  mostra  che  tu  Sposa 
Del  sommo  de^ mortali,  hai  dell^ augusta 
Sposa  del  sommo  degli  Dei  gli  eccelsi 
Spirti  e  r  incesso ,  ma  più  bello  il  core. 
Forse  avverrà   che  de^  tuoi  sguardi  un  giorno 
Tu  del  Lazio  a  bear  scenda  le  rive, 
Quando  P  augusta  sempiterna  Roma 
Sulle  chiome  porrà  del  tuo  gran  Sire 
Di  Trajan  la  corona  in  Campidoglio. 

*  Qaeata  dedica  non  ebbe  effetto^  e  però  fu  tralasciata  nella  stampa 
del  I  Canto  della  Feroniade,  oye  ayrebbe  doyato  stare  immediatamente 
dopo  i  primi  undici  yersi,  che  contengono  l'esposizione  del  soggetto; 
onde  a  me  pure  non  è  sembrato  di  doverla  inserire  nel  testo,  ma  la 
pubblico  dopo  il  poema.  Intorno  poi  ai  Frammenti  che  seguono,  e  che 
erano  destinati  al  li  Canto,  in  yece  del  passo  che  yi  si  legge  e  che 
incomincia  Stava  questo  dell*  arti  arbitro  sommo  ec,  veggasi  la  nota  a 
carte  XX  delle  Notizie  suUa  i'ita,  ec,  nel  primo  volume.        L'Editom. 


5lO  FRAMMENTI   INEDITI 

Ad  incontrarti  per  le  vie  latine 

Verrà  la  Dea  ch^io  canto,  e  rimembrando 

La  pietà  che  largisti  alle  sue  pene, 

Cederatti  gli  altari.  AUor  te  Pia, 

Te  Sospita  i  Quiriti  invocheranno, 

E  davanti  aUuoi  passi  i  fior,  che  Paura 

Del  Palatino  educa  e  del  Tarpeo, 

Spargeranno  a  man  piena.  E  Marte  intanto 

Del  suo  scudo  farà  culla  all^  augusto 

Tuo  pargoletto,  e  a  lusingarne  il  sonno 

Fra"*  cantici  guerrieri  in  su  Tancile 

Con  fragor  batterà  V  asta  latina. 

Or  tu,  gran  Donna,  adersi  miei  cortese 

Sii  d^un  facile  corso.  Alto  non  sorge, 

Ma  pietoso  è  il  subbietto  e  di  te  degno. 


DELLA    FERONIÀDE.  5  I  I 


Stava  questo  delFarti  arbitro  etemo 
Nell^ayyenir  presago  fabbricando 
Per  un  promesso  dalle  Parche  ai  tardi 
Posteri  invitto  onnipossente  Sire^ 
Con  mirando  artificio  un  aureo  trono  * 

D^  altra  parte  i  Ciclopi  al  gran  Guerriero 

Mai*tellando  venian  su  le  sonanti 

Incudi  il  brando,  a  cui  nulP altro  in  terra 

Dovea  star  contra  ^  e  n^  era  la  materia 

Un  de^  riposti  fulmini  che  In  Flegra 

Àvean  solcato  de^  Giganti  il  petto. 

Con  tempre  e  leghe  d^  ogni  guisa  in  questo 

D  fiero  fabbro  avea  tre  raggi  attorto 

Di  grandinoso  nembo  e  tre  di  foco, 

Che  giammai  non  si  spegne,  e  tre  di  nube 

Pregna  di  pioggie,  e  tre  d^  impetuoso 

Turbine.  I  tuoni  ei  quindi  ed  i  baleni 

V'aggiungeva,  e  di  furie  e  di  spaventi, 

E  di  sdegni  e  di  fiamme  un  cotal  misto, 

Che  del  brando  fatale  il  lampo  solo 

Mettea  terrore,  e  noi  sofina  la  vista. 

Guai  a  chi  Tire  un  di  di  quella  spada 

Nelle  battaglie  tenterà!  Felice 

Chi  snudata  la  vegga  in  sua  difesa! 


*  DoTCTa  questo  trono  essere  descritto  a  somiglianza  di  quello  del 
Giove  Olimpico^  di  cui  fa  menzione  Pausanìa.  Ma  la  stella  del  Sire  in 
questo  mezzo  declinò  rapida  al  suo  tramonto^  e  l'autore  non  compi 
i  Tersi  che  mcditaya.  L'Editore. 


NOTE 


ALLA  FERONIADE 


AFFERTIMENTO  AL  LETTORE 


L^  seguenti  annotazioni  furono  intraprese  per  commissione  del  ca^ 
voliere  Vincenzo  Monti,  ed  interamente  compilate  sotto  la  sua  dire- 
zione. Non  si  possono  dire  da  lui  dettate,  poiché  quand'egli  pensava 
di  mettere  sotto  i  torchi  questo  poema,  gli  sopravvenne  quel  colpo  di 
apoplessia,  che,  dopo  averlo  Jàtto  lungamente  languire^  lo  condusse 
al  sepolcro  senza  permettergli  né  pure  di  comporre  i  pochi  versi  coi 
quali  intendeva  di  dar  termine  al  suo  lavoro.  Egli  nulladimeno  indicò 
al  compilatore  le  fonti  onde  aveva  tratta  la  materia^  e  volle  che  fos- 
sero quando  accennati  e  quando  riportati  per  esteso  i  passi  degli  scrit- 
tori da  cui  aveva  raccolti  cotanti  jfiori  ora  {li  alta  ed  ora  di  leggiadra 
poesia,  animandone  mirabilmente  il  suo  stile.  O fisse  una  bella  in- 
genuità di  queir  uomo  illustre,  per  brama  di  far  palese  il  debito  che 
gli  correva  verso  i  suoi  grandi  predecessori,  o  fosse  desiderio  di  mo- 
strare ai  giovani  come  nel  difficile  aringo  delle  lettere  V  ingegno  non 
basta  senza  lo  studio,  e  come  i  classici  greci  e  latini  sono  a  tutti  maio- 
stri  principalissimi  (Togni  bellezza  poeticaj  tale  certamente  fi  la  sua 
volontà,  cui  vuoisi  rispettare^  benché  ad  alcuno  potesse  per  ciò  pa- 
rere soverchia  la  mole  delle  annotazioni.  Qualche  prolissità  apparirà 
forse  anche  in  parecchie  note  che  risguardano  la  storia,  la  mitolo- 
gia, od  in  qualunque  altra  maniera  ¥  erudizione  ,  le  quali  verranno 
riputate  superflue  da  chi  già  è  pratico  della  materia  j  ma  T  autore 
pensava  che  non  tutti  possono  esseme  pratici ,  e  che  le  allusioni  es- 
sendo molte  e  diverse  j  qualcheduno ,  che  non  abbiane  pronta  altri- 
menti la  spiegazione,  aggradirà  di  vederle  qui  dichiarate. 

G.  A.  M* 


NOTE  AL  CANTO  PRIMO 
DELLA  FERONIADE. 


Pag.  453. 

■  È  fama  che  alloraqaaDdo  Licurgo  ebbe  date  agli  Spartani  quelle  «uè 
famose  leggi,  alcuni  di  essi,  non  potendone  sostenere  l'asprezza,  si  met- 
tessero in  nave  e  partissero  per  ricercare  altrove  un'  altra  patria.  E 
vuoisi  che,  stanchi  del  lungo  ed  infruttuoso  viaggiare  pe'  mari,  faces* 
sero  voto  agli  Dei,  che  su  qualunque  spiaggia  lor  fosse  accaduto  di 
metter  piede,  ivi  avrebbero  fermata  la  propria  stanza.  Quindi  portati 
in  Italia  ai  campi  Pomentìni^  pigliarono  terra;  dissero  Fero/iia  il  suolo 
su  cai  erano  sbarcati,  poiché  pel  mare  era  loro  avvenuto  di  essere  qua 
e  là  trasferiti  {ut  huc  illuc  Jèrrentur) j  ed  alla  Divinità  di  Feronia  e- 
ressero  un  tempio.  —  Queste  sono  presso  a  poco  le  parole  colle  quali 
Dionigi  d'Alicarnasso  {Antiq,  Rom,  lib.  IIj  49)  racconta  l'origine  di  questa 
Divinità.  Il  tempio,  di  cui  fa  menzione  lo  storico,  sorgeva  in  vicinan- 
za del  fiume  Ufente  verso  il  monte  Circeo,  odi  Terracina;  ed  Orazio 
(lib.  I ,  Sat.  V,  V.  a4)  ricorda  la  fontana  eh'  ivi  era  consacrata  a  Fe- 
ronia. Oltre  la  fontana  vi  aveva  un  lago  ed  un  bosco  assai  celebre,  i 
cui  alberi  raccontavasi  che  non  fossero  mai  tocchi  dal  fulmine.  Di 
questo  bosco  fa  parola  Virgilio  {JEn,  lib.  VII^  v.  800)  come  di  cosa 
particolarmente  cara  alla  Dea:  et  viridi  gaudens  Feronia  luco.  Equi  Sct' 
vio  aggiunge  il  seguente  comento  :  Non  vacat  quod  addidit  yiiiàu  Nam 
cum  aliquando  hujus  fontis  lucus  fortuito  arsisset  incendio  j  et  vellent 
incolae  exinde  trans/erre  simulacro^  subito  reuiruit, 

11  culto  di  Feronia  si  accrebbe  col  tempo  grandemente.  Ella  ebbe 
un  tempio  anche  in  Etruria,  nel  luogo  dove  ora  è  Pietrasanta,  ed  un 
altro  nel  territorio  Capenate  fra  Vejo  ed  il  Tevere,  alle  radici  del  So- 
ratte,  cui  Latini  e  Sabini,  frequentandolo  in  comune,  avevano  arric- 
chito d' infiniti  doni,  che  un  largo  bottino  somministrarono  alla  rapa- 
cità dei  soldati  di  Annibale  nel  loro  passaggio.  (V.  T.  Liv.  lib.  XXVJ^ 
cap.  11;  e  Sii.  It.  De  Beilo  Pun,  lib.  XIII,  v.  83  e  segg.). 

Chi  fosse  vago  di  maggiori  notizie  intorno  a  Feronia,  consulti  il  f^e- 
tus  Latium  profanum  et  sacrum,  opera  del  card.  Marcello  Corradini 
continuata  dal  p.  Rocco  Volpi ,  che  spesso  avremo  occasione  di  citare 
in  queste  Annotazioni. 

Pag.  454. 

2  cum  Troia  Achillei 

ExanimaU  scqucns  impingerct  agmina  muris, 


5l6  ROTE    AL    CINTO    PRIMO 

MàUia  Balla  duci  lato,  genMTCBtqae  raplctt 


la  mare  m  Xautluu.  (Yibo.,  Xm.  V,  So^.) 

Vedisi  poi  Omero  nell'Iliade,  lib.  XXI,  ▼.  3i4  e»eg(. 

Pao.  454. 

3  Omero  {Odissea,  lib.  VII)  acrìve  che  nel  giardino  di  Alcinoo  ti 
areva  due  fonti;  e  che 

....    L'ana  per  futlo 

Si  dirama  il  giardino,  e  l'altra  oone, 

Pamndb  del  oortil  aotto  la  aqglia. 

Sin  daTanti  al  palagio)  e  a  i|nerta  Tanno 

GU  aUteti  ad  attigMie. 

{Trmi,  4*tppoUtù  Pimkmmnts,} 

Iti. 

4  laipocflnm  nsis  kto  fmidantibn»  Anznr. 

(HoaAT.  I,  Sai.  ▼.,  96.) 

Ansuro  fu  poi  detto  Tarracina  e  Terracùm,  nome  che  ancora  gli 
rimane.  Taluni,  fondati  sul  verso  di  Orazio  qui  sopra  citato,  Togliono 
che  l'odierna  Terracina  sia  fabbricata  in  luogo  men  alto  dell'antica 
Ansnro.  Quest'opinione  però  non  sembra  vera  al  celebre  Spedalieri  : 
*f  imperciocché  (dic'egli)  se  al  tempo  d'Orazio  Tarracina  fosse  stata 
»  in  un  sito  più  alto,  il  poeta  per  giongervi,  partendo  dal  tempio  di 
»  Feronia,  ayria  dovuto  rampicarsi  più  di  tre  miglia  (Afi'i/ù  tum/nxuui 
n  tria  repimus,  Horat.  I.  e,  ▼.  a5) ,  perchè  tre  miglia  si  contano  dal 
M  tempio  di  Feronia  al  luogo  ove  sta  adesso  Terracina  n.  Veggasi  l'o- 
pera compilata  da  Nicola  Maria  Nicolai  Romano,  la  quale  ha  per  ti- 
tolo :  De*  òon^camenti  delle  terre  pontine j  Ubri  quattro,  —  In  Boma^ 
nella  Stamperia  Paglimrini,,  moccc.  In  JogL  —  I  primi  libri  di  quest'o-> 
pera  erano  stati  scritti  in  latino  dall' ab.  Nicola  Spedalieri,  siciliano, 
per  ordine  di  Pio  VI  ;  ed  il  continuatore  dice  di  presentarli  tradùtti 
JedeUnente  nel  nostro  idioma. 

Circéa  marina  chiama  il  poeta  quella  ^arte  del  mar  Tirreno,  di  cai 
dice  Virgilio  (Lib.  VII,  t.  io):  Proxima  Circaee  raduntur  litara  ter" 
ra*  Omero  {Odiss,  lib.  X,  y.  i35  e  segg.)  fa  che  Circe  abiti  in  un'i- 
sola da  lui  detta  Eeaj  ma  si  pretende  che  questa  siasi  riunita  al  con- 
tinente, poiché  più  non  ne  apparisce  vestigio.  (V.  Fet.  LaLj  T.  Il , 
pag.  a43;  ed  il  dottissimo  Heyne,  Excurs.  l  ad  lib.  V  JRneid.) 

Ivi. 

^  Pomezia,  cioè  pontina^  da  Pomezia  città,  che  ora  chiamasi  Mesa,  la 
quale  diede  il  nome  di  pometina  alla  vasta  pianura  ch'é  circondata  a 
settentrione  dalle  montagne  lepine^  e  si  stende  fino  al  mare  toscano 
ed  al  monte  Circeo  (detto  ora  Circello).  Questa  pianura  coti' andare 
del  tempo  fu  detta  per  sincope  pomtina,  pontina.  Le  montagne  lepine 
s'innalzano  fra  Sezze  (già  Setia)  e  Segni  {Signìa).  La  palude  incomin- 
ciava un  tempo  dal  Circeo,  ed   occupava   il   terreno  verso    il   mare 


DELLA    FERONIADE  Siy 

fino  ad  Anzio,  stendendosi  anche  sopra  Pomexia  e  parte  del  territorio 
di  Sezze.  Di  poi  si  allargò  sopra  uno  spazio  assai  maggiore. 

Pag.  454. 

6  Cariente  fu  moglie  di  Pico  antichissimo  re  del  Lazio,  e  famosa  per 
la  rara  leggiadria  del  suo  cantare.  Pomona  era  una  Niufa  studiosis- 
sima della  coltura  de* giardini.  I  Latini  ne  fecero  due  Dee,  e  tributa- 
rono  loro  un  culto  particolare.  Havvi  chi  fa  di  Canente  e  di  Pomona 
una  cosa  sola.  (V.  Ovidio  nel  lib.  XIV  delle  Metamorfosi _,  ed  il  f^etut 
Latium  T.  II,  pag.  346-347-) 

Ivi. 

7  II  poeta  imita  que' versi  di  Catullo  (Carm,  LX1I  v.  39), 

Ut  flos  in  Mptif  tecretns  nucitur  hortis, 
Ignotuf  pecori,  nuUo  codUwiì  uratxot 
Quem  mulcenl  aura,  firoMi  aol,  educai  imber  : 
Molti  iDum  poeri,  multa  optavere  puellie. 

Versi  già  imitati  dal  gran  Lodovico   nella   comparazione  della   vergi- 
nella  alla  rosa. 

Pag.  455. 

8  Le  sponde  del  lago  Lucrino,  in  vicinanza  del  golfo  di  Baia,  erano 
spesso  battute  e  soverchiate  dalle  onde  del  mare  ,  che  con  grandia« 
simo  impeto  vi  si  riversavano.  Il  perchè  Giulio  Cesare,  o  come  altri 
Tuole,  Augusto,  collo  scopo  di  salvare  dalla  dispersione  il  pesce  di  cui 
abbondava  quel  lago,  fece  alzare  un  molo  contro  al  quale  venivano  a 
rompersi  romorosamente  i  flutti  del  mare  senza  potersi  mescere  alle 
acque  del  Lucrino,  né  intorbidarle.  Di  ciò  canta  Virgilio  ne'  seguenti 
versi  della  Georgica  (lib.  II,  v.  161): 

An  memorem  portai,  Lucrìnoqu«  addita  dauttra^ 
Atque  indignatum  magnis  strìdonbus  cquor  , 
Julia  qua  Pooto  looge  sonat  unda  refuso,  ec. 

A  questo  passo  allude  il  poeta.  Anche  Orazio  fa  più   volte    menzione 
del  lago  Lucrino. 

Ivi. 

9  Le  rose  di  Pesto ^  paese  della  Terra  di  Lavoro  nel  regno  di  Napoli, 
sono  andate  in  proverbio.  Di  quelle  di  PrenestCj  città  nel  Lazio,  ora 
Palestnna,  scrìve  Plinio  (Hist.  Nat,  lib.  XXI,  cap.  4)  ch'erano  state 
fatte  celeberrime  da' Romani,  e  ch'erano  l'ultime  a  cessar  di  fiorire. 
Ovidio  nel  XV  delle  Metamorfosi,  Properzio  nella  quinta  Elegia  del 
Lib.  IV,  Claudiano  nelle  Nozze  di  Onorio  e  Maria ^  fanno  l'elogio  di 
queste  rose.  Virgilio  nel  quarto  della  Georgica  (v.  1 1  <j)  vorrebbe  a- 
vere  spazio  di  cantare  i  rosai  di  Pesto  due  toUc  Ferondo:  canerem, 
biferique  rosaria  Pasti.  Marziale  poi  (Lib.  IX,  ep>gr.  61),  inviando  una 
corona  al  suo  amico  Sabino,  enumera  le  rose  che  più  erano  in  pregio 
fra'  Aomani  : 

Seu  tu  Pastanis  genita  es,  seu  Tiburis  arvit, 
S«u  rubuit  tellus  Tusoila  flore  tuo  : 

Mosti.  Poemetti.  53 


5ld  NOTB    AL    CÀUTO   PRIMO 

Seu  Pneoesttiio  t«  ▼iOict  kgit  ia  Umto^ 
Sai  modo  Canpttii  gloria  mrii 


Anche  in  più  altri  luoghi  egli  celebra  le  rote  di  Preneste. 

Pao.    455. 

•o  La  circoaUnsa  qui  toccaU  dal  poeU  é  registraU  da  Ateneo  nel  K- 
bro  XV  de'  suoi  Dipnosofisti,  nel  modo  seguente  :  De  Lychnide  loquens 
Amerioi  Macedo  in  HixatoaUco^  aiti  u  ex  aqua  naiam esse  in  qua  yenus 
lai^it  pottquam  cum  Falcano  concuòuitteL  Optimam  autem  gigni  in  Cy^ 
prò  et  lemno^  item  m  Strongyie^  Erice  et  CyAerit  »,V\\ii\o  h  menzione 
di  questo  fiore  nel  libro  XXI^  cap.  4,  della  Storia  Naturale. 

Iti. 

Il  Vamaraco^  che  ora  chiamasi  perea  o  im^ipbranaj  col  quale  gli  an- 
tichi componevano  V  unguento  detto  amaracinOs  tenuto  in  grandissimo 
pregio  (Plin.  Hitu  NaU  lib.  XII^  cap.  4),  era  singolarmente  caro  a  Venere, 
non  solamente  per  essere  a  lei  dedicati  tutti  i  profumi^  ma  ancora  perché 
questo  aveva  la  facoltà  di  volgere  in  fuga  l'animale  uccisore  di  Ado* 
ne.  Jmaracinumjugiiattusj  scrìve  Lucrezio  {De  Ber,  Nat.  lib.  VIj  v.  973)1 
11  boschetto  d^  Idalia  era  tutto  seminato  ed  olezzante  di  amaraco  ;  ed 
ivi  la  Dea  nasconde  Ascanio,  quando  vuol  condurre  Cupido  sotto  1^ 
lua  sembianza  nelle  braccia  di  Didone:  (Virg.  ^n.  lib.  1^  v.  693). 

....    et  fotiim  gremio  Dea  toUit  in  altoi 
IcblÙB  laeos,  olii  moUis  amiracnt  fliam 
Florìbiis,  et  dolci  adipinDs  complectitur  ombn^. 

Pao.  456. 
**  La  descrizione  del  ioto^  qui  accennato  dal  poeta^  può  vedersi  in 
Plinio  (UisL  Nat,  Uh.  XIIL  cap*  17)»  il  quale  ne  fa  sapere  ch'esso  sorgo 
nell'  Egitto  allorché  si  ritirano  le  acque  del  Nilo.  Il  Sonno  rappresen- 
tasi ordinariamente,  dagli  scultori  e  dai  pittori,  con  questo  fiore  sovr^ 
la  testa. 

Il  medesimo  Plinio  (lib.  XXI^  cap.  i5)  rammenta  la  colocasia^  e  I4 
dice  in  £grpto  nobilissima.  Anche  Vacanto  è  pianticella  egiziana.  Onde 
Servio  pretende  che  Virgilio  abbia  trovata  una  maniera  asaai  gentile 
di  adulare  Aogiuto,  riunendo  in  quel  verso  Mixtaque  ridenti  colocasia 
fundet  acantho  (Ed.  IV^  v.  ao)  y  due  vegetabili  portati  in  Roma  dopo 
cV  egli  ebbe  soggiogato  l' Egitto. 

Ivi. 
>3  L'Autore  con  uno  dei  consueti  anacronismi, di  cui  giovasi  la  poe<^ 
sia ,  trasporta  all'  età  di  Feronia  ciò  che  avvenne  assai  dopo  i  tempi 
della  mitologia.  I  primi  raDuncoli  furono  portati  in  Europa  dai  Cro- 
ciati ne*  secoli  XII  e  XIII,  ma  vi  rimasero  negletti  e  quasi  incogniti. 
La  première  epoque  marquée  de  la  gioire  des  Benoncules  (scrìve  nel 
suo  Trattato  de'  Ranuncoli  il  p.  d'  Ardène)  est  celle  du  règne  de  Ma* 
homet  ly,  Ai^anl  lui  la  Benoncule  négligée  croissoit  par  les  soins  de  ia 
seule  Nature.  Confondue  avec  Vherbe  des  thnmps^  come  elUj  elle  bril" 
hit  le  matii\  et  se  dessèchoil  le  soirj  sans  qu*on  parut  se  soucier  dten 
prolonger  la  durée^  ou  d'en  prevenir  la  destruclion.  Il  Visio  Qara  Hn«> 


DELLA   FERONIADE  SlQ 

sUfk^  quegli  che  nel  i683  minacciò  Vienna  e  t'  ebbe  la  famosa  rolla, 
avendo  iostillato  il  gasto  de'  Bori  nel  soo  sovrano  »  il  sultano  Mao- 
metto IV,  fece  yenire  da  Candia,  da  Cipro 9  da  Rodi»  da  Aleppo,  da 
Damasco  le  radici  ed  i  semi  di  tutte  le  più  belle  varietà  di  ranun- 
coli, che  da  Costantinopoli  insiste  poi  in  varie  parti  d'Europa,  diven- 
nero r  ornamento  de'  giardini  cosi  in  Francia  come  in  Italia.  AUoracbè 
V  Autore  scriveva  in  Roma  la  Feroniade ,  questo  fiore  vi  era  in  gran 
voga,  e  si  coltivava  con  amore  singolarissimo. 

Pao.  456. 
li  I  fiorì  di  Cirene  erano  celebratissimi  per  la  loro  fragranza.  Di  che 
rende  testimonio  Ateneo  nel  lib.  XV  de'  suoi  Dipnosofisti:  «  Le  rose 
(scrive  egli)  che  nascono  presso  Cirene  sono  odorosissime,  onde  colà 
è  pur  molto  soave  l'unguento  rosato;  anche  l'odore  delle  whU  e  de- 
gli altri  fiori  ivi  è  esimio  e  divino  »,  — -  Colle  paUanUo  chiama  il  poeta 
il  Palatino  di  Roma,  ove  gli  Arcadi  seguaci  di  Evandro 

.    .'   .    .    potnen  in  moatibus  nriieoi 
PaOantù  pitMTÌ  de  nomine  Pallanteum. 

Vno.  i»i.  vm,  53-54. 

Per  corruzione  da  PallanUum  si  fece  Paiatinum^  e  da  ultimo  Palo- 
ticim.  Augusto  vi  pose  la  sua  reggia.  Chi  volesse  conoscere  più  ori- 
gini del  nome  pallantéo^  ricorra  a  Servio  nel  commento  al  citato  li- 
bro dell'Eneide,  v.  5i.  Veggasi  anche  Tito  Livio,  lib.  Ij  cap.  5. 

Pag.  457* 

>5  Cemobbio,  villeggiatura,  in  vicinanza  di  Como,  del  sig.  cav.  Carlo 
Londonio,  di  cui  sono  figlie  le  due  ornatissime  giovinette  qui  lodate* 

Ivi. 

*^  Veggasi  l'  Odissea^  lib.  X,  v.  3o3  e  segg. 

Pag.  4^< 

>7  L' uso  della  melagrana  era  interdetto  nelle  feste  di  Cerere  leggi- 
fera,  dette  Tesmqfòrie,  e  ne'  Misteri  Eleusini,  perché  questo  frutto  era 
stato  cagione  che  Cerere  non  avesse  riavuta  sua  figlia  Proserpina  ra- 
pita da  Plutone  ;  che  accordata  la  restituzione  di  lei,  a  patto  che  Del- 
l'Inferno  non  avesse  gustato  cibo,  Ascalafo  appalesò  di  averla  veduta 
inghiottire  alcuni  semi  di  melagrana,  onde  dovette  rimanersi  col  ra* 
pitore.  {y,  Ovidio^  Met,  lib.  V,  v.  509  e  segg.  ;  Fast»  lib.  IV  v.  607; 
Inno  a  Cerere  attribuito  ad  Omero^  v.  373  j  Apollodoro  Biò,  lib.  I.  ) 
Di  qui  l' odio  di  Cerere  per  questa  pianta,  la  quale  per  altro  era  con- 
secrata  a  Giunone  ed  a  Minerva  (V.  lo  Spanhemio  nelle  Osservazioni 
a  Callimaco,  Hjrmn,  in  PalL  v.  a8). 

Ivi. 

18  Del  pomo,  detto  cidonio  da  Odone  città  di  Creta,  ora  chiamato  co» 
togno^  ragiona  Plinio  nel  libro  XV,  cap.  11.  Ed  Ateneo  nel  terzo  de* 
Dipnoio fisti  racconta ,  sulla  fede  di  Filarco,  che  la  cotogna  colla  soa- 
vità del  suo  odore  ha  la  facoltà  di  render  nullo  V  effetto  de'  veleni. 
Gli  antichi  ne  usavano  per  dar  fragranza  al  fiato;  onde  Solone  (al 
dire  di  Plutarco,  PracepU  Connub,)  aveva  ordinato  nelle  sue  leggi  « 


520  NOTE    AL    CAJNTO    PRIMO 

che  gli  sposi  Del  primo  giorno  delle  nozze  mangiassero  di  qaesU  mela 
prima  di  coricarsi,  certamente  per  indicare  che  la  prima  grazia  della 
bocca  e  della  voce  debb' essere  condita  di  ptacerolezza  e  di  soavità. 

Pac.  4^9- 
■9  II  Persico  chiamalo  MaUu  persica,  perchè  crederasi  trasportalo  in 
Italia  dalla  Persia.  Plinio  {HisL  Nat.  lib.XVjcap.  i3)pariadelgnindi»- 
simo  prezzo  che  costarono  t  primi  fratti  di  questo  albero  che  si  vi- 
dero nella  nostra  penisola.  Basti  il  dire  che  vennero  pagati  perfino 
trecento  piccoli  sesterzii  ciascuno.  Il  suo  fratello  detto  d^ armena  sUr- 
pej  è  quello  ch'or  chiamiamo  Meliaco^  e  che  i  Latini  dicevano  Ma^ 
lus  armeniaca  dall'Armenia  donde  ci  è  provenuto. 

Ivi. 

*o  Lucullo,  debellato  Mitridate  re  del  Ponto  ed  atterrata  la  citta  di 
Cerasunte ,  portò  in  Italia  V  albero  che  da  essa  fu  detto  in  latino  Ce- 
rasus,e  che  da  noi  viene  chiamato  Cirìegio.  Così  Plinio,  lib.  XV^cap. 
a5.  Servio  però  nel  comento  al  v.  i8  del  lib.  li  delle  Georgiche 
scrive  che  anche  prima  di  Lucullo  eran  note  in  Italia  le  ciriegie,  se 
non  che  erano  di  una  qualità  più  dura,  e  chiamavansi  Comum,  onde 
poi,  mischiando  i  nomi,  vennero  dette  Cornocerasum,  —  Ateneo  final- 
mente nel  secondo  de' DipnosofisU  (cap.  ii)  riporta  T  autorità  di  Di- 
filo Siphnio  (che  fu  contemporaneo  di  Lisimaco ,  uno  de'  successori 
di  Alessandro),  il  quale  faceva  menzione  delle  ciries^ie  siccome  di  nn 
frutto  sommamente  salubre,  ed  affermava  che  migliori  di  tutte  erano 
quelle  di  Mileto^  ed  in  generale  le  più  rosse. 

Ivi. 

*>  Moltissimi  sono  gli  aggiunti  che  si  danno  ai  fichi  secondo  la  varietà 
de' luoghi  da  cui  provengono,  o  le  differenze  loro  individuali.  Chi  vo- 
glia vederne  le  qualità  e  le  patrie  che  furono  più  note  agli  antichi , 
legga  Plinio,  Hi$u  NaL  Uh.  XV^  cap.  ag;  Macrobio,«Saa<rri.  lib.  Ili,  cap.  ao; 
Ateneo,  Deipn,  lib.  HI,  cap.  a  e  3.  —  Il  fico  calcidico  produce,  secondo 
Plinio,  i  suoi  frutti  fino  tre  volte  l'anno;  e  perciò  dal  poeta  é  qui 
nominato  di  preferenza  siccome  il  principale  della  specie. 

Ivi. 

>*  Cerere  nelle  sue  lunghe  e  penose  peregrinazioni  in  traccia  della  fi- 
glia fu  accolta  ospitalmente  in  un  borgo  dell'Attica,  detto  de'  Lacidi, 
da  un  certo  Fitalo;  al  quale  essa  in  ricompensa  dell'  ospizio  fece  dono 
dell'  albero  del  fico,  le  cui  firutta  prima  erano  note  soltanto  alle  mense 
degli  Dei.  Pausania  ne  ha  tramandata  questa  notizia,  insieme  coli' i- 
scrizione  in  versi,  che  al  suo  tempo  leggevasi  ancora  sulla  tomba  di 
Filalo  {/Ittica^  e.  87  §  a),  ed  era  in  questa  sentenza:  L'eroe  Fitalo  re 
accolse  qui  la  veneranda  Cerere,  allorché  essa  mostrò  il  primo  Jrutto 
fieli*  autunno,  che  i  mortali  chiamano  fico.  Da  quel  tempo  i  discendenti 
di  Fitalo  ottennero  onori  perenni,  —  11  mele,  il  pane  e  i  fichi  dell'Ai* 
tica  sono  delti  da  Antifane,  citato  da  Ateneo,  i  migliori  del  mondo. 

Pag.  4^0. 

>3  Serse,  figlio  di  Dario,  volendo  vendicare  le  sconfitte  che  suo  padre 
aveva  ricevute  dai  Greci,  giurò  che  non  avrebbe  mai  gustato  de'  fichi 


DELLA    FERONUDE  5a  f 

(feir Attica,  che  porta vami  a  vendere  in  Persia  >  finché  non  avcise  in 
suo  potere  la  terra  che  li  produceva  (Plutarco,  jipophteg,),  Temit084{]e 
ed  Aristide  gli  fecero  però  costar  care  le  sue  millanterie  ;  che  egli , 
come  tcrisse  un  nostro  poeta, 

ÀTendo  1* Ato  e  V Ellesponto  domo, 

Se  Tenne  più  che  Dio,  fuggi  men  eh'  uomo, 

e  se  ne  portò  la  voglia  di  possedere  la  terra  che  fruttava  i  fichi  più 
eccellenti  del  mondo. 

Plinio  poi  {HUt.  NaL  lib.  XV,  cap.  18)  racconta  che  Catone  il  cen- 
sore, ardendo  di  odio  nazionale  contra  Cartagine,  cui  ad  ogni  tornata 
del  senato  ripeteva  essere  necessario  distruggere,  presentò  un  giorno 
ai  padri  un  fico  primaticcio  eh'  aveva  portato  seco ,  e  domandò  loro , 
quando  credessero  che  fosse  stato  spiccato  dall'  albero ,  soggiungendo 
che  non  erano  ancora  trascorsi  tre  giorni  da  che  esso  era  stato  còlto 
in  Cartagine  ;  onde  considerassero  quanto  T  inimico  stesse  loro  vicino, 
e  quanto  perciò  dovessero  temere  di  non  vederlo  un  giorno  o  l'altro 
alle  porte  di  Roma.  Quindi  fu  risoluta  la  guerra,  la  quale  non  terminò 
che  colla  distruzione  di  Cartagine;  e  lo  storico  non  può  trattenersi 
dal  fare  le  meraviglie,  che  una  città  così  illustre,  la  quale  per  dugento 
vent'anni  era  stata  emula  della  regina  del  mondo,  sia  caduta  per  l'ar- 
gomento di  un  frutto.  Questo  fatto  è  registrato  anche  da  Plutarco 
nella  vita  di  Catone. 

Pag.  4fio. 

*k  Super /lumina  Bahjrloni$j  iUuc  tedùnus  et  Jleuimusjcum  recordare' 
mar  Sion, 

In  udicibus  in  medio  ejus^  suspendimus  organa  nostra. 

Psalm.  cxxxvi. 
Ivi. 

•^  Il  conte  Giulio  Perticar!  genero  del  poeta* 

Pag.  4^1. 

'6  Media  fert  tristes  saccos,  tardumquc  saporem 

Felicis  mali,  quo  non  pnetentius  ullum, 
Pocula  si  quando  sktsb  infecere  norenm, 
Miscuenmtqne  herbas  et  non  innoxia  Teriia, 
Auxilium  venit,  ac  membrìs  agit  atra  Tcnena. 
Ipsa  ingens  arbos,  fiKiemque  simillima  lauro  ; 
Et,  si  non  alium  late  jactaret  odorem, 
Launu  erat:  folia  hand  ullù  labentia  Tentis; 
Flos  ad  prima  tenaz:  animas  et  olentia  Medi 
Ora  fovent  ilio,  et  lenìbus  medicantnr  anhelis. 
(Vimo.  Georg,  IL  xa6). 

Tutti  i  migliori  commentatori  ravvisano  in  questi  versi  descritto  il  Cedro j 
benché  non  sappiano  assegnare  con  certezza  se  Virgilio  parli  del  cedro 
propriamente  dett05  ovvero  del  limone^  o  dell'arancio.  Basta  però  che 
tutti  questi  frutti  hanno  tra  di  loro  una  grandissima  affinità.  Intorno 
a  ciò  che  ne  sapevano  gli  antichi^  si  consultino,  Teofrasto,  Hist.  Plani, 


5a2  NOTE    AL    CAIVTO  PRIMO 

lib.  IV^  cip.  4  ;  Plinio,  HUt.  NaL  lib.  XII,  ctp.  3;  Ateneo,  Deifm.  liK.  IH, 
cap.  6;  Ifacrobio,  Saium.  lib.  III^  cap.  19. 

Pag.  461. 
^7  Intorno  alle  eircostanae  toccate  dal  poeta,  che  un  cedro  slattato 
quel  pomo  che  la  Discordia  lanciò  in  mezxo  al  convito  de'  Nani,  come 
pure  quell'altro  su  cai  Aconzio  scrisse  la  saa  dichiarazione  d'amore, 
e  quelli  che  Ippomene  lasciò  cadérsi  nella  corsa  per  vìncere  Atalan- 
ta,  yegginsi  gli  scrittori  di  Mitologia.  —  Quanto  all'essere  questa  pianta 
nata  in  cirlo,  è  da  sapersi  che  favoleggiarono  alcuni  che  il  cedro  sU 
stato  da  Giunone  dato  in  dono  a  Giove  nel  giorno  delle  loro  nozxe  : 
comechè  altri  vogliano  eh'  esso  sia  stato  prodotto  dalla  Terra  per  ono- 
rare queste  nozze  medesime.  Esso  passò  di  poi  nel  giardino  delle  fa- 
mose Esperidi  figlie  di  Atlante,  i  coi  nomi  erano  EgU,  AreUisa  ed 
Esperetuxa^  secondo  la  più  comune  sentenza  (che  i  Mitologi  non  vanno 
bene  d' accordo  nell'assegname  il  numero  ed  i  nomi  )  ;  ed  no  immane 
drago,  senza  mai  chiudere  gli  occhi,  ne  custodÌTa  i  frutti.  Dove  que- 
sto giardino  fosse  collocato,  è  incerto;  i  più  vogliono  che  stesse  in 
Ticinanza  dell'Oceano  Atlantico.  Quello  in  cui  tutti  consentono,  si  è 
che  Ercole,  ucciso  il  drago,  portò  ad  Enristeo  quegli  aurei  pomi,  e  fu 
l'undecima  delle  sue  celebri  fatiche.  Vedasi  tutta  questa  mitologia 
svolta  assai  dottamente  da  Ezechiele  Spanhemio  nella  sua  osserva- 
zione al  V.  IT  dell'Inno  di  Callimaco  a  Cerere,  e  dopo  di  lui  dal 
cardinale  Flangini  nelle  osservazioni  al  libro  IV  dell' Argonaotica  d'A- 
pollonio Rodio  (y.  i3g6  del  testo,  e  ai 35  della  yenione  Italiana). 

Pag.  463. 
*S  Evvi  una  tradizione  che  Ercole  abbia  portato  in  Italia  il  primo  ce- 
dro ,  toccala  anche  dal  Pontano  {De  Hort,  Hesp,   Uh.  I  )  ne'  seguenti 
versi: 

I>«Tczit  sÙBul  Hnperìo  de  litore  sylvas, 
Heqwrìdiun  tylvas,  Denon  effolgaitia  et  aura» 
Qoni  poit  Phomiiadain  laltiu,  fngimtia  n^ito 
Lilon  Cajete ,  featetque  onMTit  ei  lioitM 
Virginis  Harmiolie,  ee. 

Anche  i  Greci  credevano  di  avere  ricevuto  il  cedro  da  questo  eroe. 
(V.  Ateneo,  Deipn»  1.  III,  cap.  7). 

Ivi. 

*9  ....    postipiain  Lanrentia  TÌctor, 

Geryooe  extìncto,  Tirynlhiiu  adtigit  arva, 
Tjitheaoqua  bores  in  flumiae  IstU  Ibaraa. 

Viso.  Bn.  VII,  661. 

Ivi. 
3«  Saturno,  fuggendo  dalla  persecuzione  di  Giove  suo  figlio,  si  nascose 
nel  Lazio,  cosi  detto  dall'avere  servito  a  lui  di  latebra  (a  latando)i 
ed  in  premio  del  ricevuto  asilo,  insegnò  a  que'  popoli  V  agricoltura,  e 
sparse  fra  essi  T  abbondanza.  Vuoisi  che  da  lui  sia  stala  piantata  in 
Italia  la  prima  vite  :  onde  il  nome  di  Vitisator^  che  alcuni   comcnta- 


Della  feroniàde  5!i3 

lori  credono  da  Virgilio  riferito  a  Satomo  {jEn.  lib.  VII^t.  179);  ben- 
ché i  più  recenti  crìtici  lo  unboano  a  Sabùuu  del  verso  antecedente  : 

....    paterque  Sabioug 

Vilisatar,  cnnmin  Mirans  inb  ioiagiiM  fidcem, 

SatnrniuqM  teotoi,  ee. 

(V.  Hejne^  ad  h.  L) 

Della  renata  dì  Saturno  in  Italia  parla  Aurelio  Vittore  nell'  Origo 
gentù  Bomaruej  cap.  I. 

Pio.  46a. 

3i  Sezia^  ora  Setze,  riconosceva  Ercole  per  suo  fondatore,  ed  in  essa 
aveano  tempio  Apollo,  Cerere  e  Saturno  (V.  Fet  Lat.  lib.  11^  cap.  i). 
Fu  un  tempo  assai  rinomata  pe'  suoi  vini ,  di  cui  fanno  menzione  Stra- 
bone,  Plinio,  Ateneo,  Giovenale,  Marziale,  Stazio.  Augusto  ed  i  suoi 
successori  ebbero  per  essi  una  costante  predilezione,  perocché  erano 
sommamente  generosi,  non  mandavano  fumo  alla  testa,  e  facilitavano 
la  digestione.  I  più  eccellenti  erano  quelli  che  facevansi  colFuva  della 
collina,  e  solevano  beversi  vecchusimi  :  il  che  raccogliesi  apertamente 
dai  seguenti  versi  di  Giovenale  (Sat.  V,  v.  33): 

Crat  bUwt  Alliflni»  aliquid  de  mooUbus,  aut  de 
Setioii,  cttjus  patrÌAm  tituliunque  senectiu 
Delevit  multa  vetens  fìilifine  test». 

Ora  hanno  perduto  l'antica  bontà. 

Pag.  463. 

3*  Gli  £J§[ipani  sono  divinità  montane  e  boscherecce,  con  corna  e  gambe 
caprigne.  Questo  nome  fu  dato  talvolta  allo  stesso  Pane.  Il  primo 
Egipane  però  nacque  di  Pane  e  della  ninfa  Ega  ,  che  in  greco  vale 
capra.  —  La  corona  di  foglie  di  pino  era  propria  di  queste  Divinità 
delle  selve  e  de'  monti.  Ovidio  {MeL  lib.  XIV,  v.  638)  :  pinu  pnecincti 
comua  Panes.  Vedasi  lo  stesso  Ovidio  altrove  passim ^  e  Properzio, 
lib.  I,  eleg.  XVIII,  v.  30,  ec.  ec. 

Ivi. 

3311  poeta  prende  queste  immagini  da  Virgilio,  Egl.  io,  v.  a4  o^gg» 

Venit  et  i^retti  capitic  Sjl?anns  boDore, 
Florentec  feralu  et  gnadia  Ulia  qnaimit. 
Paa  Deoi  Arcadia  Tcnit  :  qnem  YÌdimm  ipu 
Sanguineis  ebali  baocù  minioqae  mbentem. 

L'ebulo,  detto  anche  ebbio  in  italiano,  é  un  frutice  che  somiglia  al 
sambuco  nella  forma  e  nelle  bacche  che  produce,  ma  non  cresce  alla 
medesima  altezza.  1a  ferula  è  un  frutice  anch'essa,  che  ha  le  foglie 
come  il  finocchio  ed  il  gambo  somigliante  alla  canna,  il  fiore  ritrae  di 
quello  dell'aneto.  V.  l'Emmenessio  e  l'Heyne  ne' Cementi  a  Virgilio. 

Ivi. 

34  Qui  pure  é  imitato  Virgilio  {JEn.  lib.  VII,  v.  io). 

Proiima  CiroNB  radimtiir  litora  terra  : 


5^4  NOTE    AL  CANTO  PRÌMO 

Dfives  inacccssos  ubi  Scilis  fiUa  luoos 
Assiduo  resooat  canta,  tectisque  safohu 
Urit  odoratam  noctuna  in  lumina  cedroni, 
Arguto  tenues  percunens  pectine  telas,  ec. 

Gli  abitatori  dei  monte  Circeo  credevano  ch'ÌTÌ  fosse  stato  piantalo 
il  primo  cedro,  e  che  questo  albero  avesse  poi  somministrato  a  Circe 
le  legna  per  ardere,  di  cui  parla  Virgilio  (V.  Corradini,  FeU  Latium^ 
T.  II,  pag.  255),  e  che  Omero  nel  V  dell'Odissea  (v.  60)  dice  che  ab- 
bruciava sui  focolari  di  Cai  ipso.  Ben  è  vero  che  questo  cedrus^  che 
serviva  a  far  fuoco,  ed  era  tenuto  in  gran  conto  pel  grato  odore  che 
spandeva  abbruciando,  non  è  una  cosa  medesima  col  citrus  o  ciiriiu, 
cioè  colla  pianta  che  produce  il  Malum  metUcum^  essendo  piuttosto, 
secondo  l'osservazione  dell' Heyne  {ad  Firg.  1.  e.  e  Georg,  lib.  II, 
V.  44^)>  "°^  specie  di  ginepro  detta  anche  Oxycedrus,  diversa  pur  essa 
dai  famosi  cedri  del  Libano»  che  sono  del  genere  degli  abeti.  Ma  chi 
vieta  r  immaginare  che  intorno  all'abitazione  di  Circe  non  vi  avesse 
anche  un  boschetto  della  felice  pianta  de'  Medi  ? 

Pag.  464. 

y^  Della  venuta  de'  Pelasghi  in  Italia  e  della  loro  unione  cogli  Abori- 
geni abitatori  del  Lazio  parla  Dionigi  d'Alicamasso  nelle  Antichità 
Romane  (Lib.  II,  cap.  1).  Essi  portarono  la  loro  religione  nella  nuova 
patria;  e  cosi  può  dirsi  che  gli  Dei  della  Grecia  siano  trasmigrati  nel 
Lazio.  I  lettori  poi  potranno  consultare  con  piacere  un  passo  dell'al- 
legato storico ,  ov'  egli  osserva  come  Romolo,  prendendo  dai  Greci  gli 
Dei  ed  i  riti  del  loro  culto,  gli  spogliasse  di  quanto  in  essi  trovavasi 
di  più  irragionevole,  e  li  rendesse  alquanto  più  degni  dell'alta  idea 
che  gli  uomini  dovevano  averne  (A.  JR,  lib.  Il,  cap.  18). 

Ivi. 

36  Di  qui  la  denominazione  di  Ansuroj  perocché  vogliono  che  coai 
fosse  chiamato  Giove  da  avtv  (sine)  e  ^u^où  (nowacula),  cioè  dal  non 
aver  usato  rasoio^  il  che  può  equivalere  ad  imberbe.  Sotto  questo  no- 
me egli  era  adorato  in  Terracina,  come  marito  di  Feronia.  Veggasi 
Servio  al  v.  799 ,  lib.  VII  dell'Eneide. 

Ivi. 

3?  Tutto  ciò  è  detto  ad  imitazione  di  Omero,  iZiVu£e,  lib.  XI V,  ▼•34? 
e  segg. 

Ivi. 

36  Tutti  segnali  di  tristo  augurio  ;  poiché  (al  dire  di  Servio,  al  lib«  IV, 
Y.  166  dell'  Eneide)  nulla  vi  avea,  secondo  la  dottrina  degli  Etruschi, 
di  più  infausto  nelle  nozze,  che  il  turbamento  dell'  aria  e  della  terra. 
Dicasi  altrettanto  dell'ululare  delle  Ninfe,  in  vece  delle  giulive  can- 
zoni nuziali.  Cosi  nelle  infelici  nozze  di  Enea  con  Didone  (Virg.  « 
£ru  1.  e.  )  : 

....    Prima  et  Tellus  et  pronuba  Juno 
Dant  signa  :  fulscre  ignes,  et  consdus  «ther 
Connubits;  lununoque  ululanmt  vertice  Nynphat. 


bELLà    r£RONlADÈ  5^5 

Pag.  464. 
^d  II  Fato  era  yrraioente  la  suprema  divìoità  degli  antichi,  la  legge 
immatabile  a  cui  gli  Dei  medesiiiii  soggiacevano.  Quindi  Giove,  il 
padre  degli  Dei  e  degli  uomini,  quegli  che  moveva  ogni  cosa  col  moto 
del  suo  sopracciglio,  non  poteva  cambiare  pur  una  sillaba  di  ciò  che 
stava  ne'  Fati;  e  lo  confessa  egli  stesso  in  Ovidio  {MeU  lib.  IX^  f.  43B): 
jlfe  quoque  fata  regunt.  Egli  conosceva  bensì  quello  che  i  Fati  spesse 
volte  tenevano  celato  a  tutti  gli  altri  Dei:  quindi  cosi  parla  a  Venere 

nel  primo  dell'  Eneide,  v.  a65  : 

« 
....    fiibor  enim,  qusbdo  hcc   te  cura  remordet; 

Longiuf  et  Tolvent  fatonun  arcana  movdx). 

Ed  era  pure  in  certa  maniera  l'esecutore  di  ciò  che  il  Fato  aveva 
stabilito.  Neil'  Iliade  (lib.  Vili ,  v.  69)  mette  sulle  bilance  due  morti' 
feri  fati,  quello  dei  Greci  e  quello  de'  Troiani  ;  e  solamente  quando 
vede  quale  dei  due  trabocchi,  lancia  nel  campo  de' Greci  il  fulmine, 
che  vi  sparge  lo  spavento  e  la  fuga.  Lo  stesso  sperimento  ei  fa  prima 
di  abbandonare  alla  morte  Ettore  inseguito  da  Achille  (lib.  XXII^ 
V.  209  )k 

Pac.  465. 

^*  Veggasi  la  nota  prima» 

Ivi. 

4t  Dionigi  d'Alicamasso  ne  ha  conservati  questi  nomi,  co'quali  veniva 
appellata  Feronia  (AnU  Bom,  lib.  Ili,  cap.  33).  —  Antefora  è  quanto  dire 
Fiorifera,  ossia  Portatrice  de* fiori,  ^-  Filostefana  vale  Amante  delle  co* 
rone,  -*  Persefotte  é  in  greco  lo  stesso  che  il  latino  Proserpina,  ^-  Gli 
abitanti  del  Lazio  offerivano  nel  suo  tempio  le  primizie  de'  frutti  ;  ed 
i  servi  che  venivano  manomessi  ricevevano  in  esso  il  pileo  della  li- 
bertà. Servio  {ad  ASn.  lib.  Vili,  v.  564)  scrive  che  nel  tempio  mede» 
Simo  vi  avea  un  sedile  sul  quale  era  incisa  la  seguente  iscrizione  :  bb- 
VEMCRiTi  SBRVi  sEDEANT ,  suRGAHT  LIBERI.  Di  qui  Fcrouia  fu  chiamata  e* 
ziandio  Dea  de' Liberti:  onde  abbiamo  da  Tito  Livio  (lib.  XXII^  cap.  i) 
che  le  donne  liberte,  quando  Roma  era  minacciata  da  infausti  prodigi, 
sovrastandole  Annibale,  misero  insieme,  secondo  la  loro  facoltà ,  una 
somma  di  danaro  da  offerirsi  a  Feronia  :  e  secondo  Varrone,  allegato 
da  Servio  (1.  e),  il  nome  istesso  di  questa  Dea  significherebbe  liber- 
tà: Libertalem  Deam  dicit  Feroniam  (sono  parole  del  commentatoré^di 
Virgilio),  quasi  Fidoniam, 

Ivi. 

4>I  Romani  dividevano  tutte  le  loro  Divinità  in  due  classi:  la  prima 
degli  Dei  maggiori,  detti  ancora  Dii  majorum  gentium,  nella  quale  en- 
travano i  dodici  Consenti,  o  vuoisi  dire  Consulenti,  passati  a  rassegna 
da  Ennio  ne'  due  seguenti  versi  : 

Juno,  VesU,  Cerea,  Diana,  Minerva,  Venos,  Mars, 
Mercurìiu,  Jovi',  Neptuniu,  Volcaniu,  Apollo, 

e  gli  altri  che,  quantunque  non  accolti  nel  concilio  de'  dodici ,  gode- 


jia6  NOT£    AL   CANTO   PRIMO 

vano  però  anch'essi  della  pienexia  della  dÌTÌnitk  e  diceTaiin  Sdecd, 
siccome  Bacco,  Saturno,  Giano,  ec.  L'  altra  classe  era  qaella  degli 
Dei  minori,  ossia  Dii  minorwn  gentium  j  e  conpreDdeva  i  Semidei , 
come  £ycoU,  Quirino,  Etcuiapio,  e  simili»  oltre  una  gnu  plebe  di  Numi 
campestri»  silvestri»  montani  e  di  tutte  le  fatte^  che  sarebbe  impossi* 
bile  r  annoverare  nella  brevità  di  una  nota  : 

....    delira,  bevaqoe  decMmin 
Atrà  BobOiaiii  vilris  celefanDtiir  apertiiw 
Plebs  habitat  dÌTena  locit. 

OnD.  ÉièL  I,  171  e  a^g. 

Pag.  465. 

43  Pretendevasi  che  il  culto  di  Bacco  fosse  stato  portato  nel  Lazio  da- 
gli Arcadi.  Questo  Dio  ebbe  tempio  e  sagrìficii  nel  luogo  detto  Fo» 
rum  Appii  nel  territorio  di  Sezze  (V.  yttus  Latium,  lib.  l,  cap.  iS,  e 
lib.  II»  cap.  i3.) 

Ivi. 

44  Anche  il  eulto  di  Cerere  era  stato  portato  dagli  Arcadi  nel  Lazio  e 
ne'  paesi  circonvicini»  ove  quella  Dea  fu  poi  sempre  grandemente  ono- 
rata (V.  yetus  Latium,  lib.  I^  cap.  16  e  cap.  ao).  L'invenzione  delle 
leggi  venne  attribuita  a  questa  Dea,  del  pari  che  il  ritrovamento  delle 
biade»  per  la  ragione  che  ben  fu  avrisata  da  Servio  (ad  Mn,  lib.  IV^ 
T«  58).  Trovato  1'  uso  del  frumento  »  nacquero  i  diritti  insieme  colla 
distribuzione  dei  terreni;  che  certamente  alcuno  non  yorrebbe  indursi 
a  coltivare  un  campo  ed  a  seminarlo»  quando  un  altro  più  gagliardo 
di  lui  potesse  venire  a  raccogliere  ed  a  godersi  il  frutto  delle  sue  li- 
tiche ;  quindi  prima  (  al  dire  del  citato  grammatico  )  gli  nomini  vaga- 
vano qua  e  là  senza  legge  a  modo  di  Sere.  E  di  qui  renne  dato  a 
Cerere  il  nome  di  legifera,  che  può  vedersi  in  alcune  iscrizioni»  in 
Callimaco  (H/mn,  in  Cer,  y.  ig)»  in  Virgilio  (1.  e.)»  in  Ovidio  (Jifet. 
lib.  V»  e.  343).  In  onore  di  lei  si  celebravano  le  Tesmofòrie  (che  in 
latino  vale  legum  latto),  e  nel  suo  tempio  si  conservavano  (Serv.  1.  e) 
le  leggi  scritte  in  bronzo.  A  lei  erano  sacri  i  famosi  Misteru  deusini,  di  coi 
fanno  splendidi  elogi  Isocrate  nel  Panegirico,  e  Cicerone  nel  secondo 
deUe  Leggi»  Veggasi  lo  Spanhemio  nelle  Osservazioni  all'Inno  di  Cal- 
limaco sopraccitato. 

Ivi. 

45  Era  fama  che  Oreste  ed  Ifigenia,  fuggendo  dalla  Tauride»  avessero 
trasportato  in  questi  luoghi  il  simulacro  di  Diana»  chiuso  in  un  fascio 
di  legne»  onde  essa  fu  detta  Fascelis.  Veggasi  Igino»  Fav.  a6i;  Solino, 
cap.  8;  Servio»  ad  JEn,  lib.  II»  ▼.  1 16. 

Pac*  4^* 

46  Perocché  Diana  era  figlia  di  una  Dea  perseguitata  da  Giunone  »  come 
Feronia. 

Ivi. 
^7  Intorno  al  numero  delle  città  che  sorgevano  nel  territorio  poniino, 
leggasi  il  Corradini  nel  yetu»  Latium,  lib.  l\,  cap.  16. 


bfiLLA  PfeRONUDte  £^7 

Pao.  469. 
k^Lk  favola  eli  Callisto  leggesi  in  Oyìòio,  Metamor/asi^Wh.  Il,  y.  476 
t  tegg.y  e  /Vwfi,  lib.  II,  v.  i55  e  negg.  —  Gianone  piena  di  mal  talento 
contro  quella  Ninfa  violata  da  Giove,  non  ebbe  riguardo  di  porle  le 
mani  addotto: 
• 

Dùft  I  et  advem  prentis  a  fronte  capiUit, 
StnTÌt  bikini  proonm. 

Pao.  470* 

4$  Timi  gemini  fratm  Tikurtià  mcenia  lÙMjttiinU 

]f  ntris  Tibufti  dictam  cognomine  geotem, 
Catìllusqae,  aeerque  G>Faf. 

Vho.  JEm,  \lh  670. 

Questo  Cora  non  vuoisi  cbe  sia  stato  il  primo  fondatore  della  città 
(li  Coroj  detta  al  presente  Corij  ma  si  veramente  che,  avendola  ri- 
fabbricata, le  abbia  imposto  il  suo  nome.  (V.  Volpi,  f^et,  LaL  T.  IV^ 
pag.  133  e  segi^.)  Di  lui  scrive  Servio,  comentando  i  versi  di  Virgilio 
sopra  citati  :  Coratj  a  cujus  nomine  ett  cwùas  in  ItaUtu 

Ivi. 

So  La  favola  d'Ippolito,  richiamato  in  vita  per  favore  di  Diana  e  per 
opera  di  Escolapio,  e  nascosto  dalla  Dea  sua  protettrice  nel  bosco  dì 
egeria  sotto  nome  di  Virbio,  è  narrata  diffusamente  da  Virgilio  nel 
settimo  dell'Eneide,  v.  765  e  segg.,  e  da  Ovidio,  MeL  lib.  XV,  y.  497»^^. 
Leggasi  anche  Servio  al  luogo  citato  dell'  Eneide. 

Ivi. 

S>Sono  questi  i  fiumi  principali  del  territorio  Pontino.  L'CJ^/tte  sca- 
turisce alle  radici  del  monte  di  Sezze. 

L' Astufa  scorre  nel  territorio  di  Anzio ,  presso  una  borgata  dello 
stesso  nome,  nelle  cui  vicinanze  fu  morto  Cicerone.  In  tempi  meno 
remoti,  presso  alle  sue  rive  seguì  la  presa  di  Corradino,  ch'era  venuto 
di  Germania  per  pigliar  possesso  del  regno  di  Sicilia;  ma  sconfitto 
nella  battaglia  di  Tagliacozzo,  fuggivasi  sconosciuto. 

Il  Ninfio^  ora  detto  Storace,  scaturisce  ne'  monti  di  Norba  da  un 
lago  dello  stesso  nome,  presso  al  quale  eravi  un  tempio  assai  celebre 
dedicato  alle  Ninfe  Driadi.  w  Questo  fiume  (scrive  il  Volpi,  Krt.  LaL 
H  T.  III,  pag.  335)  era  assai  venerato  dai  Norbani  a  cagione  d^  un  prò- 
n  digio  riferito  da  Plinio  {HitU  Nat,  lib.  II,  e.  94  «95).  Egli  dice  vedersi 
M  ancora ,  che  presso  le  radici  del  monte  di  Norba  nel  lago  Ninfeo  vi 
99  sono  state  certe  ìsolette  dette  Saltuaresj  dal  moversi  a  tempo  sotto  i 
n  piedi  di  chi  vi  danzava  al  suono  di  musicali  concerti.  Qui  i  sacerdoti 
n  delle  Ninfe  avevano  un  sacello  entro  il  quale  libavano  ad  ewe,  innanzi 
»  di  mostrare  al  forestieri  nn  cosi  gran  prodigio  ». 

VJmaseno  scorre  presso  Priveme,  ora  Pipemo^  e  Virgilio  ne  fa 
menzione  nell'nndecimo  dell'Eneide,  y.  547* 

Ecce,  fuga  medio,  nimmis  Amatentu  abundani 
SpnmaLaC  ripis. 


528  NOTE  AL    CA5TO  VKfUO 

Pac.  47^- 

&•  ....    '••^'^iAi,  NoUu  erolat  alo,  re. 

Utqae  mano  laU  pendentia  nobfla  pressit, 
Fil  firagor  ;  bine  densi  fiindnnliir  ab  artbav 

Oni>.  Met.  l,  364  e  segg- 

Pag.  473. 

>3  Trapunzio  città  nellt  palude  Pontint  sulla  via  Appia.  —  Longula 
fra  il  monte  Circeo  e  Sezze  nella  palude  medesima.  —  Polusca  yicina 
a  Longula. 

Mucamùe  tra  Anzio  e  Longnla.  —  Vlubra  tra  Velletri  e  Pomezia: 
in  essa  fu  educato  Augusto.  —  Sairico  tra  Anzio  e  Velletri.  Areavi 
nn  tempio  dagli  Arcadi  Tenuti  in  Italia  con  Evandro  dedicato  alla  Dea 
Matuta.  Essa  era  la  stessa  che  l'  Aurora,  ed  in  suo  onore  si  facerano 
i  giuochi  detti  Matralia,  Presiedeva  al  maturare  delle  biade,  ed  era 
tenuta  in  particolar  venerazione  dalle  donne.  Era  pure  nna  cosa  me- 
desima colla  greca  Ino,  moglie  d'Atamante.  Tutta  la  sua  favola  può 
vedersi  nel  sesto  de' Fasti  Ovidiani,  dal  v.  473  ^  56a. 

Ivi. 

54  Pomezia^  situata  nel  luogo  eh'  ora  dicesi  Me$a,  chiamavasi  anche 
SuesM  Pomezia,  e  fu  città  ricchissima  fino  al  tempo  dell'ultimo  Tar- 
quinio.  Di  ciò  fanno  fede  Dionigi  d' Alicamasso,  Tito  Livio,  Lucio  Flo- 
ro, Aurelio  Vittore,  Eutropio.  Cicerone ,  parlando  di  essa  ne'  Fram- 
menti de  Republica,  trovati  da  monsignor  Hai,  cosi  si  esprìme:  lUi 
infusto  domino  (Tarquinio)  aliquandiu  in  rebus  gerundis  prospere  /òr» 
tana  comitata  est.  Neon  et  omne  Laiium  bello  devicit,  et  Suessam  Po» 
metiam  urbem  opulentam  refèrtamque  cepàj  et  maxima  auri  argentique 
prceda  locupletatus  t^otum  patrie  Capitolìi  eed^catione  persoU^iL 

Pac.  474* 

^^  Campi  Barbarici,  cosi  chiamavasi  una  vasta  pianura  intomo  a  Re- 
geta,  luogo  vicino  airUfente,  celebre  per  la  sconfitta  che  vi  ebbero  i 
Galli  dai  Romani  sotto  il  console  Furio  Camillo,  e  pel  duello  che  Mar- 
co Valerio  tribuno  militare  sostenne  con  un  capitano  di  quella  na- 
zione, da  lui  vinto  col  soccorso  di  un  corvo,  onde  gli  venne  il  so- 
prannome di  Corvino  (Vedi  Livio,  Valerio  Massimo;  ed  Aulo  Gellio, 
yoct,  Aiu  lib.  IX,  cap.  II).  I  Goti  nell'anno  536  dopo  G.  C.  diedero 
anch'  essi  fama  a  questi  campi  per  V  elezione  che  vi  fecero  di  Vitige 
in  loro  re. 

Aitsona  città  poco  lontana  dal  monte  Circeo,  fabbricata  da  Ausone 
figliuolo  di  Ulisse. 

Jurunca  città  tra  l'Ufente  ed  il  monte  Circeo,  Dionigi  d'Alicar- 
nasso,  parlando  della  venuta  de'  Pelasgi  in  Italia,  narra  (Anu  Rom,  lib.  I), 
che  avendo  questi  occupata  uua  parte  riguardevole  della  Campania, 
costrinsero  gli  Aurunci,  che  ivi  abitavano,  a  mutar  paese  :  dal  che  Giu- 
seppe Scaligero,  nelle  sue  Note  a  Festo ,  deduce  che  sia  venuto  il 
nome  di  Aurunci,  quod  a  sedibus  suis  ai^ulsi  esserti;  perocché  gli  anti- 
chi Latini  usarono  indistintamente  awerruncare  ed  auruncareipet  aveU 


DELLA  FERONUDE  5^9 

lere.  All' antichità  degli  Aurunci  allude  Virgilio  ove  dice  nel  settimo 
dell'Eneide  (v.  797):  Aurunci  misere  patres}  luogo  avuto  di  mira  dal 
nostro  poeta,  e  sul  quale  è  da  leggersi  un  bel  comento  del  dotto  La 
Gerda. 

Per  tutto  quello  che  riguarda  le  città  ed  i  popoli  qui  nominati^  pò  • 
Iranno  leggersi  il  Corradioi  ed  il  Volpi,  seguUi  dal  porta^  e  non  sarà 
da  trascurarsi  l'opera  del  Nicolai,  nella  quale  dallo  Spedalieri  sono 
richiamate  ad  esame  alcune  opinioni  di  quegli  eruditi  che  l' avevano 
preceduto. 

Pag.  474* 
S6  O  Diva,  gntam  qua  regis  Antioin, 

cantava  Orazio  (lib.  I,  od.  35) ,  alludendo  al  famoso  tempio  della  For'> 
tunaj,  che  sorgeva  in  questa  città.  Ma  ve  n'avea  pur  un  altro  dedi- 
cato a  Nettuno  j  ed  un  tcrzo^  di  cui  volevasi  fondatore  Ascanio  figlio 
di  Enea,  sacro  a  tenere  A/rodile.  E  la  città  stessa  di  Anzio  venne 
detta  Afrodisia  dal  culto  di  questa  Dea.  Veggasi  il  yetus  Latium  in 
più  luoghi ,  e  particolarmente  nel  capo  IV  del  libro  I V  -  (  T.  Ili  , 
P«g-  59). 


NOTE  AL  CANTO  SECONDO 
DELLA  FERONUDE 


Pao.  47(5. 
I  I  Vokci  Unto  di  qoa  quanto  di  la  dall' Ufente,  e  yeivo  il  mare, 
poMcderano  Anxio,  Circello,  Aniuro  (poi  Terracina),  Ecelra,  Velletrì, 
Suessa  Pomezia  (che,  tiooome  abbiam  detto  nelle  Note  al  Canto  an- 
tecedente, diede  il  nome  all'agro  ed  alle  paludi  Pontine),  Longula, 
Polusca,  Corioli}  Cenone,  Segni,  Aliena,  Satrìco,  Fabraterìa,  Piperno, 
Fregella,  Arpino,  Sora.  V.  il  fiatili  Latium  delCorradini,  lib.1,  cap.^; 
e  I*  opera  del  Nioobj  De'  bonifkamend  delle  terre  pontine,  ec.,  lib.  I , 
cap.  4, 

Ivi. 

*  ....  Me  ne  ineeplo  desiston  TÌetun,  ec 

Tuo.  iEff.  1,  37. 

Pag.  477* 

3  V.  Ovidio  {Meu  lib.  VII,  y.  5a4  «  scgg.)  nella  descrisione  della 
peste  che  per  opera  di  Giunone  desolò  l'isola  Enopia,  a  cui  Eaco 
diede  in  onore  di  sua  madre  il  nome  di  Egina  ;  e  {Ih.  lib.  IV,  r.  Ì20 
e  segg.)  dove  narra  la  favola  di  Atamante  ed  Ino. 

Ivi. 

4  Servio  (ad  JEn,  lib.  VII,  y.  3o4  e  segg.)  attribuisce  V  odio  di  Uarte 
contro  ai  Lapiti  all'avere  il  loro  re  Piritoo  invitati  tutti  gli  Dei,  tranne 
lui  solo,  alle  sue  nozze  con  Ippodamia.  E  la  conseguenza  si  fu,  che  i 
Centauri,  presi  da  furore  nel  più  bello  della  festa ,  si  azzuffarono  co' 
Lapiti,  e  ne  avvenne  quella  strage  miseranda  eh' è  descrìtta  da  Ovi- 
dio nelle  Metamorfosi,  lib.  XII,  y.  aio  e  segg.  —  Diana  venne  in  ira 
contro  i  Calidonii,  perchè  il  loro  re  Eneo  erasi  dimenticato  di  essa 
nell'  offrire  sagrìficii  a  tutti  gli  Dei.  Di  qui  il  famoso  cignale  che  de- 
vastava quelle  terre,  e  la  caccia  in  cui  fu  preso,  e  la  contesa  sul  di- 
viderne la  spoglia,  onde  finalmente  Calidone  cadde  in  potere  de'Plea- 
ronii.  V.  Omero  lUadt  IX,  y.  Sag  e  segg  ;  Apollodoro,  lib.  I  ;  Ovidio, 
MeU  lib.  Vili,  y.  372,  ec 

Ivi. 

5  Ast  ego ,  qme  dÌTuin  incedo  regina ,  Jorìsque 
Et  coror  et  ooojux,  ec. 

ViBO.  £n,  I,  46. 

Pag.  Ivi. 
^  Qotppe  Tetor  fatii  1 

V»G.  Ih,  39. 


MOTB  AL   CANl'O  SECONDO   DEIXÀ  PERONIADE  53  i 

Pao.  477» 
'  Accenna  il  poeta  rasciugamento  delle  paludi  Pontine  tentato  più 
volte  dai  Romani  ai  tempi  della  repubblica  e  dell'  impero,  poi  da  Teo- 
dorico ostrogoto  re  dMtalia^  indi  da  varii  Pontefici,  e  finalmente  con 
molto  fervore  promosso  ed  in  molta  parte  eseguito  da  Pio  VI.  Il  ce« 
lebrare  quest^  opera,  intrapresa  con  magnifico  intendimento>  è  il  vero 
scopo  del  presente  Poema. 

Ivi. 

8  Nam  sic  Ptrcanun  fcadere  cantum  est. 

Otid.  Mei.  V.  53a. 

Le  Parche  in  certo  modo  erano  le  ministre  del  Fato.  Esiodo  le  fa 
sorelle  di  questo  Oio^  e  generate  dalla  Notte,  del  pari  che  la  Morte. 

Nox  antan  Fatumqne  fenim,  Parcamqiw  tremeocUin 
^uiit  Mortemque. 

(Tlieogon.,  vers.  dello  Z^magna.) 

Pao.  478. 

9  Talk  flammato  «ecum  Dea  corde  Tolotant,  ec. 

y»0.  £n.  I,  5o. 

Il  poeta,  aderendo  a  Virgilio  (^neid,  lib.  Vili,  y.  4i6)»  mette  la 
fucina  di  Vulcano  in  una  delle  isole  Eolie.  Tolommeo  le  chiama  itole 
di  f^ulcano,  e  nomina  Hiera  quella  di  esse  in  cui  stimava  che  fosse 
precisamente  collocata  l' officina  del  Dio.  Medesimamente  Plinio  {Hist, 
Nat,  lib.  Ili,  cap.  IX):  Inter  hane  (Liparen)  et  Siciliam  altera^  antea 
Therasia  appellata^  nunc  Hiera  ^  quia  sacra  Fuicano  est^  colle  in  ea 
noctumm  evomente  flammas*  Nelle  quali  parole  si  ha  la  ragione  dei- 
Tessere  consacrati  a  Vulcano  ootesti  luoghi.  Del  resto  havvi  grande 
discordanza  fra' poeti  neir affermare  ove  sia  posta  quella  fucina;  chi 
la  mette  in  Lipari,  la  maggiore  delle  sette  isole  Eolie  suddette,  chi 
in  Sicilia  sotto  l'Etna,  chi  in  Lenno,  chi  nell'Eubea.  Omero  la  col- 
loca in  cielo.  Vedasi  lo  Spanhemio,  Osservai,  al  v.  47  <li  Callimaco 
Hjrmn,  in  Dianam;  Flangini  ad  Apollonio  Rodio,  Jrg.  lib.  Ili,  v.  41; 
Servio,  La-Gerda  ed  Heyne  al  lib.  Vili  dell'Eneide  (vers.  cit.). 

Ivi. 

><*  Per  qual  motivo  diasi  a  Diana  l'aggiunto  di  Nemorense,  trovasi 
di  già  accennato  nelle  Annotazioni  al  Canto  I.  Qui  diremo  di  più  che 
il  territorio  Nemorense  fu  cosà  nominato  dalle  selve  {nemora)  che  cre- 
scevano alle  falde  del  Monte  Albano  presso  ad  Arioia  (ora  detta  la 
Riccia)  j  che  Plinio  (lib.  XXKV,  cap.  7),  Ovidio  (Fa«f.IlI,v.  361),  Vi- 
truvio  (lib.  IV,  cap.  7)  ec.  lo  chiamano,  quasi  per  eccellenza ,  nemus 
Diana j  che  finalmente  il  lago  di  Nemi,  in  questo  territorio,  è  detto 
da  Servio  speculum  Diana,  Vedansi  poi  diverse  Iscrizioni  presso  il 
Grutero,  le  quali  fanno  menzione  di  Diana  Nemorentej  Properzio  (lib. 
Ili,  £1.  XXII,  V.  25);  e  Spanhemio  {Observ,  ad  Callimachum^  Hjrmn,  ìif. 
Dianam  y.  38). 

Ivi. 

>>  Al  solito  modo  de' poeti,  il  nostro  Autore  si  apre  qui   il   campo 


53 a  NOTE  AL  CANTO  SECOJfDO 

a  celebrare  la  casa  Braschi^  e  principalmeDte  Don  Laigi,  nipote  della 
Santità  di  Pio  VI  e  daca  di  Nemij  presso  il  quale  egli  trovavasi  in 
qualità  di  segretario,  alloraquando  intraprese  la  Feroniade,  Alcuni  Tersi 
alludono  subito  alle  cacce^  di  cui  grandemente  si  dilettava  quel  prin* 
cipe. 

Pag.  478. 

>a  Callimaco  nell'Inno  a  Diana  (v.  i5)  fa  che  questa  Dea  ancor 
bambina  e  sedente  sulle  ginocchia  di  Giove  suo  padre  lo  richiegga 
d'alcuni  doni;  e  fra  gli  altri,  di  questo:  Da  etiam  ministrasi  viziati 
Njrmphttt  Amnisidas^  qiuc  mihi  f enatica  calceamenla,  et^  cum  fyncas  cer- 
i*osque  tenari  desiero^  ueloces  canes  recte  curent.  Egli  poi  torna  nell'Inno 
medesimo  (v.  16:»)  a  far  menzione  di  queste  Ninfe,  rammentate  anche 
da  Apollonio  Rodio  {Arg,  lib.  Ili,  v.  %i'x,  e  t.  877)  che  le  fa  abitare 
presso  la  sorgente  àùWAmnisioy  fiume  in  cui  era  solita  bagnarsi  Dia- 
na, come  nel  Partenio.  Si  consultino  gli  eruditi  Spanhemio  e  Flan- 
gini,  il  primo  nelle  Osservazioni  a  Callimaco,  l'altro  in  quelle  ad 
Apollonio  (1.  e). 

Ivi. 

»3  V.  Omero,  Odissea,  lib.  VI,  v.  loa. 

Ivi. 

>4  Diana  sopra  un  carro  di  questa  forma,  tirato  dai  cervi,  è  rappre- 
sentata in  una  medaglia  di  bronzo  dell'  imperator  Valeriano,  del  Mu- 
seo di  Parigi,  pubblicata  dallo  Spanhemio  (Obseru^  ad  Callimach.  £(rmn, 
in  Dian.j  v.  106).  —  Ciò  che  il  poeta  dice  del  pascolo  delle  cerve  è 
tolto  da  Callimaco  {Hrnui,  in  Dianam,  v.  162):  Tibi  uero  Amnisiades 
quidem  a  jugo  soluUu  stringunt  cervas,  illisque  plurimum  pabuli  Juno* 
nis  e  prato  demetsi /èrunt,  velox  nata  trifolium,  quo  et  Jot^is  equi  pa* 
scuntur. 

Pac.  479. 

■^  placaibìUs  ani  Diance. 

ViBG.  ^n.  VII,  764. 

Della  trasmigrazione  di  Oreste  e  di   Ifigenia  nel   territorio   Nemo- 
rense,  e  del  culto  di  Diana  da  essi  ivi  portato  ,  si  è  già  fatto  parola 
nelle  Annotazioni  al  Canto  l.  Qui  poi,  ad  imitazione  di  Virgilio,  Z>ik- 
na  Nemorense  0  Aricina,  è  detta  placabile,  perchè  ad  ossa   non  veni* 
vano  sacrificati,  come  nella  Taurìde,  tutti  indistintamente  gli  stranieri 
che  la  loro  mala  sorte  avesse  colà  fatti  capitare.  Benché  né  pur  ivi  il 
culto  di  lei  fosse  al  tutto  poro  di  umano  sangue.  Che  alloraquando  uno 
schiavo  fuggito  dal  suo  padrone  giungeva  in  que'  luoghi,  veniva  messo 
a  duello  col  capo  de'  sacerdoti,  e,  se  riusciva  vincitore  coli' ucciderlo, 
occupava  egli  quel  posto,  finché  per  eguale  maniera  non   gli  venisse 
tol^o  da  un  altro.  Perciò  scrive  Strabone  nel  libro   V,  che   il   sacer- 
dote di  Diana  Nemorense  tiene  sempre  imbrandito  il  pugnale,  temendo 
di  chi  lo  assalti,  e  pronto  a  rispondere.  Pausania  nel  libro  II  (cap.  37  , 
§  4  )  ^<^  menzione  di  una  tale  costumanza    come  di  cosa  ancor  sussi» 
stente  a'  suoi  tempi.  E  Valerio  Fiacco  nel  secondo  della  sua  Argonau"^ 
tica  (v.  3o3)  sì  rivolge  colle  seguenti  parole  a  Diana: 


DELLA    FERONUDE  533 

mora  nec  terrìs  tibi  kmga  cmenlis, 

Jan»  nemns  egeria,  jam  te  ciet  ahos  ab  Alba 
Jupiter,  et  aoli  non  mitis  Arida  regi. 

Nel  qual  pasto  regi  signiBca  al  capo  de'  sacerdoti  j  e  soli  non  mitis 
regi  riguarda  la  circostanxa  dell'  essere  quel  meschino  in  continuo  pe- 
ricolo che  qualche  fuggitivo  servo  sopravrenendo,  non  potesse  render- 
gli il  contraccambio  di  quanto  egli  aveva  fatto  al  suo  antecessore  ,  e 
legalmente  trucidarlo  s'egli  non  sapesse  difendersi. 

Pac.  479. 

*^  Dabtnm  ptiu  an  sceleratus,  Orestcs,  ec. 

OriD.  Tnst.  IV  j  EI.  IT,  69. 

Il  giudizio  se  Oreste  dovesse  condannarsi  o  no  pel  matricidio  da  lui 
commesso  in  vendetta  del  padre^  fu  dagli  Dei  con6dato  all'Areopago 
di  Atene  ;  ed  il  reo  venule  assoluto  pel  voto  di  Minerva.  (Vedi  Eschilo 
nella  Tragedia  che  ha  per  titolo  le  Eumenidi.) 

Ivi. 

17  Vedi  di  sopra  la  nota  ai  versi;  ed  essa  La  placabile  Diwaj  ec»,  ed 
il  yetus  Latium,  lib.  I^  cap.  37  (Tom.  I ,  pag.  385).  —  Ignipotente  è 
il  nome  che  Virgilio  dà  più  volte  a  Vulcano. 

Ivi. 

*'  Ippolito^  avendo  rifiutato  di  acconsentire  alle  ree  brame  della  sua 
matrigna  Fedra,  fu  da  lei  accusato  al  marito  di  quella  colpa  mede- 
sima, alla  quale  essa  aveva  tentato  d' indurlo:  me,  quod  uolult,  Jinxit 
woluisscj  dice  egli  di  sé  stesso  in  Ovidio  {Met.  lib.  XV,  v.  5oo).  Quindi 
per  le  imprecazioni  del  troppo  credulo  genitore,  venne  calpestato  dai 
proprìi  cavalli,  spaventati  da  un  mostro  spinto  loro  incontro  sul  lido 
del  mare  da  Nettuno.  Tutta  questa  favola  forma  il  soggetto  di  una 
delle  più  belle  tragedie  di  Euripide.  Ovidio  poi  nelle  Metamorfosi 
(/.  e.)  narra  non  solo  il  miserando  caso  d'Ippolito,  ma  ancora  com'e- 
gli venisse  da  Esculapio  richiamato  a  vita ,  e  trasmutato  in  Virbio  ; 
cosa  già  toccata  da  Virgilio^  come  abbiamo  detto  nelle  Annotazioni  al 
Canto  primo. 

Ivi. 

19  Euripide»  e  dietro  lui  Ovidio^  fanno  spaventare  i  cavalli  d'Ippo- 
lito da  un  toro.  Il  nostro  poeta  a  questo  animale  terrestre  ha  sosti- 
tuita una  Jòca^  coli'  autorità  di  Servio  {ad  Virg,  ÀEn,  VI^  v.  44^)  >  ^ 
già  le  foche  sono  i  buoi  del  mare,  siccome  lo  stesso  Servio  scrive  a 
quei  versi  del  quarto  delle  Georgiche  :  Quippe  ita  Neptuno  visum  est, 
immania  cujus  Armenia  et  turpes  pascit  sub  gurgite  phocat. 

Ivi. 

ao  Allude  a  que'  versi  che  Euripide  fa  pronunciare  a  Diana  in  fine 

àeìV  Ippolito  : 

A  compensarti 

Di  quanto  or  soffiri,  o  giovine  infelice, 

A  te  poacia  in  Tretene  incliti  onori 

AiMgnerò.  Le  gioTinctte  figlie 

Pria  delle  noBM  a  te  recìderanno 

MoKTi.  Poemetti,  54 


£^4  HOTE  AL   CASTO    SEC09D0 


Le  langhe  chiome,  e  ti 

Di  Ugrane  tributo,  e  deOe  vopiai 

Le  pidoie  camooi  qgnar  derole 

Sanano  a  le.  (Tndnt.  del  BeflottL) 

(Vedi  Paasania,  lib.  Il,  cap.  ^i,  §  i.) 

Pac.  48o. 

»  Tito  Livio,  lib.  l,  cap.  31  (e  Tedi  anche  Oridio,  AfeC  lib.  XV, 
T.  48a  e  segg.),  parìa  dello  speco  iledicato  da  Manu  alle  Uose,  e  de' 
congressi  eh*  ei  fingeva  di  avere  colà  dentro  colla  niola  Egeria ,  da  coi 
diceva  di  ricevere  le  leggi  che  imponeva  ai  Romani.  Anche  molti  altri 
scrittori  latini  fanno  menzione  di  questo  speco. 

Ivi. 

»*  Pitagora.  Una  popolare  credenza  faceva  questo  filosofo  maestro 
di  Numa,  benché,  come  osserva  Tito  Livio  (lib.  I,  cap.  18),  egli  sia 
fiorito  più  di  cento  anni  dopo,  regnando  Servio  Tallio.  Fondò  quella 
setta  di  filosofi  che  dicesi  italica  ;  ebbe  scuola  in  Crotone  città  delU 
Magna  Grecia,  ed  insegnava  la  metempsicosi ,  cioè  la  trasmigrazione 
delle  anime,  confermandola  coj  proprio  esempio;  giacché  diceva,  che 
la  sua  anima  era  stata  prima  in  Euforbo  figlio  di  Panto  ucciso  da  Me- 
nelao (//.  XVII,  V.  43  e  segg.),  poi  era  passata  in  Ermotimo,  poi  in 
Pirro,  e  finalmente  in  loi.  Luciano  mette  in  ridicolo  questa  dottrina 
nel  Dialogo  che  ha  per  titolo  //  Sogno  ossia  //  GaìXo.  I  discepoli  di 
Pitagora  erano  obbligati  ad  alcuni  anni  dì  rigoroso  silenzio;  il  perchè 
dal  poeta  è  dato  l'aggiunto  di  muu  alle  scuole  di  Crotone. 

Ivi. 

*3  Accenna  vari  miglioramenti  fatti  dal  duca  Braschi  nelle  sue  te- 
nute Nemorensi,  e  principalmente  la  piantagione  di  alcuni  oliveti  in 
luoghi  prima  incolti  e  pieni  di  serpi. 

Pag.  48 1. 

34  II  duca  suddetto. 

Ivi. 

'^  Deus  nobis  face  olia  fecit  : 

Namque  erìt  ille  mihi  semper  Deus,  ec. 

ViBG.  Ecl.  l.  6-7. 
Ivi. 
»6  Donna  Costanza  Falconieri,  moglie  del  Duca  Braschi,  alla  quale 
uuo  dopo  V  altro  erano  morti  tre  figli  appena  nati,  di  che  era  dolcn- 
tissimo  Pio  VI. 

Pag.  483. 
•7  Le  Parche  si  fanno  incoronate  di  narciso,  perchè  questo  fiore 
sparge  un  odore  narcotico  che  intorpidisce  i  nervi,  é  però  è  dedicato 
alla  Morte,  di  cui  è  fratello  il  Sonno.  11  signor  Lemaire  ne'Comenti 
ad  Ovidio  {MeL  lib.  IH,  v.  Sog)  lo  dice  sacro  alle  Divinità  infernali 
per  essere  fiore  di  corta  vita,  che  appena  spunta  e  già  cade,  né  pro- 
duce alcun  fruito.  Ma  questa  qualità  non  è  cosi  propria  del  narciso, 
che  non  convenga,  ed  assai  più,  anche  a  moltissimi  altri  fiori  conse- 
crali  agli  altri  Dei.  Lasciato  questo  in  disparte,  osserveremo  che  Pamr 


DELLA    FEROIflADB  535 

fo,  citalo  da  Pausania  (lib.  IX,  cap.  Si,  §  5),  e  T autore  dell'  Inno  a 
Cerere  attribuito  ad  Omero  (v.  5)^  dicono  che  quando  Plutone  rapi 
Proserpi na,  ella  stara  cogliendo  un  narcis^  di  mararigliosa  bellezza. 
Nonno  nel  XV  delle  Dionisiache  (t.  3i)  fa  che  Ino ,  vicino  ad  essere 
ucciso,  domandi  per  grazia  che  il  narciso  venga  piantato  sul  suo  se* 
pelerò.-  Da  vero  mihi  ultimam  gratiam:  super  tumulo  Jlores  Narcìssi 
ab  Amore  percussi  crescant.  E  Sofocle  fa  dire  al  Coro  nell*  Edipo  a 
Colono  : 

Ofetx»  di  bei  corimbi  in  questo  loco 

11  Solcate  Duciso, 

Ghirlanda  delle  due  gnu  Dive  antica 

Tuttodì  si  nutrica 

Di  celeste  rugiada,  e  l'aureo  croco. 

(Trad.  del  BelloUi.) 

Le  due  gran  Dive  sono  Cerere  e  Proserpina;  e  la  strada  seminata 
di  narcisi  è  quella  che  conduce  al  bosco  delle  Eumenidi. 

Pag.  483. 
*<  Omero  nel  decim'  ottavo  dell'  Iliade  (v.  470)  mette  venti  man- 
tici a  soffiare  nella  fornace  di  Vulcano,  quand'  egli  si  fa  a  fabbricare 
le  armi  di  Achille.  Callimaco  nell'  Inno  a  Diana,  e  Virgilio  nell'  ot- 
tavo deir  Eneide,  descrivendo  anch' essi  con  ogni  bellezza  di  poesia  le 
fucine  di  Vulcano,  non  determinano  il  numero  de'  mantici. 

Pag.  483. 
*9  Bronte  era  il  più  gentile  de' Ciclopi.  Latona   posò   sulle   sue   gi- 
nocchia Diana  ancor  bambina  di  tre  soli  anni  ;  e  questa,  avendo  dato 
di  piglio  ad  una  ciocca  de'  peli  del  suo  petto,  gliela  strappò  di  tutta 
forza.  Leggasi  intorno  a  ciò  Callimaco,  Hjrmn.  in  Dian,  v.  72. 

Ivi. 
^  Il  cassitéro,  o  sia  lo  stagno j  era  in  gran  pregio   presso  gli   anti- 
chi Greci,  e  basta  vedere  come  Omero  lo  faccia  entrare  nelle  più  belle 
armature  degli  eroi. 

Ivi. 
3i  Veggansi  tutti  questi  vituperi!  di  Giove  rapidamente   dipinti  da 
Ovidio  nel  sesto  delle  Metamorfosi  sulla  tela  di  Aracne,  v.  io3-ii4- 

Pag.  484* 
3>  Vulcano  è  rappresentato  in   atto   quasi   conforme   da   Apollonio 
Rodio  (Arg.  lib.  IV,  Vr  956),  allorché  sta  osservando  il   passaggio    de' 
Minii  fra  le  rupi  cianèe. 

Questo  a  mirar  ddlo  spianato  sasso 
In  su  la  vetta  il  re  Vulcan  medesmo 
Stava  in  pi^  ritto,  la  pesante  spaUa 
Sovra  il  nuuiubrìo  del  martel  poggiando. 

Ivi. 

33  Vedi  quello  che  il  cicco  Demodoco  canta  alla  tavola  de'  Proci  in 
Omero,  Odjrss.  lib.  Vili,  v.  366-366. 

Ivi. 

34  V.  Iliade j  lib.  XXI,  v.  343  e  segg. 


536  NOTE  AL  CANTO  SECONDO 

Pag.  484. 

35  V.  IliatUj  lib.  I,  V.  5go  e  segg.;  e  lib.  XVIII  ▼.  397  esegg.  At- 
verUsi  però  che  nel  primo  de'  passi  qui  citati.  Omero  dice  che  Valcano 
Tenne  da  Giore  scagliato  fuori  del  cielo  per  aver  voluto  dar  soccorso 
a  Giunone,  e  chVgli  seguitò  a  cadere  per  un  intero  giorno,  sul  fine 
del  quale  fu  raccolto  dai  Sintii  abitatori  di  Lenno  ;  ma  nel  secondo  lo 
fa  gettare  per  volere  di  Giunone  medesima  ,  a  cui  non  piaceva  d'  a- 
vere  un  figlio  zoppo,  ed  in  questa  occasione  racconta  eh'  ei  fu  rac- 
colto da  Eurìnome  e  da  Teti.  Il  nostro  poeta  ha  conciliati  questi  due 
luoghi,  e  formata  un' azion' sola  del  getto  di  Vulcano  fatto  da 
Giove  per  ira  che  questo  auo  figlio  stésse  dalla  parte  della  madre,  e 
dell'opera  pietosa  a  lui  prestata  dalle  due  oceanine.  —  Eurìnome 
ebbe  tempio  e  sagrificii  in  Arcadia  presso  lU  città  di  Figalia  al  con- 
fluente dei  fiumi  Neda  e  Limace  (Pausania^ib.  Vili,  cap.  l^\,  §  4)<  D> 
TetùUj  madre  di  Achille,  non  è  d' uopo  di  far  parole. 

Pag.  486. 

36  Questa  circostanza  del  lavare  che  fa  Iride  colla  rugiada  il  corpo 
di  Giunone,  alloracbè  essa  esce  dell'inferno,  è  tolta  da  Ovidio^  Afd. 
lib.  IV,  v.  478. 

Lcta  redit  Jano,  quam  ctrlam  intrare  panntem 
Roratii  lustrarit  aquis  Thaumantias  Iris. 

Anche  Dante,  uscito  dell'  inferno,  fa  che  Virgilio  gli  deterga  colla  ru- 
giada del  purgatorio  le  guance  lagrimose   (Purg.  C.  I,  v.  lai  e  segg.). 

Pag.  487. 

37  Della  fonte  Caronia  (di  cui  fa  cenno  Plinio  nel  lib.  II,  cap.  9^) 
cosi  parla  il  p.  Kircher  nel  suo  Vetus  et  nouum  Latium,  lib.  I,  cap.  7. 
i€  Non  lontano  (da  Terracina)  vedevasi  il  fonte  Caronio,  dal  cui  vele- 
noso alito  venivano  uccisi  gli  uomini  e  gli  animali,  il  quale  però  chiuso 
da' posteri  e  riempito  di  sassi,  cessò  d'infierire  ». 

Pao.  488. 

38  Dello  staccamento  della  SiciHa  dal  rimanente  della  nostra  peni- 
sola fanno  menzione  Plinio  (lib.  II,  cap.  89),  Diodoro  Siculo  (lib.  IV, 
cap.  87),  Pomponio  Mela  (lib.  Il,  cap.  7),  Giustino  (lib.  IV,  cap.  I), 
Lucano  (lib.  II,  v.  435  e  segg.)  ec.  Virgilio  nel  terzo  dell'Eneide 
(v.  4^4  ^  B^SS*)  '^  descrive  mirabilmente  cosi: 

HiBc  loca  TÌ  quondam,  et  vasta  oonviika  mina, 
(Tantam  vri  loogìnqua  valet  mutare  vetustasl) 
DissiluìiM  ferunt,  quum  proUnus  utnqne  tellus 
Una  ibret  ;  Tenit  medio  vi  pontns,  et  undit 
Heiperìum  Siculo  latus  abacidìt,  anraque  et  urbe» 
LiUwe  diductas  angusto  interluit  astn. 

Pag.  4B9> 

39  V.  Omero  Iliade^  lib.  XX,  v.  57  e  segg. 

Ivi. 

40  Mugilh^  città  sui  monti  Lepini  fira  Sezze  e  Cora.  —  Ecetra,  sugli 
stessi  monti,  non  lontana  da  Gora.  —  jirUna  vicina  ad  Ecetra.   In- 


DELLA   FBROHIADB  537 

torno  a  queste  tre  città  veggasi  il  Corradini  nel  f^etut  Laliwn^  lib.  Il, 
cap.  16. 

Norba  sorgeva  a  poca  distanza  dal  paese  ch'ora  per  corrazione  è 
detto  Norma,  tra  i  fiami  Astara  e  Ninfeo,  sni  monti  che  guardano  la 
palude  Pontina*  Il  Volpi ,  continuatore  del  Corradini ,  dice  (lib.  V  , 
cap.  I)  che  gli  abitanti  di  Norba,  affidati  ad  una  incerta  tradizione , 
riguardavano  Ercole  qual  fondatore  della  loro  città  ;  ma  che  quanto 
può  con  sicurezza  aflfermarsi  si  è,  eh'  essa  sia  stata  fabbricata  o  dagli 
Aborigeni,  o  dai  Pelasgi,  o  da  tal  altro  di  que^  popoli  che  primi  abi- 
tarono il  Lazio.  I  Norbani,  divenuti  col  tempo  colonia  romana,  si  se- 
gnalarono colla  loro  fedeltà,  singolarmente  allorachè,  dopo  la  famosa 
rotta  di  Canne,  parve  che  la  Fortuna  avesse  volte  le  spalle  alle  aquile 
latine.  Che  mentre  molte  città  negavano  di  venire  in  soccorso  della 
repubblica,  i  Norbani,  con  qualche  altra  colonia,  offersero  sé  ed  ogni 
cosa  propria  in  difesa  di  lei  ;  onde  furono  dal  Senato  ringraziati.  Nelle 
discordie  poi  di  Mario  e  di  Siila  essi  parteggiarono  per  Mario  che , 
quantunque  meno  fortunato,  sembrava  tenere  la  causa  più  onesta.  E 
diedero  un  bello  esempio  di  generosità  e  di  fortezza  quando,  caduti 
per  tradimento  nelle  mani  di  Emilio  Lepido ,  duce  Sillano  ,  vollero 
piuttosto  (secondo  narra  Appiano  Alessandrino  nel  primo  delle  Guerre 
disili)  darsi  volontariamente  la  morte  ed  incendiare  le  loro  case,  che 
venire  in  podestà  di  quelV  oppressore  di  Roma. 

Di  Cora  scrisse  il  citato  Volpi  in  un  libro  intitolato  :  Antiche  me- 
morie appoì'tenenti  alla  città  di  Cora  (Roma,  I73a,  in-4*^),  e  ne  favella 
ampiamente  eziandio  nel  Fetus  Latium,  lib.  Vili,  cap.  i;  e  noi  ab- 
biamo già  detta  alcuna  cosa  del  nome  di  questa  città  nelle  Annota- 
zioni al  Canto  I.  Qui  vuoisi  aggiungere  che  Dionisio  d'  Alicarnasflo 
(AnL  Bom.  lib.  I),  Plinio  {Hist  Nat.  lib.  Ili,  cap.  5),  Solino  {Pol^hùt. 
cap.  a).  Marziano  Capella  (De  Nupt.  PhiloL  lib.  VI)  le  assegnano  per 
primo  fondatore  Dardano  Troiano.  Ma  veggasi  quello  che  ne  dice  il 
Cluverio  nelP  Italia  antiqua^  lib.  Ili,  cap.  Vili,  ove  parla  delle  Terre 
de*  Volsci. 

Tra  gli  edificii  di  Cora,  de' quali  ragiona  il  Volpi,  vi  avea  un  ma- 
gnifico tempio  dedicato  a  Castore  e  Polluce.  Altri  ve  n'  erano  sacri 
ad  Ercole  e  a  Bacco  ;  e  finalmente  da  certi  monumentisi  può  dedurre 
che  uno  pure  ve  ne  fosse  in  onore  di  Giano ,  cui  gli  antichi  Italiani 
invocavano  col  nome  di  padre  (V.  Virg.  i£/i.  lib.  Vili,  v»  SSy;  Au- 
relio Vittore,  Orig,  G.  77.  cap.  Ili;  ec.)  e  sotto  il  cui  regno,  scrive  Ma- 
crobio  (Saturn.  lib.  I,  cap.  9),  tutte  le  case  furono  munite  di  religione 
e  di  santità,  onde  gli  vennero  decretali  onori  divini. 


NOTE  AL  CANTO  TERZO 


DELLA  FER0NL4DE 


Pag*  49  ■• 
1  V.  Omero,  lUade  lib.  Vili,  ▼.  438  e  segg. 

In. 
>  Le  Ore,  che  in  Omero  sono  portinaie  del  Cielo  {IL  lib.  V,  v.  749 
e  lib.  VIII,  y.  SgS),  ed  hanno  in  cura  i  cavalli  di  Giunone  (lib.  Vili, 
y.  433),  da  Ovidio  nono  fatte  ancelle  dei  Sole,  a  cui  apparecchiano  il 
cocchio  ed  i  cavalli  : 

Jungere  c^os  Titan  Telodbus  imperai  Horis, 
Jossa  DcK  cekres  {leraguuL 

MtL  lib.  II,  118. 

Ivi. 
3  Anche  Virgilio  fa  che  gli  altri  Dei  accompagnino  Giove,  allorachè 
questi  discioglie  il  loro  concilio  e  toma  alle  proprie  stanze  : 

....  Solio  (om  Jupiter  aureo 
Surgit,   CoeUcohe  medium  qocm  ad  limioa  dncunt 

ì£m.  X,  116. 

Ivi. 

^  Questa  facoltà  di  aprirsi  per  sé  medesime  è  attribuita  da  Omero 
alle  porte  del  cielo,  nell'Iliade,  lib.  V,  v.  749»  e  lib.  Vili,  v.  393. 

Pag.  49^* 

5  Plinio,  Varrone,  Strabene  ed  altri  scrittori  antichi  fanno  men- 
zione delle  paludi  Pontine,  ma  non  ne  parlano  con  tal  precisione  da 
togliere  il  campo  a  fortissime  contestazioni  fra  gli  eruditi  moderni 
intorno  alla  loro  origine  ed  ingrandimento.  Lo  Spedalieri  però,  il 
quale  sostiene  che  fino  alla  Censura  di  Appio  Claudio  non  abbia  esi- 
stito che  una  piccola  palude  presso  a  Terracina,  è  d'opinione  che  il 
dilagamento  di  essa  sopra  uno  spazio  maggiore  di  terreno  sia  avve- 
nuto in  quell'intervallo  di  tempo  che  passò  fra  la  Censura  di  Appio 
ed  il  Consolato  di  Cornelio  Cetego,  intervallo  di  cento  quarantanni  in 
circa.  E  lo  attribuisce  alla  trascuranza  nel  riparare  le  rive  e  gli  sboc- 
chi dei  quattro  grossi  fiumi  dell'agro  Pontino,  Aaiura^ Ninf^Oj  Ufente 
ed  Anuuenoj  i  quali,  rompendo  gli  argini,  od  impediti  di  scaricarsi 
nel  mare,  allagarono  la  campagna,  e  conversero  in  una  vasta  e  pesti- 
lente laguna  quel  territorio  per  lo  innanzi  bellissimo  e  fertilissimo, 
cui  i  Volsci  avevano  sempre  mantenuto  in    fiore    finché  non   furono 


NOTE    AL    CANTO    TERZO  DELLA  PERONI  ADE  SSq 

annientati  dalla  potenza  de'  Romani.  Vedasi  ciò  che  scrive  quell'uomo 
celebre  nell'opera  del  Nicolai  (lib.  1,  cap.  i3>  pag.  56  e  segg.  e  cap. 
^^f  P^S*  74'7^)>  e  B^  confronti  con  quello  che  dicono  gli  autori  del 
yelus  Latium*  Noi,  non  osando  di  farci  giudici  in  questa  gran  lite  di 
congetture,  diremo  che  il  poeta ,  riferendo  ad  una  remotissima  sta- 
gione l' origine  delle  Pontine,  ed  attribuendola  al  concorso  delle  inon- 
dazioni e  dei  terremoti,  ha  messo  in  azione  quanto  il  famoso  p.  Ata- 
nasio Kircher  aveva  eruditamente  fantasticato  nel  lib.  IV^  cap.  i,  del 
suo  yettu  et  noi^u/n  Latium. 

Pao.  49^' 

6  11  poeta  si  è  giovato  d'  una  sablime  immagine  di  Milton  ,  in  fine 
del  libro  secondo  del  Paradùo  perduto,  ove  Satanno  all'uscire  del- 
l' inferno  vede 

L'  ein[»reo  cielo  in  circuito  A*  ampia 

E  non  detenniMU  estennona 

(Sua  gi2i  nativa  lade),  e  quivi  presso 
Da  una  catona  d' ór  pendente  questo 
Sospeso  mondo. 

(Trad.  del  Rolli.) 

Ambidne  poi  i  poeti  ebbero  cotale  immagine  da  Omero  (//.lib.  Vili, 
V.  19  del  testo)^  quand'egli  fa  dire  a  Giove: 

Alla  vetta  ddl'  immoto  Olimpo 

Annoderò  la  gran  catena,  ed  alto 
Tutte  da  quella  penderan  le  cose. 

Ed  in  questa  catena  omerica  Platone,  sul  principio  del  Teeteto,  cre- 
deva indicato  il  sole  ;  perocché  Jintanio  che  il  giro  del  sole  durerà  ^ 
suuisterttnno  ed  avranno  vita  tutte  le  cose  j  si  degli  Dei  che  degli  uo» 
mini:  ma  se  (questo  in  certa  maniera  dovesse  stare  legalo ^  sciorrebbesi 
tosto  ogni  cosa,  e  il  tutto  andrebbe,  come  suol  dirsi,  sossopra.  Qualche 
Newtoniano  poi  potrebbe  più  acconciamente  con  Pope  vedervi  simbo- 
leggiato il  gran  sistema  delle  due  forze  centripeta  e  centrifuga;  sistema 
che  non  potrà  essere  disciolto,  che  da  Quello  che  volle  un  tempo  or- 
dinarlo. 

Pag.  493. 

7  Saturno,  geloso  del  proprio  figlio,  e  non  ostante  che  a  lui  fosse 
debitore  dell'impero  del  Cielo,  toltogli  da' Titani,  e  ricuperatogli  dal 
valore  di  Giove,  gli  tese  insidie ,  le  quali  furono  cagione  che  questi 
sdegnato  lo  privasse  per  sempre  del  regno  ,  e  lo  costringesse  a  cer* 
carsi  un  asilo  nel  Lazio.  Veggansi  gli  scrittori  di  mitologia. 

Ivi. 
A  Intorno  agli  oracoli  che  Apollo  dava  neljl'àntro  di  Cuma  per  mezzo 
di  nna  vecchia  sacerdotessa,  detta  dal  luogo  la  Sibilla  Cumeaj  si  legga 
Virgilio  nel  libro  terzo  dell'  Eneide   v.  44  <  ^  *^?S'  »  ^^   ^^    principio 
del  libro  sesto. 

Ivi. 
9  In  questi  versi  il  poeta  ha  chiaramente  in   vista    quella   similitu- 
dine del  quarto  dell'Eneide,  v.  i43  e  segg.: 


54o  NOTE    AL    CAUTO    TBRZO 

Qudis,  ulù  hibflnam  Lydam  Xantique  flneaU 
Deserit,  ae  Delam  materaan  iaviait  Apollo, 
lastavaiqiae  diora,  mixtiqne  akarà  drcoBi 
CretesqiM  Drjopeaqiie  fremont  pictiqne  Agatlijni,  ec. 

Gli  Jgatirsi  erano  popoli  della  Scizia ,  che  adorayano  Apollo  Iper- 
boreo. Dì  essi  scrìve  Pomponio  Mela  (lib.  II,  cap.  i):  Dipingono  il 
voUo  e  le  membra;  e  pia  e  meno,  eecondo  la  condizione  di  eieueheeUtno: 
del  resto  tutti  cogli  stessi  segni  ^  e  per  modo  che  Immndoli  non  vanno 
via.  Servio,  al  luogo  di  Virgilio  sopraccitato,  non  è  di  parere  che  gli. 
Agatirsi  si  dicano  dipinti  per  farsi  cotali  segni,  ma  per  avere  la  capel- 
latura d^nn  bel  colore  ceraleo.  Ad  illnstrazione  poi  di  quanto  di- 
cesi degli  ecahi  sacerdoti  del  Soraite  (monte  ch'ora  chiamasi  di  &  One- 
ste, ed  anche  di  S,  Sih^estro,  dallo  stare  nascosto  che  qaesto  santo 
fece  nelle  sue  caverne),  gioverà  riferire  quanto  scrìve  Plinio  (HisL  Nat» 
lib.  VII,  cap.  2):  Poco  lontano  da  Roma  nel  territorio  de' Polisci  hamn 
alcune  Jamìglie,  le  quali  chiamanà  Irpie ,  che  neW  annuo  eaenfhùo 
che  fossi  ad  dpollo  presto  il  monte  Soratte,  camminano,  sensa  bruciar' 
sij  sopro  un  mucchio  di  legna  ridotta  in  brage»  E  perciò  ottennero  per 
decreto  del  Senato  eT  essere  perpetuamente  esenti  dalla  milizia  e  da  tutti 
gli  altri  carichi.  Solino  rìpete  le  stesse  cose  di  Plinio;  senonchè  dove 
questi  ha  super  ambusVam  Ugni  struem,  egli  scrive  impune  inMultanl 
ardentibus  lignorum  struibue,  Virgilio  poi  fa  dire  ad  Aronte  Dell'atto 
che  sta  per  iscagliare  l' asta  contro  di  CamUla  (JESn.  lib.  XI,  v.  785)  : 

Somme  Deùm,  aneti  cnstos  Soractis  Apotto, 
Qunn  primi  colimns,  coi  ptoeus  ardor  aoenro 
Paarìtur  ;  et  medinm  fireti  pietale  per  ignem 
Cnltores  nmlta  premimiu  vestigia  prona,  ec 

Ed  A.  Caro  così  interpreta  liberamente  gli  ultimi  due  versi  : 

per  coi  nudi  e  scalai 

Tra  le  fiamme  saltando  e  per  le  brage 
Securamente  e  sema  ofièaa  andiamo. 

Pao.  494. 

10  Veggasi  quello  che  già  si  è  detto  di  Diana  Nemorense  nelle  An- 
notazioni ai  Canti  aùtecedenti. 

Ivi. 

■  I  Apollo  aveva  un  famoso  tempio  in  Pataro  città  della  Licia,  provin- 
cia dell'  Asia  Minore,  ove  gli  oracoli  erano  dati  per  messo  delle  sor- 
ti, e  però  si  chiamavano  Lyciig  Sortes  (V.  Virgilio,  JEn,  lib.  IV,  v.  34^» 
e  Pomponio  Mela,  lib.  I,  cap.  i5).  Fra  i  Latini  poi  era  celebeirimo 
il  tempio  della  Fortuna  in  Preneste,  a  cagione  delle  Sorti,  le  quali 
erano  state  ritrovate  in  mezzo  d'una  pietra.  Cicerone  racconta  il  modo 
della  scoperta  nel  lib.  lì  de  Divinatione,  cap.  4^  •  ^  ^^^^  <^^  '^  tem- 
pio prenestino  della  Fortuna  era  ancor  fiorente  al  suo  tempo:  Fani 
pulchritudo  et  vetustas  Pranestinarum  etiam  nunc  retinet  Sortium  no- 
mea. Coleste  Sorti  si  cavavano  da  un  fanciullo  fuori  d'  un'  arca  fatta 
col  legno  d'  un  olivo,  che  aveva  stillato  prodigiosamente  olio ,  e  ere- 


DELLA  PBROniADB  54  I 

derasi  dt  rìcererle  dalle  mani  steue  della  Fortam.  Essa  era  ivi  rap- 
presenUta  sedente,  e  tenendosi  in  grembo  Giove  e  Giunone  lattanti. 
Cicerone  medesimo  {Ib»  cap.  33)  ne  fa  sapere  ciò  che  propriamente  si 
dee  intendere  per  Sorti:  —  Sortes  emy  ^um  ducuntur,  non  iUa,  qwM 
tmticinatione  Jimduntur^  qua  Oracula  f^riut  dicimus. 

I  boschi  di  Laurento  erano  famosi  per  gli  oracoli  di  Fanno,  i  quali 
reniyano  pronunciati  da*  sacerdoti  in  versi  Satumii  (  V.  il  Corradini 
nel  f^etus  Latium^  lib.  1,  cap.  ^i,  T.  I,  pag.  3ia  •  segg.).  In  quel  ter- 
ritorio eravi  pure  un  bosco  di  allori  consacrato  ad  Apollo,  ove  Enea, 
al  suo  arrivo  in  Italia,  dedicò  due  altari ,  memore  dell'  oracolo  che 
gli  aveva  predetto  eh'  ivi  sarebbe  stata  la  fine  delle  sue  peregrina- 
zioni. Veggasi  il  suddetto  Corradini,  lib.  I,  cap.  19. 

Pag.  494* 

■>  Del  culto  di  Venere  in  Anzio,  e  del  tempio  ivi  a  lei  dedicato,  si 
è  parlato  nelle  Annotazioni  al  Canio  I. 

Ivi. 

>3  Tarpejiisi|iM  pster  nuda  de  nqpe  tonabat, 

si  legge  in  Properzio  (lib.  IV,  El.  i,  v.  7);  ed  in  Lucano  {Phars,  lib.  I, 
v.  1^5-196): 

O  magiuB  qui  mmia  pro^sids  orbù 

Tarpeja  de  n^  tonfts,  ec. 

Giove  Tarpeio  fu  poi  detto  Capitolino^  e  veniva  sempre  rappresen* 
tato  coi  fulmini,  perchè  credevasi  che  da  quella  rupe  prorompessero 
i  folgori  e  le  tempeste  (V.  Kvinoel  ne'Comenti  a  Properzio,  t  c,)i  il 
che  maravigliosamente  è  dipinto  da  Virgilio  nel  discorso  che  fa  te- 
nere da  Evandro  nel  mostrare  ad  Enea  il  Campidoglio.  —  Capitolia»,. 
aurea  nunc^  olim  iiluestribus  korrida  dumii,  — 

Hoc  nemus,  hnnc,  inquit ,  frondo&o  veitice  collein, 
Quis  Deus,  inoertum  est,  halùtai  Deus  :  Arcades  ipram 
Cxedunt  w  vidisae  Jovem,  quum  «epe  nigrantam 
£gida  concutoret  dextra  BÌmLoique  àeret. 

JEh.  yill,  35i. 

Presso  Giovenale  un  impostore,  per  sostenere  la  propria  frode,  per 
Solis  j'odios,  Tarpejaque  fidnùna  jurat  (Sat.  XIII,  v.  78). 

Ivi. 
■4  II  tempio  d'Apollo  in  Cuma;  intorno  a  cui   veggasi  Virgilio  in 
principio  del  sesto  deU' Eneide. 

Ivi. 

'^  Veoiety'^mtrìs  labentibus,  vtas 

Qoum  domus  Assaraci  Phthiam  claiasque  Mycenas 
Senritio  premet,  ac  viotis  dominabitur  Ar|[ts. 

Cosi  Virgilio  fa  dire  a  Giove  nel  primo  dell'Eneide  (v.  a83). 

Ivi. 
'^  Qnam  Juoo  iSntui  teiris  magù  omnflnis  anam 

PoslhalnU  coluisse  Somo:  hic  iUius  arma, 
Hic  corms  (uit. 

ViKG.  JEn.  I,  l5. 


5^1  NOTE    AL    CINTO    TERZO 

11  Vùconli,  nel  Museo  Pio  CUmentino  (  T.-  V,  Tst.  XLIV  e  XLV  ), 
ynole  che  t  Tersi  di  Virgilio  lopraccitatl  ali  odano  a  que'  cocchi  con- 
secrati  o  toUtì,  che,  sovente  di  bronxo»  soyente  ancora  di  marmo,  si 
dedicavano  ne' tempii  della  gentili t2i.  Oltre  i  cocchi  solevano  conse- 
crarsi  ne*  tempii  anche  certe  armatore.  Ed  t  Sabini  adoravano  Giu- 
none Curiie^  cioè  jistaia»  Qoesta  Dea  viene  invocata  nel  modo  se- 
goente  in  on  frammento  di  preghiera  usata  nelle  cerimonie  Tiburti* 
ne,  conservateci  da  Servio  {j4d  Mn,  1.  e):  /imo  curuUsy  tuo  curru 
cljrpeoque  tuere  meos  curÙB  éfemulas  sane. 

Pac.  494. 

<7  Quin  aspeni  Jano, 

Qme  mtre  none  temsque  melo  aàamtjae  fiitigat, 
Consilia  in  mdUni  referet,  mecnmqae  torAit 
Roinanos  remm  dominof,  genteBMjne  togaUin. 

Ymo.  Mt.  l,  279. 

Ivi. 

>B  Gionone  Lanuuina  (cosi  chiamata  da  lanuvio  cittli  e  municipio 
del  Lasio  dov'  ella  era  particolarmente  venerata),  la  quale  è  detta  an- 
che Sospita  o  Sispita^  cioè  Sah^trice ,  viene  rappresentata  in  diverse 
medaglie,  ed  in  una  statoa  del  Museo  Pio  dementino  (descritta  ed  il- 
lustrata nel  Tomo  II,  Tav.  XXI,  colla  sua  meravigliosa  erudizione,  da 
Ennio  Quirino  Visconti)  colla  testa  coperta  da  una  pelle  di  capra,  le 
cui  zampe  davanti  le  si  allacciano  sul  petto,  ed  il  rimanente  diacende 
in  tomo  al  busto  fìno  ad  essere  legato  sui  fianchi  da  una  larga  cintura. 
Cosi  la  descrive  anche  Cicerone  {De  NaL  Deor,  lib.  I,  cap.  39):  lUam  no* 
stram  Sospitam^  quam  tu  nunquam  ne  in  somnis  quidem  uides  nisi  cum 
pelle  caprina,  cum  hasta,  cum  scutulo,  cum  calceolis  repandis,  E  notisi 
quel  chiamare  nostram  la  Giunone  Sospita  ^  perch*  ella  era  Divinità 
tutta  latina,  ed  onorata  con  sagrifizii  dai  consoli  romani. 

Pag.  495. 

■9  Giove  medesimo,  nel  decìmoqulnto  dell'Iliade  (v.  17  e  segg.),  si 
vanta  d'  aver  cosi  un  tempo  punita  Giunone.  E  il  Correggio  nel  Ho* 
nìstero  di  S.  Paolo  in  Parma  dipinse  a  fresco  Giunone  ignuda  spen* 
zolata  dal  cielo  colle  incudini  ai  piedi,  nel  modo  ch'essa  è  descritta 
da  Omero ,  su  di  che  possono  leggersi  un  opuscolo  del  P.  Ireneo  Aflo 
intorno  alle  pitture  del  Correggio  sussistenti  in  quel  Monastero ,  e  la 
Storia  Pittorica  dell'  ab.  Lanzi  (Tomo  III,  pag.  895,  cdiz.  milanese  delia 
Soc.  tipogr.  de'  Gassici  Italiani). 

Ivi. 

»o  V.  Omero^  Odissea,  lib.  V,  v.  iì,  e  lib.  XXIV  in  principio.  Vir- 
gilio, Eneide j  lib.  IV,  v.  a38. 

Ivi. 

>|  Questo  cambio  e  descritto  nell'Inno  a  Mercurio^  fra  quelli  at- 
tribuiti ad  Omero,  v.  4?^  ^  s^gg*  Vedasi  anche  Servio  nel  comento 
al  V.  34^  àaì  lib.  IV  dell'Eneide.  Apollo  è  detto  da  Orazio  (lib.  I  , 
Od.  XXI,  V.  Il) 

Iiuigncmquc  pharotra 
Fralemaque  humrrum  lyra. 


DELLA   FERONIÀDB  5f\i 

Pàc.  49S. 

»  Flegréi  si  chiamarono  alcuni  campi  della  Campania ,  ov'  era  il 
Foro  di  Vulcano,  presso  Pozzuoli  e  la  palude  Acherusia;  de*  quali  fan- 
no menzione  Plinio  (Hist,  Nat.  lib.  Ili,  cap.  5),  Silio  Italico  (lib.  Vili, 
y.  540,  e  lib.  XII,  t.  i43)>  Strabone  (lib.  V  e  VI).  L'abbondare  dello 
zolfo  e  del  fuoco  in  questi  campi  si  é  poi  la  cagione  per  cui  i  poeti 
collocano  in  essi  il  teatro  della  pugna  de'  Giganti  cogli  Dei.  Onde 
Properzio  (lib.  I,  El.  XX,  ▼.  9),  parlando  dei  contomi  di  Cuma,  cosi 
si  esprìme  :  Siue  Gigtmtea  spatiahere  Utoris  ora.  Silio  chìamsk-phlegrcBus 
uertex  (lib.  Vili,  y.  607)  la  fiamma  eh'  esce  dalla  cima  del  Vesuvio. 
Flegra  però,  il  famoso  campo  doye  Gioye  sconfisse  i  Titani ,  è  nella 
Macedonia. 

Pag.  49^* 

>3  n  Redi  nel  Ditirambo  chiamò  questo  yino  ti  sangue,  che  lacrima 
il  VesHi'ìo  j  ed  a  questo  passo  fa  la  seguente  annotazione  :  Parla  di 
f/uei  vini  rossi  di  Napoli  j  che  son  chiamati  Lacrime  j  tra  le  quali  tti' 
matissime  son  quelle  di  Somma  e  di  Galitte,  ec. 

Ivi. 

s4  Nirobonun  in  patriam  loca  Torta  fiirentibot  Aiistrù, 

^olìam  vcnit,  ec. 

ViBO.  jEn.  1,  5r. 

Ivi. 
3^  V.  lìiades  lib.  XXllI,  y.  194  e  segg. 

Pio.  497. 
*(>  \  f^entij  secondo  Esiodo  nella  Teogonia,  sono  generati  dal  gigante 
Astreo  e  dall'Aurora.  Quindi  anche  Ovidio  (Met,  lib.  XIV,  y.  545): 

Aeraqne,  «t  tmniduni  subitii  ooncunibttf  aequor 
Astrm  torivint,  et  eunt  in  pnelia,  fratres. 

Ivi. 

*7  ...  Sigea  igni  freta  lata  relncent. 

ViBO.  jEn.  II,  3 12. 

Ivi. 

>8  Cuna  Fides  leggesi  in  Virgilio  {jEn,  lib.  I,  y.  39^),  ove  cosi  co- 

menta  Servio:  Canam  Fidem  dixit^  vel  quod  in  canis  hominibus  invenitur: 

wel  quòd  ei,  albo  panno  intfoluta  manu  sacrificabatur,  per  quod  ostenditur 

Fidem  debere  esse  secretam.  Vnde  Horatius:  (lib.  I,  Od.  XXXV,  y.  21): 

Te  <pes,  et  albo  rara  Fides  colit* 
Velata  panno. 

Pio.  499. 
-9  II  poeta  immagina  aperto,  dal  cadere  dell'infiammata  verga  lan- 
ciatavi da  Giunone,  il  famoso  spiraglio  d'Amsanto,  da  cui  osala  an- 
cora un'  arìa  mefitica.  Cicerone  {De  Diuinaiione  I,  36)  e  Plinio  {UisL 
Nat.  lib.  II,  cap.  93)  fanno  menzione  di  questo  spiraglio.  Virgilio  così 
canta  di  esso  nel  settimo  dell'Eneide  (v.  563): 

Est  locos  Italia  medio  sub  montibus  altis 
Nd>ilis,  et  fama  mnltis  memoratus  in  oris, 


544  NOTE    AL    CANTO    TERZO 

Amsmrti  rallet  :  d«nm  bimc  frondìbiu  atmm 
Ui^et  ntziaqae  latns  nemoris,  medioque  fir^goius 
Dat  looitMin  axU  et  torto  Tertàoe  ianan, 
Hk  ipecas  honvndnm,  nori  ^liracnk  Ditis, 
Moostntur,  niptoqua  ingeos  A«^eroate  ron^ 
Pestiieru  aperit  &aoei. 

Pao.   5oo. 

3o  Qui  il  lettore  si  6guri  di  vedere  PEbe  divinamente  scolpiU  dal 
Fidia  di  Pouagoo;  e  vegga  poi  anche  quello  che  dice  Omero  {Iliade^ 
lib.  IV,  V.  a). 

Ivi. 

3i  Che  il  gabinetto  dove  Giunone  soleva  fare  la  sua  (oi7«tt«  fosse  reso 
inaccessibile  da  arcane  chiavi,  lo  dice  anche  Omero  nell'  Iliade,  lib. 
XIV,  V.  166  e  segg.  —  Jra  tutelare  della  beltaUy  chiamò  la  toilette  il 
Parini  nel  Mezzogiorno, 

Ivi. 

3>  Gli  specchi  degli  antichi  erano  ordinariamente  d'  oro,  d'argento, 
di  bronzo,  di  stagno,  o  di  tali  altri  metalli.  Ma  ve  n*  ebbe  pure  di 
quelli  di  vetro;  ed  è  Plinio  che  lo  racconta  nel  libro  trentesimo  se- 
sto, cap.  '  a6,  della  sua  Storia,  ove  parla  di  varie  specie  di  lavori  fatti 
con  questa  materia.  Ecco  le  sue  parole  tradotte  i  Abro  (de'  vetri)  fi- 
gurasi colJiatOj  altro  latH)rasi  col  tornoj  tdtro  intagliasi  a  maniera  del- 
l' argento  in  Sidone j  celebre  un  tempo  per  queste  officine  ^  an^ifegnachè 
uijurono  perfino  intentati  degli  specchi.  Si  consulti  una  eruditissima  os- 
servazione dello  Spanhemio  al  v.  aa  di  Callimaco  Li  Pallad. 

Ivi. 

33  V.  Iliade^  lib.  XIV,  v.  173. 

Pag.  5o3. 

34  Lo  starsi  assiso  sul  limitare  della  casa  ospitale  era  proprio  de* 
supplichevoli,  o  degli  infelici  profondamente  oppressi  dalla  disgrazia. 
In  questa  situazione  è  rappresentata  Cerere  dall'autore  dell'  Inno  at- 
tribuito ad  Omero.  Ed  Ulisse,  rientrato  nelle  sue  case  sotto  le  sem- 
bianze di  un  mendico,  siede  nel  vestibolo  ;  e  quivi  avviene  il  famoso 
combattimento  tra  lui  ed  il  pezzente  Irò.  V.  l'Odissea,  lib.  XVIII,  in  pr. 

Ivi. 
33  Quest'  è  la  bevanda  domandata  da  Cerere  a  Metanira  (come   si 
ha  nell'  Inno  citato  nella  nota  antecedente)  dopo  ch'ella  ebbe  ^rifiutato 

Di  dolduimo  viii  oolma  una  tana. 


dicmido,  non  per  lei 

11  rubicondo  Tino  esser  beranda. 

(Trad.  di  Luigi  LamberU). 

Ivi  pure  è  detto  che  la  Dea  ebbe  cotesta  mistura   in   conto  di  sacra 
libagione, 

Pac.  5o5. 
36  Perciò  Omero  chiama  il  Sonno  re  di  tutti  gli  Dei  e  di  UUti  ^i 
uomini  (Iliad.  lib.  XIV,  v.  a33). 


DELLA  FERONUDE  545 

Pào.  5o5. 
3?  Cosi  Virgilio^  JEn,  lib.  I^  v.  a54  : 

Olii  ftuLrideos  kominum  sator  atque  dcorum, 
Voltn^  qao  codum  traipesUiUsijae  terenat. 
Oscula  libarit  nats. 

E  prima  di  lui  Ennio  : 

Juppiter  bk  riat,  tempetUtetque  wreuB 
Biseront  omnes  ma  Joris  omoipotentù. 

Pag.  5o6. 

38  II  poeta  tégaita  l'opinione^  registrata  dal  Corradini  nel  sao  Ve^ 
tus  Latiu/ity  lib.  il,  cap.  i6  (T.  11^  pag.  i3o),  che  Appio  Claudio,  so- 
prannominato per  la  perdita  della  TÙta  il  Cieco,  abbia  il  primo  ten- 
tato di  restituire  alla  cultura  il  territorio  pontino  occupato  dalla  pa- 
lude^  nell'occasione  che,  essendo  Censore,  concepì  la  grandiosa  idea 
di  una  strada  che  doveva  condurre  da  Roma  a  Brindisi,  e  la  spinse, 
per  ben  i^o  miglia,  6no  a  Capua.  Il  disegno  di  Appio  fu  poi  con- 
dotto al  suo  compimento  in  tempi  posteriori;  ma,  se  da  Cesare  o  da 
Augusto,  o  fors'  anche  da  Cajo  Gracco,  non  sanno  ben  dirlo  gli  eru- 
diti. La  strada  però  ebbe  giustamente  il  nome  da  chi  seppe  idearla, 
e  condurla  in  breve  tempo  quasi  alla  metà;  e  Stazio  scrive  di  essa 
(Sjrlt^,  lib.  II,  11,  v.  13):  jéppia  longarum  teritur  regina  viarwn.  L'o- 
pinione che  Appio  sia  stato  il  primo  ad  asciugare  l'agro  pontino,  é 
contraddetta  dallo  Spedalieri,  il  qaale  afTerma  ch'esso  era  ancora  in- 
tatto dalle  acque  al  tempo  dì  quel  Censore ,  come  già  si  è  detto  in 
una  delle  prime  Note  a  questo  Canto  (V.  la  nota  5  di  questo  Canto,  e 
Nicolai,  de'  Bonificamenti,  ec.  lib.  I,  cap.  i4)> 

Ivi. 

39  Disputano  alcuni  eruditi  se  questo  Cetego  sia  Publio  Cornelio, 
che  fu  console  con  M.  Bebio  Tanfilo  nell'anno  di  Roma  669,  ovvero 
Marco  Cornelio,  che  nel  690  ebbe  a  collega  L.  Anicio  Gallo.  Il  Cor- 
radini però  ed  il  Volpi,  appoggiati  all'  autore  dell'  Epitome  di  Tito 
Livio  (lib.  XLVI)^  credono  che  sia  il  secondo,  cioè  Af arco.  Quello  eh *é 
certo ,  si  è  che  verso  gli  anni  soprannotatì ,  trovandosi  il  territorio 
pontino  allagato  dalle  acque  che  ne  impedivano  la  coltivazione,  un 
Cornelio  Cetego  pensò  a  liberamelo,  e  lo  liberò  di  fatto.  Ecco  le  pa- 
role dell'  epitomatore  suddetto  :  Pomptince  paludes  a  Cornelio  Celhego 
Consule,  cui  ea  provincia  et^enerat,  siccaUe,  agerque  ex  iis  Jactus  est. 

Ivi. 

40  Le  acque  avevano  dì  nuovo  impaludato  il  territorio  pontino  ai 
tempi  di  Giulio  Cesare  ,  ed  egli  pensava  di  ricuperarlo  nuovamente 
alla  coltura,  allorché  venne  tolto  di  vita.  Di  ciò  fanno  menzione  nella 
Vita  di  Cesare  Svetonio  e  Plutarco,  Dione  Cassio  nel  libro  XLIV  delle 
sue  Storie,  Cicerone  nella  terza  Filippica,  ec.  11  Clui^rio  poi(/£.  ^/ii. 
lib.  Ili),  il  Kircher  {VeL  et  tiotf.  Lai,  lib.  IV,  cap.  a),  il  Corradini 
(lib.  Il,  cap.  16)  ed  altri,  a' quali  consente  il  poeta,  vogliono  che  Au- 
gusto abbia   dato  effetto  a  questo  pensiero    del   suo    padre   adottivo  , 


546       NOTE  AL  CANTO  TERZO  DELLA  FERONIADE 

appoggiati  ai  versi  65-66  della  Poetica  di  Orazio ,  cosi  comentati  dst 
Acrone  :  probat  exempUt  » ,  »  de  Pomptinis  pahidiòut,  qua»  Jugusiusex^ 
siccatfitj  et  habitabiles  reddiditj  injecto  ....  aggere  lapidum  et  terr^. 
Ma  questa  autorità  è  rigettata  con  forti  ragioni  dallo  Spedalieri  ,  il 
quale  adotta  il  parere  di  più  altri  comentatori  che  intendono  da  Ora- 
zio in  que'  Tersi  accennato  Cetego.  Noi,  senza  entrare  in  una  contro- 
versia, che  nulla  giova  per  l' intelligenia  del  nostro  autore,  rimettiamo 
i  lettori  al  libro  I,  cap.  17,  dell'opera  di  Nicolai. 

Pao.  5o6. 
4i  Ciò  racconta  di  aver  fatto   Orazio   nel  suo  viaggio  da   Roma  a 
Brindisi  (lib.  I,  Sat  V,  v.  a4): 

On,  iiuuia«|iie  tua  lavimus,  Ferooia,  Ijmpha. 

Ivi. 
4 a  Traiano,  per  mettere  riparo  ai  guasti  cagionati  alla  Via  Appia 
dalle  acque  della  palude  pontina,  fece  eseguire  alcune  opere  che  gio- 
varono eziandio  ad  asciugare  il  territorio  adiacente.  E  lo  Spedalieri 
(op.  cit  lib.  I,  cap.  19)  cosi  si  esprime  :  C%e  co'  lai^ori  di  lui  si  ricu- 
perasse una  parie  delle  campagne  pontine^  è  Juor  àP  ogni  dubbio.  Veg- 
gasi  anche  il  Corradini  (1.  e.  T.  II,  pag.  i33). 

Ivi. 

43  Era  naturale  che  per  le  irruzioni  de'  Barbari,  che  posero  a  soq- 
quadro ogni  cosa  dell'  impero  romano ,  anche  i  campi  pontini  restas- 
sero nuovamente  sommersi  dall'acque.  Però,  essendo  re  d'Italia  Teo- 
derico,  di  nazione  Ostrogoto ,  un  illustre  discendente  dei  Decii ,  per 
nome  Cecilio  Mauro  Basilio  Decio  (di  cui  altri  legge  i  due  primi  nomi 
cosi  :  Cecina  Mavortio  o  Massimo) ,  si  offerse  a  lui  d'asciugare  quei 
terreni,  e  di  ridonarli  alla  coltivazione.  L'  offerta  venne  accolta  coU'o- 
nore  che  meritava  ;  e  1'  opera  fu  condotta  a  termine  in  ogni  sua  parte 
perfettamente,  siccome  ne  assicura  V  iscrizione  riportata  dal  Corradini 
e  dallo  Spedalieri,  e  che  sta  esposta  sulla  piazza  di  Terracina  a  canto 
della  chiesa  cattedrale  (V.  Fetus  Latium^  lib.  Il,  cap.  16.  —  Dei  bo^ 
nificamenti  ec,  lib.  J,  cap.  30). 

Pao.  607. 

44  Quanto  durasse  il  bonificamento  delle  terre  pontine  procurato  da 
Decio  sotto  gli  auspicii  di  Teoderico,  non  è  noto.  Le  acque  però  tor- 
narouo  quando  che  fosse  a  impadronirsi  di  que'  luoghi  ,  che  mai  non 
poterono  esseme  liberati  daddovero,  per  quanto  vi  rivolgessero  le 
loro  cure  Bonifacio  Vili,  Martino  V,  Eugenio  IV  ed  i  suoi  successori 
fino  ad  Alessandro  VI,  Leone  X,  Sisto  V ,  Innocenzo  XII ,  Clemente 
XI,  Clemente  XIII,  ec;  ognuno  de' quali,  sia  col  mandare  ad  effetto 
alcuni  lavori,  sia  col  farne  soggetto  di  serie  considerazioni ,  o  tentò  , 
o  desiderò  almeno  di  tentare  la  difficilissima  impresa.  Niuno  però  dei 
Pontefici  andò  in  essa  più  oltre  di  Pio  VI,  il  quale  non  lasciò  intatlo 
alcun  mezzo  per  ridurre  a  termine  un'  opera  ,  in  cui  riponeva  una 
delle  maggiori  glorie  del  suo  principato  :  intorno  a  che  il  lettore  po- 
trà vedere  1'  opera  più  volte  citata  del  Nicolai. 


FRAMMENTI  D'UNà  VISIONE 


Delineo  itndiis  uumum,  faUoque  dolorei. 
Ot.  IW#e.  I.  V,  el.  7. 


Ad  ingannar  mie  cure^  a  far  men  rea 
Del  mio  stato  la  sorte  ^  che  diviso 
Dalla  luce  m^ha  sì  ch^io  mi  tenea 
Già  disperato  d^ogni  suo  sorriso, 
Mentre  cheto  il  pensier  si  raccogliea 
Sul  gran  padre  Alighieri,  un  improvviso 
Spirto  la  fronte  mi  ferì,  che  attente 
Fé  tutte  a  sé  le  posse  della  mente. 

Parve  dapprima  una  soave  auretta 

Che  di  maggio  fra  lauri,  aranci  e  mirti 
Ai  più  bei  fiori,  alla  più  molle  erbetta 
Va  depredando  i  ben  olenti  spirti. 
Viva  così  che  ne  diffonde  e  getta 
L^  odor  anco  fra  dumi  orridi  ed  irti  \ 
Lieve  così  che  bacia  in  sue  carole, 
Senza  agitarlo ,  il  capo  alle  viole. 

Lo  spiro  di  (juelPaura  a  me  venia 
Sì  dilicato  per  le  vie  del  core, 
Che  su  le  sue  ferite  io  già  sentia 
Placato  addormentarsi  ogni  dolore. 
E  nel  gaudio  che  Palma  mi  rapia, 
Tutto  armici  sensi  un  riso  era  d^ amore. 
Quando  in  subita  notte  ed  in  profondo 
Silenzio  immerso  si  fé  bujo  il  mondo. 


54^  FRAiocBirn  d^uha  visione 

»  E  un  fracasso  d'un  suon  pien  di  spavento 
Incontanente  di  quel  bujo  usciva , 
9)  Non  altrimenti  fatto  che  d^  un  vento 

Impetuoso  per  la  vampa  estiva  j 
9»  Che  fier  la  selva  senza  alcun  rattento, 
E  ovunc[ue  fiero  e  polveroso  arriva, 
Tutto  schianta  ed  abbatte,  e  nulla  arresta 
La  tremenda  ira  della  sua  tempesta. 

E  nondimen  di  mezzo  alla  rapina 
Di  quel  turbo  nascea  tale  im  diletto, 
Tale  (portento  a  dirsi!)  una  divina 
Correa  dolcezza  ad  innondarmi  il  petto, 
Che  in  me  stesso  dicea:  Qual  pellegrina 
Virtù  s*è  questa  di  stupendo  effetto, 
Che  m^ atterrisce  a  un  tempo,  e  mi  rincuora, 
E  più  cresce  d^orror,  più  mMnnamora? 

Gò  dissi  appena 


FIffB  DEL    VOLUME  SECONDO. 


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